La storia di quello che in Canada è stato definito un «genocidio culturale» si sta tristemente arricchendo di nuovi, tremendi capitoli. Come riportato dai media in questi giorni, nei pressi delle famigerate “scuole residenziali” vengono progressivamente individuate centinaia di tombe, tutte anonime: lì probabilmente sono stati sepolti gli “ospiti” di quegli istituti, morti vuoi per malattia vuoi per altra causa. Lo scandalo, in origine, è scoppiato negli ultimi decenni del secolo scorso, ma oggi appunto emergono nuove macabre scoperte che rendono il quadro se possibile ancor più fosco. La rivista Concilium ha coraggiosamente affrontato questo tema a più riprese. Seguendo allora i resoconti di due articoli, a firma rispettivamente di Gregory Baum (scomparso nel 2017) e di Michel Andraos, cercheremo non solo di ricostruire i contorni della vicenda, ma anche di capire quale autocritica è necessaria da parte della chiesa e della teologia[1].
1. Una cecità collettiva
Fino a poco tempo fa i nativi sono stati resi invisibili, sicché i canadesi non hanno realizzato che, a partire dagli anni Settanta del XIX secolo, il governo federale, in collaborazione con le chiese – inclusa quella cattolica e quella anglicana – costituì delle “scuole residenziali” destinate ai bambini aborigeni per tenerli separati dai loro genitori, vietando loro di parlare le lingue natie, disabituandoli alla loro cultura e assimilandoli alla maggioranza della società canadese. Nel corso degli anni, centocinquantamila bambini aborigeni e di etnia Métis vennero strappati con la forza ai loro genitori e inseriti in queste scuole residenziali. Finanziate per il minimo indispensabile dal governo e gestite dalle chiese cristiane, queste scuole si occuparono dell’istruzione di generazioni di bambini nelle condizioni più rigide immaginabili. Un gran numero di studenti rimase traumatizzato da quell’esperienza, anche se alcuni raccontano storie più positive. Le scuole residenziali vennero infine chiuse, ma soltanto negli anni Novanta del secolo scorso.
Preda della medesima cecità collettiva, le chiese erano desiderose di occuparsi delle scuole residenziali per motivi che a loro sembravano giusti. Credevano anch’esse nella superiorità della cultura occidentale; consideravano l’ottemperare alla politica governativa come il loro dovere cristiano; e, cosa ancora più importante, vedevano la loro opera nelle scuole come parte della missione di trasformare i nativi in buoni cristiani. L’attenzione pubblica venne attirata su queste scuole negli anni Ottanta e Novanta, quando alcuni nativi che vi avevano studiato si rivolsero a dei tribunali accusando dei membri del personale, tra cui dei preti e dei religiosi, di aver inflitto loro delle punizioni corporali crudeli e, peggio ancora, di aver abusato di loro sessualmente. Alcune congregazioni religiose che avevano gestito le scuole vennero condannate a versare alle vittime ingenti somme di denaro a titolo di risarcimento; altre riuscirono a negoziare degli accordi extragiudiziali, offrendo alle vittime di abuso un indennizzo economico.
In un primo momento i canadesi ebbero l’impressione che le vittime delle scuole residenziali fossero soltanto i bambini che erano stati picchiati o molestati sessualmente dal personale. Ben presto, però, la Royal Commission on Aboriginal Peoples, istituita dal governo nel 1991, nel 1996 presentò un rapporto che documentava nei dettagli l’effetto dannoso delle scuole residenziali sulla maggioranza dei bambini. Mentre un numero esiguo di loro arrivò a considerare l’istruzione ricevuta come un beneficio, capace di renderli persone attive e responsabili, la maggior parte dei bambini rimase traumatizzata per la separazione dai propri genitori, soffrì per la perdita di identità culturale, entrò in uno stato di confusione e prese a considerarsi gravemente danneggiata, incapace di reagire in modo positivo alle sfide dell’esistenza quotidiana.
Negli anni Novanta, le chiese canadesi iniziarono allora a svegliarsi dal torpore. Prestando ascolto alle testimonianze dei loro stessi membri di razza indigena, esse scoprirono l’impatto devastante del sistema delle scuole residenziali. Fecero pubblica ammenda nei confronti dei nativi. Le loro sofferte dichiarazioni di scuse riconoscevano il grave danno arrecato, confessavano la colpevole cecità delle chiese e promettevano il rispetto per l’eredità culturale dei nativi e la solidarietà a sostegno della lotta per il riconoscimento e la giustizia sociale in Canada. Da parte loro, i nativi hanno apprezzato le scuse e la promessa di solidarietà. Ciononostante, le scuse non sono sufficienti.
2. Le scuse non bastano
Nel 2008 il governo federale canadese ha messo per iscritto delle scuse formali ai sopravvissuti del sistema scolastico residenziale per gli abusi subiti e per la dominazione violenta delle popolazioni indigene in tutti gli aspetti della loro vita sociale, economica, culturale e spirituale. Facendo seguito a queste scuse, il lavoro della Commissione per la verità e la riconciliazione del Canada (Truth and Reconciliation Commission, TRC) fra il 2009 e il 2015 ha inoltre contribuito significativamente a suscitare una coscienza pubblica e a generare un moto nazionale per avviare processi di cambiamento sociale in diversi settori della società.
“Sconvolgimento” è un termine spesso usato nel corso degli ultimi anni per descrivere la portata di questi cambiamenti nei confronti delle società e delle popolazioni colonizzatrici, comprese le chiese. In questo preciso momento la società e le chiese canadesi sono effettivamente sconvolte; l’impatto e l’esito a lungo termine di questo sconvolgimento non sono ancora chiari. Tuttavia, la coltre di innocenza che ha mascherato la storia violenta del Paese e il ruolo delle chiese è stata rimossa. I rapporti della TRC hanno proposto ai canadesi una nuova narrazione della storia violenta del Paese, mettendo al centro dell’attenzione delle preoccupazioni nazionali le popolazioni indigene e la loro esperienza di vita.
Nel contesto di una nuova comprensione della complicità delle chiese nella storia coloniale e della colonizzazione del Canada e delle sue popolazioni aborigene, le chiese stesse e i loro leader stanno ora seriamente rivalutando la loro relazione con le popolazioni indigene. Questa nuova consapevolezza ha trasformato e convertito profondamente molti cristiani appartenenti a diverse chiese, come anche diversi responsabili ecclesiali, attivisti cristiani e teologi. Essi sono la forza motrice che sta dietro un ripensamento che promette di essere radicale e irreversibile.
3. Un compito per la teologia
Il coinvolgimento delle chiese cristiane nella violenta storia coloniale e nel genocidio delle popolazioni indigene è ora ben documentato e accettato come dato di fatto da molti cristiani e da molti vertici ecclesiali. Tuttavia, la comprensione teologica e le analisi di queste relazioni coloniali risultano ancora inadeguate. Mentre si stanno compiendo molti sforzi per capirne la storia e attrezzarsi a costruire nuove relazioni, nessun consistente sforzo accademico-teologico è stato fatto finora nelle principali chiese per analizzare e comprendere a fondo le teologie coloniali, l’onnipresente “colonialismo” della teologia e la violenza teologica, sia passata che presente. Se non si capisce la violenza teologica esercitata in passato, siamo inclini a ripetere gli stessi errori oggi, nonostante il lavoro per la riconciliazione venga compiuto con le migliori intenzioni.
Una comprensione sistematica dal punto di vista accademico della violenza pervasiva derivante dalle prospettive teologiche e pastorali è decisiva, se le chiese sono decise a muoversi verso nuovi cammini. Non solo le chiese in sé, ma anche le loro strutture, le pratiche sacramentali, l’interpretazione della Bibbia, il sistema educativo e altri ambiti ministeriali sono stati coinvolti nella violenza coloniale: non c’è alcun aspetto dell’azione svolta dalle chiese che non sia stato implicato. L’opera più urgente, dunque, non consiste semplicemente nel riconoscere il passato coloniale e la distruzione che ha generato, ma anche – cosa ben più importante – nel capire concretamente come la teologia, le strutture ecclesiali e i ministeri pastorali furono coloniali in determinati contesti, e come la teologia, le strutture ecclesiali e i ministeri pastorali decolonizzati dovrebbero essere, nel cammino verso nuove relazioni. Non è tanto che la teologia dovrebbe tracciare una road map decolonizzata per il futuro: il duplice compito della teologia è quello di studiare, analizzare e imparare dal passato, e quello di riflettere sulle esperienze positive e sulle prassi di riconciliazione che stanno avendo luogo in alcune diocesi e sui movimenti nazionali di riconciliazione.
Come per altre situazioni, le pratiche pastorali sono più avanzate rispetto al pensiero teologico. La teologia del futuro nascerà, in parte, dalla riflessione teologica sulle buone pratiche di riconciliazione. Questi sono compiti urgenti per la teologia oggi in Canada, al fine di contribuire al lavoro a lungo termine di decolonizzazione della teologia, delle strutture e dei ministeri pastorali delle chiese.
4. Riconciliazione, dialogo, decolonizzazione
Alla fine del suo mandato, la TRC canadese ha pubblicato un Appello all’azione indirizzato a tutti i settori della società canadese, che delinea 94 appelli «per guarire dal retaggio delle scuole residenziali e portare avanti il processo della riconciliazione canadese». Quattro degli appelli all’azione (nn. 58-61) riguardano le chiese e la riconciliazione. Chiedono a papa Francesco di porgere delle scuse per «il ruolo della chiesa cattolica romana nell’abuso spirituale, culturale, emotivo, fisico e sessuale dei bambini delle prime nazioni, Inuit e Métis, avvenuti nelle scuole residenziali cattoliche». Il secondo appello all’azione è rivolto alle chiese, affinché
sviluppino strategie educative continuative per assicurare che le loro rispettive comunità vengano a conoscenza del ruolo della chiesa nella colonizzazione, della storia e dei retaggi delle scuole residenziali, e per quali ragioni furono necessarie le scuse agli ex studenti di tali scuole, alle loro famiglie, alle comunità.
Il terzo fa riferimento all’educazione e alla formazione, al fine di sviluppare il rispetto per la spiritualità indigena. Le chiese sono chiamate alla collaborazione con i capi spirituali indigeni, con i sopravvissuti, con le scuole di teologia, con i seminari e con altri centri di formazione religiosa, per preparare ed offrire programmi di studio a tutti i seminaristi, a tutti i membri del clero e al personale che lavora nelle comunità aborigene, in base al bisogno di rispettare la spiritualità indigena nei suoi propri diritti…
Il quarto appello alle chiese riguarda lo stanziamento di fondi per progetti di guarigione e di riconciliazione, progetti per rivitalizzare la cultura e la lingua, per costruire relazioni e organizzare «colloqui regionali fra capi spirituali indigeni e giovani, al fine di discutere la spiritualità indigena, l’autodeterminazione e la riconciliazione».
Molte chiese in Canada hanno preso sul serio questi appelli all’azione e hanno risposto molto positivamente. La chiesa cattolica ha assunto impegni pubblici per agire sui punti-chiave sopra citati. Inoltre, le chiese a livello locale in Canada hanno indetto diversi progetti che rispondono a differenti aspetti degli appelli. Alcuni seminari hanno istituito programmi intensivi di immersione nella cultura indigena sotto la guida degli anziani delle prime nazioni, per introdurre i seminaristi alla spiritualità indigena e integrarla nella loro formazione teologica e pastorale.
Le reazioni iniziali sono molto incoraggianti, e programmi come questi stanno dischiudendo nuove possibilità per un futuro dialogo nel rispetto reciproco.
[1] Per una panoramica più completa, rinviamo ai seguenti testi di Concilium nella loro interezza: G. Baum, Le chiese canadesi chiedono scusa per il loro legame con il colonialismo, in Concilium 1/2014, 113-122; J.-Fr. Roussel, Chiese e teologia in Canada dopo i collegi autoctoni. Le difficili strade della verità, della riparazione e della decolonizzazione, in Concilium 3/2017, 141-149; M. Andraos, Decolonizzare la relazione con le popolazioni indigene. Sfide teologiche e pastorali a lungo termine: una riflessione dal Canada, in Concilium 4/2019, 120-132.
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