Proprio nei giorni nei quali si stava delineando in Italia la traumatica esperienza collettiva della presenza di un virus sconosciuto, veniva pubblicato dalla Queriniana un libro dal titolo che non poteva passare inosservato: Santa resilienza. Le origini traumatiche della Bibbia.
L’autore, David M. Carr, è uno studioso americano che racconta la storia di come le Bibbie, sia quella ebraica (o Antico Testamento) sia quella cristiana (o Nuovo Testamento), siano emerse in risposta alla sofferenza, in particolare alla sofferenza traumatica di gruppo, prodotta dalle grandi catastrofi della distruzione di città, di deportazioni di intere popolazioni, della perdita dell’indipendenza fino alla catastrofe traumatica della crocifissione di Cristo.
Come mai un minuscolo popolo dell’antico Medio Oriente, politicamente insignificante, culturalmente irrilevante (ha lasciato poche tracce nelle grandi “biblioteche” dell’antichità), ha prodotto la Bibbia, un’opera che, oltre che essere il punto di riferimento delle grandi religioni monoteistiche, è stata considerata come il codice dell’Occidente? Alla ricerca di una risposta soddisfacente, lo studioso americano indaga sulle origini della Bibbia, sul come e sul perché sia stato composto un simile testo capace di sfidare i secoli. E, attenendosi ai dati storicamente disponibili, porta ad individuare in alcune catastrofi traumatiche la spinta a redigere un testo che, lungo i millenni, sarà fonte di identità e strumento di sopravvivenza.
Ma perché privilegiare la catastrofe? E qui veniamo al “fascino indiscreto” della Bibbia, la quale affronta la realtà così come è e non come piace. E l’autore, fresco da una fresca personale esperienza traumatica, scende a una semplice considerazione del nostro quotidiano: «Noi facciamo progetti assecondando le nostre idee, ma ubbidiamo alla sofferenza». Israele e Giuda avevano molte “idee” prima dei traumi che li avrebbero sconvolti, provocati da secoli di dominio assiro e babilonese, da deportazioni, dal dominio romano. Così come i discepoli di Gesù avevano molte idee di riscatto messianico prima della crocifissione…
Le Bibbie, sia ebraica che cristiana, costituiscono un deposito scritto che narra secoli di sopravvivenza alla sofferenza e di resilienza condivisa. I miti delle altre nazioni, imperniate sul tema del trionfo, morirono con esse, mentre la Bibbia parla di sopravvivenza da una catastrofe totale. Le altre scritture immaginavano gli dèi padroni di imperi che dominavano sugli altri, le Scritture ebraiche e cristiane rappresentavano un Dio che arreca sofferenza al suo stesso popolo, pur conducendolo a superare la tribolazione. Esse dipingono un Dio che è sempre presente, che “vede e ascolta” il grido del suo popolo, partecipa in prima persona anche, e soprattutto, quando la vita va in frantumi, sostiene la resilienza, che è capacità di intravvedere nuove possibilità di futuro.
E quando la vita va in frantumi è utile riflettere sul come e perché nel corso dei millenni i testi biblici siano stati strumenti di resilienza. E in che modo essi continuano ancora oggi a parlare a noi e alle nostre ferite. Resilienza è una parola piuttosto gettonata oggi per indicare la capacità di ricominciare sempre, di rimettersi in piedi anche dopo esperienze che gettano a terra, di cercare semi di vita e di gioia anche quando tutto sembra perduto e di riaccendere la speranza in un futuro positivo, anche dopo la caduta nel dolore e nella fragilità.
Perché non riprendere in mano la nostra vecchia cara Bibbia in un momento come questo in cui cerchiamo fondati motivi di resilienza?
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