È diventato un luogo comune dire che l’Africa è il continente di tutti i mali: catastrofi naturali, pandemie, carestie, traffico d’armi e di droga, mancanza d’infrastrutture e di attrezzature ecc. Eppure, il continente possiede immense riserve di materie prime sfruttate da più di un secolo a questa parte. Da dove viene il male africano? E cosa fare per porvi rimedio?
Le autorità tendono a spiegare ogni cosa rimandando a cause esterne: la povertà è dovuta alle fluttuazioni dei prezzi mondiali delle materie prime, al peso del debito estero e agli aggiustamenti strutturali imposti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale… Ma non si sa che fine faccia il denaro che ci prestano o talvolta ci danno a fondo perduto, né il ricavato della vendita del legname, del petrolio, dei diamanti, dell’uranio ecc. Il male africano è prima di tutto la chiusura politica e la cattiva gestione dei beni pubblici. Le pagine più forti dell’Esortazione apostolica post-sinodale
Ecclesia in Africa (1995) di Giovanni Paolo II sono senza dubbio quelle dedicate alla giustizia e alla pace. Il papa denuncia i governi macchiati di corruzione, lo spreco e lo storno di fondi; i regimi autoritari e oppressivi che negano ai cittadini «la libertà personale e i diritti umani fondamentali, in particolar modo la libertà d’associazione e di espressione politica, e il diritto di scegliere i propri governanti mediante libere ed eque elezioni» (n. 112). Secondo il papa, «la più grande sfida per realizzare la giustizia e la pace in Africa consiste nel gestire bene gli affari pubblici nei due campi, tra loro connessi, della politica e dell’economia» (n. 110).
Non è un caso se l’annunziato secondo Sinodo africano (ottobre 2009) ritorna su questo tema: nulla è veramente cambiato dal 1995. Sommosse a motivo della fame scoppiano qua e là a causa di manipolazioni della Costituzione da parte di governanti impopolari ma accecati dal potere. Qui, il potere di Stato è la principale fonte di reddito e dunque l’oggetto d’ogni bramosia: permette d’arricchirsi col controllo dello sfruttamento delle materie prime come coi prestiti e le donazioni concesse dai finanziatori di fondi internazionali. I governanti non si preoccupano per nulla del benessere dei propri cittadini, ma della propria sopravvivenza, che credono di poter assicurare attraverso la repressione poliziesca. La situazione è così disperata cha la maggior parte dei giovani non vede che un’unica soluzione: partire!
Ma il male africano viene anche dall’esterno. È legato al traffico d’armi e allo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali del continente.
Ecclesia in Africa chiedeva ai paesi ricchi «di sostenere gli sforzi dei paesi che lottano per uscire dalla povertà e dalla miseria» e aggiungeva che è nel loro interesse «scegliere la via della solidarietà, perché solo così è possibile assicurare all’umanità una pace e una armonia durature» (n. 114).
Bisogna riconoscere che, al tempo del raggiungimento dell’indipendenza, i colonizzatori si sono curati di collocare ai vertici dei nuovi Stati africani degli uomini di paglia facilmente manipolabili, al fine di preservare i propri interessi economici e strategici. I patrioti sono stati sistematicamente perseguitati e assassinati. Ancor oggi vi sono Stati occidentali che sostengono governi corrotti per inconfessabili ragioni politico-economiche. Non si risolverà il problema dell’immigrazione inasprendo la legislazione e rafforzando la sorveglianza delle forze di polizia; bisogna smetterla di frequentare dittatori che affamano i loro popoli e occorre riorganizzare il commercio internazionale. Ma la situazione è divenuta ancor più preoccupante con l’arrivo dei cinesi: investendo nell’industria, nel commercio e nei lavori pubblici, danno lavoro a numerosi disoccupati, anche se per dei salari irrisori, e contribuiscono allo sviluppo di infrastrutture e di attrezzature. Questa strategia, il cui obiettivo è l’accaparramento delle materie prime, è legittimata dai dirigenti locali: i cinesi non si preoccupano del buon governo e dei diritti dell’uomo, che non sono roba da mangiare, ma in compenso danno un contributo alla lotta contro la povertà…
Numerosi giovani, convinti che non si possa cambiare nulla, sono pronti a integrarsi nel sistema pur di riuscire. Ciò che viene chiamata la gioia di vivere degli africani in realtà non è che una lunga abitudine alla disgrazia dei sistemi politici che hanno sapientemente inculcato il culto della personalità. Mentre in teoria si vive in Stati democratici, i responsabili politici si comportano come i capi delle società feudali d’un tempo, detenendo tutto il potere e pretendendo rispetto e obbedienza da parte di sudditi e dipendenti. Le violenze che hanno contrassegnato la decolonizzazione hanno condotto a una falsa idea della politica e della democrazia. Per molti, ancor oggi, chi dice politica dice menzogna, stratagemma, inganno, fino ad arrivare all’omicidio pur di raggiungere i propri scopi. È bastato a volte che il capo di un partito si presentasse come democratico per essere eliminato dal suo avversario sostenuto dal potere coloniale, poiché la parola democrazia diventa sinonimo di sovversione.
È evidente l’urgenza di ridare alla politica e alla democrazia il loro vero senso. Ma come farlo in assenza di veri partiti d’opposizione e mentre il sistema educativo è stato distrutto dalla corruzione? Fortunatamente, il senso critico e la libertà d’espressione si sviluppano, malgrado numerose difficoltà. Il Sinodo del 1994 ha insistito sull’importanza della formazione in tutti i campi. Molti vi credono, nella chiesa e fuori di essa, e si preoccupano di educare i giovani e meno giovani al senso di responsabilità, al rispetto del bene comune e alla solidarietà. Vi è forse altro rimedio oltre a questo?
Sul tema: Rosino Gibellini (ed.)
Percorsi di teologia africana Giornale di teologia 226
Bénézet Bujo
Teologia africana nel suo contesto sociale Giornale di teologia 185
© 2009 by Concilium. Rivista internazionale di teologia 1/2009
© 2009 by Teologi@Internet
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE) "