Heirich Fries è un noto teologo tedesco del XX secolo, autore di una Teologia fondamentale (BTC 53, 1987, esaurito). In occasione del centenario della nascita, i suoi discepoli, oggi docenti in varie università, gli hanno dedicato un testo con il titolo Il coraggio dell’ecumenismo, che qui viene presentato da uno dei suoi discepoli più noti, Peter Neuner, autore di Teologia ecumenica (BTC 110, 2011 4), e autore di un saggio sintetico nell’opera in collaborazione Prospettive teologiche per il XXI secolo (BTC 123, 2011 3).
Di Heinrich Fries è ancora disponibile nel catalogo Queriniana lo stimolante testo Di fronte alla decisione. Le chiese diventano superflue? (Nuovi Saggi 72, 1995).
Il 31 dicembre di cento anni fa nasceva Heinrich Fries. Alcuni discepoli del teologo fondamentale – nel frattempo diventati essi stessi professori emeriti – hanno ora ripubblicato un volume con testi del loro maestro sull’ecumenismo. Le affermazioni, che si possono in essi leggere, sembrano scritte direttamente per il nostro tempo e la nostra situazione. Esse incoraggiano ad una nuova apertura, proprio in un tempo nel quale lo slancio ecumenico va scemando e le chiese sembrano preoccupate di mettere a fuoco il loro rispettivo profilo piuttosto che evidenziare quanto è loro comune e vivere l’unità.
Heinrich Fries è stato un protagonista tra i più rappresentativi della teologia cattolica nel secolo XX. Nato nel 1911, egli visse, ancora come conseguenza della controversia modernistica, la separazione del cattolicesimo dal mondo moderno e dal suo pensiero nella prima metà del secolo XX. Ma già nel corso dei suoi studi egli ebbe l’opportunità di familiarizzarsi anche con l’apertura della teologia nei confronti della storia e, in tal modo, di prepararsi al risveglio che trovò il suo apice epocale nel concilio Vaticano II. Egli scrisse la sua dissertazione sulla filosofia della religione di John Henry Newman, le cui idee lo accompagnarono lungo tutta la sua esistenza teologica. I temi che Fries affrontò in continuazione furono: il posto del laico nella chiesa, il senso della fede dei credenti come fonte di conoscenza teologica, lo sviluppo della dottrina della chiesa e perciò la storicità del dogma, la coscienza come norma della fede, il condizionamento storico del dogma del 1870, riguardante l’infallibilità pontificia, la valutazione delle chiese della Riforma come testimoni della fede.
L’autorità della ragione
La teologia fondamentale, così come Fries la interpretò, è caratterizzata da un antropocentrismo coerente. Essa parte dunque, in tutti suoi singoli temi, dalla realtà dell’uomo e dalle sue esperienze. Fries ha investigato l’esperienza dell’uomo il quale si sente rinviato alla trascendenza che attende e spera, senza poter darsela da sé. E mostrò che queste speranze trovano compimento nell’evento della rivelazione. La fede appare qui non come un peso, che si deve accettare nell’obbedienza in base all’autorità divina e della chiesa, eventualmente persino contro i dettami della ragione. La fede era per lui la realizzazione piena dell’uomo, delle sue speranze e dei suoi desideri. Essa assicura ciò che fa pervenire l’uomo alla sua completezza e alla sua salvezza, la sua riuscita. Fries non ebbe bisogno di essere l’uomo piccolo e povero affinché Dio potesse essere grande e potente. Le vittorie dell’uomo sono, nella sua teologia, allo stesso tempo vittorie di Dio. La chiesa appare in essa come “avvocato dell’uomo”, come suona il titolo di un libro di Fries.
Questo convincimento Heinrich Fries sostenne nel suo insegnamento a Tübingen e a Monaco, e lo ha reso pubblico in numerose pubblicazioni. Tuttavia, egli fu conosciuto molto oltre il mondo professionale teologico, poiché si sforzò sempre di superare i confini di una teologia puramente scientifica. Egli volle rendere comprensibili i risultati della sua riflessione sulla fede anche per le persone che non possono più accontentarsi di una religiosità tradizionale e acritica, che hanno difficoltà con la chiesa e per le quali essa rappresenta spesso più uno scandalo che un aiuto a credere. Queste persone del nostro tempo e del nostro mondo, persone in ricerca, incerte, ma tuttavia fiduciose nella fede, erano, assieme ai teologi di professione, i destinatari della sua teologia. Per questo egli evitò un linguaggio da specialisti, che appare sì dotto, ma innalza barriere per il comprendere.
Teologia contro indifferenza
Fries si adirò quando ebbe l’impressione che le dichiarazioni ecclesiali non erano adatte a facilitare la riuscita dell’uomo e della sua vita. Il suo saggio “Dopo la Humanae vitae” parla un linguaggio molto chiaro. Nei suoi ultimi anni di vita egli pubblicò uno scritto sul “Soffrire a motivo della chiesa”, che rimanda ad un saggio pubblicato in Christ in der Gegenwart. Egli rese pubbliche però anche le sue prediche, che teneva quasi ogni domenica in una parrocchia cittadina di Monaco. Come teologo egli era testimone della sua fede.
Heinrich Fries è noto al grande pubblico in primo luogo come esperto di ecumenismo. In questo campo egli pose degli accenti che non sono, fino ad oggi, per nulla raccolti, né tanto meno superati. Nell’atrio dell’ecumenismo egli fu introdotto dal suo studio su Newman. Quando Heinrich Fries, nel 1958, venne chiamato a Monaco, tenne la sua prolusione sul tema “Il contributo della teologia all’Una sancta”: «La teologia deve essere l’avversario dichiarato dell’indifferenza, della falsa sicurezza e dell’arroganza che da questa nasce. Già nello sforzo teologico in quanto tale è insito il rifiuto di semplicemente capitolare di fronte all’accaduto, di fronte alla spaccatura della cristianità come un fatto irreversibile o di accettarlo, senza interrogarsi, come cosa ovvia, il rifiuto più che mai di rassegnarsi al dato di fatto come una realtà suppostamente voluta da Dio». Il teologo diventa anche oggi colpevole della spaccatura della cristianità se «egli non fa nulla di ciò che potrebbe servire al superamento della divisione, se egli tenta piuttosto tutto per garantirla, anzi forse persino per rafforzarla o approfondirla».
Due anni più tardi papa Giovanni XXIII convocava il concilio Vaticano II e improvvisamente l’ecumenismo divenne un Leitmotiv del pensiero cattolico. Il cardinale Döpfner invitò Fries ad accompagnarlo come teologo conciliare. Fries però rifiutò, non voleva essere preferito a colleghi più anziani e meritevoli. Egli era preoccupato che questa chiamata potesse creare tensioni nella facoltà e voleva evitare, per quanto possibile, delle controversie personali. Più tardi si è pentito di questa decisione. Altri teologi, più giovani di lui, non sono stati altrettanto riservati.
In concomitanza con una chiamata all’università di Münster, nel 1964 fu fondato a Monaco l’Istituto ecumenico. Nel 1968 venne istituita la facoltà teologica evangelica e in Wolfhart Pannenberg egli trovò un partner addirittura ideale per il dialogo ecumenico.
Tema di un primo seminario comune fu “Il ministero nella chiesa”. Si voleva in primo luogo creare dei fronti chiari, delimitare lo spazio all’interno del quale fosse possibile un accordo e, inoltre, anche definire confini, là dove non era possibile unificarsi. Fu un’esperienza che lasciò i segni: Anche nei punti controversi la rispettiva controparte dovette continuamente constatare che essa, forse sotto altra terminologia, insegnava e soprattutto metteva in pratica cose del tutto analoghe. Controversia dopo controversia le difficoltà, per così dire, svanirono o le parti non ebbero più la forza di motivare la divisione delle chiese a partire dalla tematica del ministero. Questo risultato divenne punto di partenza per il cosiddetto Memorandum sui ministeri, documento degli istituti universitari ecumenici tedeschi, dell’anno 1973. Questo documento culminò nelle tesi: «Sulla base delle conoscenze della teologia ecumenica non è più possibile giustificare un rifiuto del reciproco riconoscimento dei ministeri». E inoltre: «Poiché, dal punto di vista teologico, non sussiste più ostacolo decisivo al riconoscimento reciproco dei ministeri, è venuto meno un impedimento sostanziale per la comunione nella santa Cena».
Quando si era già avanti
Queste due tesi conclusive hanno sollevato un gran polverone e hanno condotto a violente discussioni. Dal punto di vista odierno si dovrà certamente dire che gli autori del Memorandum non avevano cercato abbastanza di coinvolgere l’opinione pubblica teologica e ecclesiale e in particolare i vescovi nella discussione sul ministero ecclesiale. Le conoscenze esegetiche e di storia dei dogmi, che rappresentano la base per queste tesi, non erano affatto un patrimonio generale nella chiesa. Di conseguenza le tesi erano formulate in modo troppo duro e troppo poco avvincente. La forma, però, in cui nell’opinione pubblica ecclesiale e sulla stampa venne poi condotta la discussione ha scosso Fries – e non soltanto lui. La commissione per la fede della conferenza episcopale tedesca condannò il Memorandum come non conciliabile con la fede della chiesa cattolica, prima ancora che il testo fosse apparso.
Su Heinrich Fries ciò si è abbattuto come un uragano, di cui egli ha molto sofferto. Sebbene le discussioni non fossero il suo pane, egli difese l’affermazione fondamentale secondo la quale la questione del ministero nell’ambito ecumenico non è affatto irrisolvibile, come in alcuni documenti ecclesiali con leggerezza si asseriva e come si continua ad asserire. Perciò egli si impegnò affinché le possibilità per una comunione eucaristica, possibilità che il concilio aveva dischiuso, venissero pienamente sfruttate e in particolare affinché essa non fosse rifiutata a coppie e a famiglie di diversa confessione. Le corrispettive affermazioni del sinodo di Würzburg si richiamano, non da ultimo, al suo fermo giudizio e auspicio.
Nel decennio dopo l’apparizione del Memorandum sui ministeri in moltissimi cultori di ecumenismo si diffuse la rassegnazione. Essi avevano l’impressione che la teologia avesse largamente fatto il suo lavoro. Per amore della verità cristiana non si dovrebbe più vivere in chiese separate. Tuttavia, nell’ambito ecclesiale ufficiale era difficile scorgere delle conseguenze. Le chiese vivevano le une accanto alle altre, come se tutto ciò non fosse mai stato pensato né detto. Perciò, nel 1983, Fries pubblicò insieme con Karl Rahner un progetto concreto per l’unificazione delle chiese, nel frattempo entrato nella storia della teologia come “Piano Fries-Rahner”. Essi intendevano il loro tentativo come un «grido di aiuto di cristiani che hanno l’impressione che, in questa faccenda, non si vada avanti», sebbene però alla unificazione della cristianità spettasse «una altissima priorità». In otto concise tesi, con ampia motivazione, essi esposero come l’unificazione della cristianità sia già oggi possibile, se le chiese accettano comunemente la Scrittura e le professioni di fede della chiesa antica e si astengono da un giudizio negativo riguardo a successivi sviluppi differenti.
Il fatto che Karl Rahner e Heinrich Freis – l’uno ottantenne e l’altro più che settantenne – difendessero la tesi secondo la quale l’unificazione delle chiese è possibile, solo che la si voglia, doveva portare ad una vivace reazione. Le prime esternazioni furono molto positive. La stampa parlò di una nuova fase di apertura ecumenica. Però si alzarono anche altre voci. Joseph Ratzinger scrisse: «Una forzata cavalcata verso l’unità, come l’hanno proposta recentemente Fries e Rahner con le loro tesi, è un artificio di acrobazia teologica che purtroppo non regge alla realtà. Non si può dirigere le confessioni, nei loro reciproci rapporti, come su una piazza d’armi, e dire: la cosa principale è che esse marcino insieme; ciò che esse pensano a questo riguardo non è, nei particolari, così importante».
Altri pensarono addirittura che i due teologi dovessero disconoscere la retta fede e la loro appartenenza alla chiesa. Questo ha colpito Heinrich Fries. Ma egli si era fatto più realista, aveva messo in conto l’opposizione e si aspettava che voci critiche non di rado giudicano anche in modo non oggettivo, che nascondono cattiveria e mettono subito in questione la fedeltà alla chiesa. Inoltre, egli apparteneva agli allora cosiddetti “vecchi uomini indignati” nella chiesa e non nutriva alcuna ambizione a riconoscimenti ecclesiastici. Egli ha opposto resistenza alla critica non oggettiva e ha corretto i fraintendimenti. Fino alla sua morte, nel 1998, ha lottato per le sue convinzioni e incoraggiato molte persone.
La situazione attuale dell’ecumenismo rende necessario darsi da fare affinché quanto è già stato raggiunto non venga di nuovo dimenticato e i consensi ottenuti non finiscano archiviati. Harding Meyer, da parte evangelica, e il cardinal Walter Kasper, da parte cattolica, si pronunciano perciò, attraverso “dichiarazioni”, per mettere al sicuro i risultati già ottenuti, così da impedire che si debba sempre ricominciare da capo. Heinrich Fries ha fornito degli impulsi che sono attuali oggi come lo erano decenni fa. Inoltre, essi sono spesso meno legati a clausole di quanto, in genere, si formulino oggi queste conoscenze. Egli ha indicato strade che conducono avanti e ha posto una base sulla quale si può continuare a costruire. Non a caso la selezione di testi, apparsa ora per il suo centesimo compleanno, porta il titolo “Il coraggio dell’ecumenismo”.
© 2011/2012 by Peter Neuner, Università di Monaco di Baviera
© 2012 by Teologi@Internet
Traduzione dal tedesco di Gianni Francesconi
Forum teologico diretto da Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)
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