08/04/2011
187. IL CATTOLICESIMO DEVE RITROVARE LA VIA DELL'INCARNAZIONE in La Croix, Parigi, del 26 marzo 2011
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Le statistiche sono ostinate. Quelle che misurano la presenza cristiana nella società francese ripetono la stessa cosa: ciò che i cristiani celebrano ogni domenica non interessa la stragrande maggioranza dei nostri contemporanei.


Certo, ci sono altre forme di impegno e altre maniere di vivere la fede, ciò non toglie che quello che noi celebriamo come “il mistero della salvezza” - che non è solo una salvezza personale ma, crediamo, quella dell'umanità! - non sembra, ai loro occhi, avere alcuna incidenza sulle realtà con le quali sono confrontati.

In un'epoca in cui le sollecitazioni sono molteplici, dalle urgenze materiali alla vastissima offerta di divertimenti, quello che noi celebriamo come vitale viene massicciamente escluso dalle priorità della maggior parte dei francesi. Eppure, i nostri contemporanei si trovano davanti agli stessi nostri problemi esistenziali. Vivono le stesse esperienze, conoscono gli stessi drammi e le stesse gioie, sono abitati da speranze e dubbi simili, davanti allo stato del mondo, della società, delle relazioni sociali e familiari, ecc. E poiché noi crediamo in “Dio, creatore del cielo e della terra”, dobbiamo riconoscere che sono come noi “nati dall'atto creatore di Dio”. Ma quello che noi mostriamo della fede non appare loro evidentemente come determinante per affrontare realmente ciò che vivono. Una parte del cattolicesimo, soprattutto in Francia, sembra credere che basti ritrovare la via della “religiosità” riprendendo una ritualità antica – più spesso ereditata dal XIX secolo che dalla tradizione più lontana. Tale ritorno alla “religione” incontra un certo successo, perché soddisfa un “bisogno di credere” molto diffuso. Ma come può questo ritorno indietro permettere di affrontare le sfide contemporanee, quelle della mondializzazione e delle fortissime tensioni derivanti dalla forte crescita economica di un mondo un tempo escluso dalla prosperità (la Cina, l'India, il Brasile, e domani l'Africa)? Come può permettere di affrontare le sfide dell'accelerazione prodigiosa delle capacità della tecnoscienza e del suo potere su ciò che vive, quelle dell'inizio e della fine della vita, quelle delle disuguaglianze, quelle della coesistenza delle culture, ecc.? Finché non avremo trovato il modo di dire come l'atteggiamento cristiano non regoli, ma abiti questi problemi, noi non permetteremo ai nostri contemporanei di capire quale sia la “salvezza” di cui affermiamo di vivere.

Se il cristianesimo lascia indifferenti tanti nostri contemporanei, significa che a loro sembra di aver dimenticato l'incarnazione. Colpisce vedere che la maggiore credibilità si trovi oggi dalla parte di coloro che operano concretamente a servizio dei più “poveri”... Ma, a parte la carità, non mancano i campi in cui è importante dimostrare che essere cristiani significa dare carne alla Parola in questo mondo e manifestare la sua potenza interpretativa, la sua forza di interrogazione davanti alle sfide del tempo. Significa occuparsi maggiormente delle poste in gioco contemporanee alla luce dell'intelligenza di questa Parola. Ciò non vuol dire che noi abbiamo delle risposte pronte, ma che siamo disposti a fare l'esperienza della più profonda solidarietà umana in queste sfide, quella di chi ascolta e si fa carico delle aspirazioni degli uomini e prende su di sé le loro imperfezioni, i loro balbettii, i loro errori di fronte alle tensioni, per far sì che le risposte date non siano di violenza, spersonalizzanti, contrarie alla dignità umana.

Tale solidarietà, di cui Gesù Cristo è segno vivente, dice che la salvezza non si trova nel perseguire una perfezione diversa da quella che consiste nell'assumere insieme l'imperfezione del reale, e tutte le nostre rispettive imperfezioni.

In questo senso, la sfida da raccogliere non è nelle mani solo dei vescovi e dei preti, ma di tutti i battezzati, a cui compete inventare per il mondo di oggi ciò che è l'incarnazione, la presenza reale di Gesù Cristo, in modo che i nostri contemporanei lo possano incontrare. A questa sfida non si può rispondere con discorsi magisteriali, perché tali discorsi saranno sempre percepiti come “esterni”, Ciò che spetta al Magistero, invece, è inventare le nuove modalità della sua responsabilità, per accompagnare e illuminare i battezzati affinché non confondano “la Parola” con la loro parola sempre fragile e imperfetta. Tutto ciò presuppone una comprensione delle situazioni umane più aperta, più libera, meno dominata dalla paura...



© 2011 by La Croix, Parigi, 26 marzo 2011
Traduzione: www.finesettimana.org
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