15/11/2025
596. IL KAIROS DI NICEA IERI E OGGI di Piero Coda
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Il viaggio di papa Leone XIV in Turchia corona, per così dire, l’anniversario dei 1700 anni del concilio di Nicea, celebrato a più riprese lungo tutto il 2025. Abbiamo chiesto a Piero Coda, Segretario generale della Commissione teologica internazionale, una sintesi di questo anno di festeggiamenti, perché resti chiaro il senso e l’eredità di quel primo e decisivo evento ecclesiale.


 


Al cuore della poli-crisi in cui oggi ci troviamo e che incessantemente c’incalza, l’occhio del pensiero sembra diventato cieco. Lo scrive un lucido interprete del nostro tempo come E. Morin. Con quale luce lo si potrà riaccendere?

 

1. Riaccendere l’occhio della chiesa

 

Fare memoria del concilio di Nicea, a 1700 anni dalla sua celebrazione, si è rivelato per la chiesa lungo il corso di quest’anno una grazia e una responsabilità: la chiamata a dare testimonianza, con fedeltà creativa e incisività storica, di quella luce che a Nicea – scrive san Gregorio il Teologo, ricordando l’intrepida testimonianza di sant’Atanasio di Alessandra – ha acceso «il santissimo occhio dell’ecumene» (Oratio 25, PG 35, 1213 A). Tanto che il prossimo pellegrinaggio di papa Leone a İznik (l’antica Nicea), il 28 novembre, con la prevista firma congiunta insieme al Patriarca Bartolomeo di una Dichiarazione, il giorno successivo, si preannuncia come il sigillo di questo percorso.

Se infatti vi è una priorità nella missione che Dio ha affidato alla chiesa, è quella cui la invita il veggente dell’Apocalisse: «Ti consiglio di acquistare da me collirio per ungere i tuoi occhi affinché tu possa vedere» (3,18). L’occhio che vede è stato acceso «una volta per sempre» da Gesù, «la luce del mondo» (cfr. Gv 8,12). Lo attesta la comunità apostolica sin dal principio (cfr. 1 Gv 1,1): «Noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14b). Ed è da Gesù che la chiesa riceve sempre di nuovo il collirio per ungere i suoi occhi e rinnovare il suo sguardo. Ebbene, la luce attestata dalla fede apostolica a Nicea è stata pubblicamente assunta e proposta dalla chiesa una come l’«occhio» con cui, in Cristo, si può contemplare il volto del Dio che «nessuno mai ha visto» e con questa luce negli occhi si può «comprendere quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’agape di Cristo che sorpassa ogni conoscenza» (Ef 3, 18-19).

Il Simbolo niceno riveste pertanto una specifica rilevanza nel prendere figura dell’identità della chiesa, promuovendone la missione nel corrispondere, con la professione della retta fede, all’evento di Gesù Cristo e al mistero del Dio vivente, Uno e Trino, che Egli in sé rivela per farci «partecipi della divina natura» (2 Pt 1,4). E proprio in questo ha una decisiva rilevanza anche sul piano culturale e sociale: perché esprime e promuove la trasformazione del pensiero e della prassi che scaturiscono dall’avvento di Gesù e dall’innesto dell’esistenza umana nel mistero del Dio vivente. Di ciò hanno dato ragione, nel corso dell’anno, tra gli altri, il documento della Commissione Teologica Internazionale, Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore e il volume dell’Editrice Queriniana, Ripartire da Nicea. Per leggere la fede dentro nuovi orizzonti,che ho avuto il piacere di curare con Stefano Fenaroli, che l’ha pensato e sapientemente orchestrato.

 

2. Una metanoia del linguaggio

 

Come scrive l’apostolo Paolo, se è vero che «lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio» (1 Cor 2,10), che cosa comporta che «noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato» (2,12)? Significa – risponde l’Apostolo – che «noi abbiamo il nûs, la mente, il pensiero di Cristo» (2,16): essendo chiamati a esercitare nel mondo la sua stessa phrónesis, il suo stesso esercizio del pensare e dell’agire secondo il cuore di Dio (cfr. Fil 2,2.5). Fare memoria di Nicea significa assumere questa straordinaria e generativa eredità. Nel Simbolo niceno l’evento dell’incarnazione del Figlio di Dio è riconosciuto e professato con un linguaggio che – corrispondendo con parole umane alla Parola della rivelazione – ha offerto il lessico fondamentale per esprimere l’intelligenza della fede e per articolare un pensiero e una prassi conformi alla novità accaduta in Gesù. È il lessico agapico della reciprocità trinitaria che descrive la vita di Dio, rivelata in Gesù e comunicata nello Spirito Santo alle creature.

La consapevole formulazione di questo lessico – a livello teologico, ma anche antropologico, con il suo irrinunciabile riverbero a livello ecologico – costituisce la più formidabile rivoluzione spirituale, intellettuale e pratica che di fatto si sia mai data nella storia. Nel lessico della reciprocità trinitaria, la paternità di Dio è infatti contemplata come l’iniziativa del dono che s’esprime nel donare che tutto dona al destinatario del dono, il Figlio unigenito. L’ordine del riconoscimento è quello che dal Padre va al Figlio, il quale tale è appunto perché si riconosce come Figlio, conoscendo e riconoscendo il Padre come Padre. Al cuore del mistero di Dio vive una reciprocità che pareggia l’asimmetria dell’origine nella simmetria della gratuità e totalità del dono: «Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero». Non solo perché il Padre “tutto” dona al Figlio, esercitando la paternità non come superiorità che a sé riserva qualcosa; ma perché il Padre è Padre perché tale lo conosce e lo riconosce il Figlio. Senza lasciare in ombra il fatto che questa reciprocità non è ripiegata su di sé, ma è trinitaria: accade cioè sempre nuova nel Soffio esuberante e inesauribile di vita dello Spirito Santo, e perciò è effusiva, è una reciprocità reciprocante, una reciprocità che si verifica nel suscitare, comunicandola, la dinamica di libertà e gratuità dell’agape di cui vive. 

 

3. Un annuncio che si fa dedizione

 

Di qui la priorità nella missione della chiesa: in ogni tempo, certo, ma in modo specifico in questo tempo. Si tratta – così papa Francesco nella Evangelii gaudium – diconcentrarsi nell’annuncio del Vangelo «sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario» (35): «Il kérygma è trinitario. È il fuoco dello Spirito che si dona sotto forma di lingue di fuoco e ci fa credere in Gesù Cristo, che con la sua morte e resurrezione ci rivela e ci comunica l’infinita misericordia del Padre» (164).È questa la luce che, dal cuore della fede professata a Nicea, può riaccendere l’occhio di un pensiero e di una prassi in grado di discernere e affrontare le sfide che c’interpellano. Declinando in concreto il lessico della reciprocità trinitaria come grazia di vita ecclesiale e come compito etico, politico, ecologico.

Si tratta di confessare la retta fede in Cristo vivendo a livello comunitario e sociale nell’agápe la libertà solidale con cui egli, in risposta all’agápe del Padre, s’è dato per la nostra salvezza. Questa fede operante nell’agápe (cfr. Gal 5,6) è l’espressione viva della figliolanza ricevuta in Cristo nello Spirito da Dio, riconosciuto nella sua incondizionata volontà di bene come Padre attraverso la dedizione incondizionata di sé, sotto il suo sguardo, per la liberazione e la salvezza di tutti e di ciascuno. Una dedizione non ascrivibile soltanto alla fede connotata in senso confessionale, ma che – insegna il Vaticano II (cfr. Lumen gentium 16; Gaudium et spes 22) – s’esprime nel dialogo e nella cooperazione con tutti coloro in cui è presente e agisce di fatto la grazia. Per tutti, infatti, la dedizione alla causa della gratuità e della solidarietà è propiziata dallo Spirito, nella libertà responsoriale che accoglie e testimonia la verità e la giustizia che interpellano ogni coscienza, dentro il groviglio anche contraddittorio della storia. Guardata – e assunta nelle sue sfide più crude, e anche nelle sue più cocenti sconfitte, in solidarietà con gli ultimi e gli scartati – con gli occhi della speranza che non delude (cfr. Rm 5,5).



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