01/12/2021
500. I PASTORI: GENTE SVEGLIA! di Giulio Michelini
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Dal libro “Gesù in relazione”, scritto a quattro mani da Giulio Michelini e Mariateresa Zattoni, proponiamo alle nostre lettrici e lettori questo breve estratto, dedicato ai pastori che per primi si presentano, la notte di Natale, ad accogliere il Bambino. Con i nostri più cari auguri di un felice e santo Natale!

 

 

 

Come sappiamo dal quadro lucano, gli angeli si presentano ai pastori che «pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge» (Lc 2,8).

Prima di imparare da loro, però, dobbiamo depurare i pastori dalla cornice agreste e ingenua con cui li deponiamo nel nostro presepio familiare, o all’opposto da quell’alone di “poco di buono”, di gente poco credibile, di approfittatori. No, sono gente del mestiere, certamente non acculturati – e magari perfino disprezzabili per certi intellettuali che del loro sapere fanno una fortezza inespugnabile.

E se possiedono un gregge sono in qualche modo benestanti, nonostante la fatica del loro lavoro; anzi, la gente di città avrà bisogno del latte e del formaggio delle loro pecore, gli altari del tempio avranno bisogno dei loro animali da offrire come vittime sacrificali.

Ma perché diventano i nostri maestri? L’annuncio che ricevono nel cuore della notte è strabiliante, inimmaginabile:

L’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (Lc 2,10-12).

Mettiamoci nei panni di questa gente concreta, sveglia per lavoro. I pastori avrebbero potuto pensare: «Ma che razza di segno è? Anche i nostri figli sono avvolti in fasce e le nostre mogli nelle nostre povere case inventano una culla dove possono. Questa storia di parti disagiati nella notte la conosciamo bene...». E invece loro che fanno? Si consultano! «Dicevano l’un l’altro: “Andiamo dunque fino a Betlemme...”» (Lc 2,15): il riconoscimento di un segno non avviene mai in modo solitario, solipsistico. Non c’è un pastore che da solo dice: «Ho sentito voci e ho avuto visioni, seguitemi». La ricerca di un segno – ed è questa la fede – non avviene mai nel modo titanico di chi si erige a capo in quanto ne sa più degli altri e pretende di essere seguito (e quanti capi hanno rovinato intere generazioni e perfino popoli che dicevano di avere la vocazione di salvare!).

Prima lezione dei nostri maestri

La ricerca di un segno (fosse anche la vocazione) non è mai fuori dalla comunità, dal gruppo, è un fatto di popolo di Dio. E dunque «andarono, senza indugio» (Lc 2,16), dove quel «senza indugio» dice molto su segni precedenti («senza indugio» o – come scrive Luca – «in fretta», Maria si recò dalla cugina Elisabetta; cf. Lc 1,39): c’è un’urgenza, una prontezza, una disponibilità alla fatica che accompagna la ricerca del segno.

Ma che cosa trovano questi ricercatori? «Trovarono Maria e Giuseppe e il bambino» (Lc 2,16). Fermiamoci un attimo, per lasciarci cogliere dallo stupore. Questi pastori camminano nella notte per raggiungere un segno. E che cosa trovano? Una neomadre, un neopadre e un neonato. Forse noi ci saremmo aspettati di vedere qualcosa di speciale, dopo tutto quel baccano di musiche e di annunci. Forse ci saremmo aspettati un neonato parlante (come si legge in alcuni episodi dei vangeli apocrifi) che magari tiene una bella conferenza sul “chi sono io”; o almeno lì, in questo pezzo di alloggio adibito a stalla, una folla di angeli estatici, adoranti...

Niente di tutto questo: soltanto un normale e dimesso interno familiare. Ci siamo inventati che questi pastori, andando a visitare un neonato povero, abbiano portato con sé un po’ di latte, di formaggio fresco, magari perfino un agnellino. E forse abbiamo ragione: tra semplici ci si aiuta, ci si dà una mano in modo solidale, senza proclami. Ma resta il fatto che il “segno” annunciato dagli angeli si rivela agli occhi dei pastori un “normale” quadro di nascita. È la prima lezione sull’Incarnazione: Gesù non è arrivato con “effetti speciali”, non ha aureole, né raggi di luce che spuntano dal suo capo.

Gesù – che per ora non ha nemmeno nome: gli verrà dato otto giorni dopo (cf. Lc 2,21) – è uno di noi. Se la smettessimo di infiorettarlo, di renderlo speciale, magari ci accorgeremmo del piccolo figlio di immigrati che non ha i soldi per pagarsi la mensa alla scuola materna e faremmo così il nostro presepio, vero.

E dunque i pastori, che abbiamo eletto a nostri maestri, ci stanno insegnando che è nella normalità, nella ferialità, che troviamo il Bambino, colui che ci salva dalle nostre attese magiche, dalle nostre fughe in avanti, dalle nostre fanfare e proclamazioni che non cambiano il mondo.


I pastori diventano evangelizzatori

Ma c’è di più: i nostri maestri-pastori diventano evangelizzatori, cioè narrano ciò che hanno udito. Quel bambino normale nella sua situazione umile e disagiata è il Salvatore, cioè Colui che ci salva dai nostri peccati, Colui che è venuto per abbracciarci e portarci vicino a Dio. Questi pastori hanno il coraggio di ripetere (Lc 2,17: «riferirono») ciò che hanno udito: «È nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,11).

Chissà il cuore di Maria! Lei conosceva l’Annuncio e poi il figlio nel suo grembo era cresciuto come tutti gli altri, ed era nato come tutti gli altri e a lei erano toccate terribili difficoltà: il viaggio incinta per obbedire al potente di turno che voleva fare «il censimento di tutta la terra» (cf. Lc 2,1), il viaggio faticoso fino a Betlemme e lì – insieme al suo Giuseppe – trovare fuori di città un riparo di fortuna, perché si compirono per lei i giorni del parto: niente le era stato risparmiato! E ora questi pastori arrivati nella notte sono lì a riferire di angeli che annunciano parole che fanno eco a quelle udite nel segreto dell’Annuncio.

Forse noi – di fronte alla normalità di questo interno familiare – ce le saremmo risparmiate, quelle parole. Avremmo magari lasciato lì i nostri doni materiali e ce ne saremmo tornati a badare ai nostri affari. E avremmo privato Maria di una risorsa incredibile, di un balsamo da conservare nel cuore, come dice il testo lucano: «Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19).

Cerchiamo di non risparmiare le nostre parole, di fronte ad un “incarnato” che ha bisogno di essere custodito da un sorriso, da un futuro. Qualche volta una parola non trattenuta (senza sapere nemmeno quanto necessaria) può diventare un “angelo” attorno a una culla, un angelo che allontana i fantasmi. «Questo bambino è una benedizione di Dio», dice la neononna alla figlia sedicenne che ha avuto il coraggio di partorirlo. «Allora ho potuto amarlo», lei mi racconta.

I pastori sono tra noi. Cerchiamo di non zittirli.

 

 

 

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