Dal numero della rivista Concilium dedicato alla divina provvidenza, anticipiamo di seguito uno stralcio del denso intervento del prof. Kurt Appel, che mette a tema un’idea della provvidenza come potenziale per resistere a una svalutazione nichilista del mondo. Nonostante i più abusati luoghi comuni, a ben vedere in Hegel (e non solo!) la teodicea si manifesta sotto forma di libertà; del resto, l’idea di libertà – intesa come un mondo dotato di senso, custodito nelle mani di Dio (ecco la provvidenza) – è connessa alla capacità di amare in maniera solidale, ed è connessa all’incarnazione sempre in divenire di Gesù nella vita comunitaria.
Hegel considera teodicea la propria filosofia della storia. Quel che va appreso da questo filosofo non è tanto la sua interpretazione della storia mondiale come progresso nella consapevolezza della libertà, bensì la sua sottolineatura ancor più marcata della finitudine dell’essere, come dimostra nella Phänomenologie des Geistes e in particolare nel capitolo sulla religione. Sarebbe più esatto affermare che Hegel aggancia con forza il destino infinito dell’uomo e la divina provvidenza alla contingenza dell’essere.
Nei suoi scritti giovanili, volendo dare un’interpretazione filosofica della vita di Gesù, Hegel contrappone al giudizio astratto lo sguardo dell’amore. Dietro al giudizio sta una visione del mondo che ha preso le distanze dagli eventi per preservarsi. Oltre a ciò, tuttavia, c’è il modo solidale e simpatetico di rapportarsi al mondo, in cui l’“Io” può essere definito un “essere-con”. Questo “essere-con” è un’espressione di amore umano che, però, come ci dimostra il peccato, non è mai perfetto.
Da questa imperfezione emerge sempre il giudizio, in cui l’“Io” si eleva al di sopra dell’altro e infine anche al di sopra di Dio. Da La fenomenologia del 1807 si possono sottolineare due punti di vista pertinenti con questo articolo, cioè il discorso di Hegel sul perdono, che si trova al termine del capitolo su «La coscienza», e l’affermazione sulla morte di Dio, espressa nel capitolo su «La religione rivelata», nel quale Hegel dà una sua lettura del cristianesimo.
Il perdono, secondo Hegel
Il perdono, secondo Hegel, non è semplicemente perdonare qualcosa che qualcuno ha fatto alla persona che perdona. Esso si fonda sul comprendere che il soggetto ha sempre condannato l’altro per il semplice fatto che questi non può assumere il proprio punto di vista assoluto. In altre parole, il sé moderno – sia quello individuale che quello collettivo – tende, secondo Hegel, a mettersi al posto di Dio e da un lato pretende che l’altro sia onnisciente come Dio, dall’altro lato esige che egli (dovesse anche trattarsi di Dio) occupi sempre un posto relativo rispetto alla sua (del sé moderno) stessa assolutezza.
C’è un solo Dio, e questo Dio onnisciente sono io. Alla base del perdono sta la consapevolezza che il sé è profondamente legato all’altro, giacché né l’“Io” né l’altro possono assumere un punto di vista assoluto. In comune c’è l’essere gettati nel mondo, una forma di finitudine morale e intellettuale (noetica), in definitiva una vulnerabilità e una fragilità fisica, psicologica e morale che separa ma anche unisce gli esseri umani. Consapevolezza e umanità vere significano saper accettare la finitudine e la vulnerabilità, perdonando l’altro (e me stesso) per non essere Dio e perdonando Dio per non essere apparso come un tiranno onnipotente nel mondo. Questo perdono, tuttavia, non è prodotto dal proprio “Io”, che in tal modo consoliderebbe nuovamente una relazione gerarchica con l’altro; piuttosto, il perdono è possibile perché la contingenza è già stata perdonata. Per dirlo in un linguaggio teologico, la divina provvidenza consiste nel suo essere con noi nella nostra fragilità.
La morte di Dio onnipotente
Un’altra affermazione importante della fenomenologia hegeliana riguarda il discorso sulla morte di Dio. Non si tratta di un’invenzione di Nietzsche o di Hegel, ma affonda le sue radici nella spiritualità luterana, che accentua in modo particolare la morte di Cristo sulla croce. In ultima analisi Hegel non ha delle ricadute ateiste in mente, quando parla della morte di Dio: piuttosto, è una certa forma di Dio ad essere morta, ossia Dio come Signore onnipotente sulla vita e sulla morte.
Hegel intravede dei tratti mortiferi nell’antica concezione di Dio: il vero Dio dell’antichità è la morte che appare sotto forma di destino, onnipotente e trascendente, poiché trascende qualunque concezione. La sua prescienza consiste nella conoscenza della mortalità di ogni vita. L’eccezionalità di Gesù è che vince la morte consegnandosi ad essa. Gesù non si arrende alla paura della morte, egli la trasforma in (abban)dono della vita e in questo suo (abban)dono precede la morte.
Nella croce si palesa un’immagine di Dio a cui non si addice più, come nei regni pagani, essere osservatore intoccabile, quasi un occhio di Sauron, perché Dio è invece un essere-con empatico. Il suo posto non è più nell’aldilà celeste, ma “tra” il cielo e la terra, l’immanenza e la trascendenza, la morte e la vita, il Padre e il Figlio, il futuro e il passato.
Laddove l’intera visione del mondo degli antichi dipendeva da una rappresentazione di Dio che passava dalla figura del sovrano, il quale dispensava vita e morte in quanto rappresentante di Dio e al quale spettava mettere ogni cosa al suo posto (ma che poteva anche eliminarla in qualunque momento), ed era pertanto il signore onnisciente dell’ordine cosmico e della morte, questo ordine e tutte le sue rappresentazioni decadono con la morte e risurrezione di Gesù.
Quel che resta…
Quel che resta è la memoria dell’“essere-con”, dell’Emanuele, che diviene più intenso in quanto esperienza corporea e che da quel momento contrassegna l’esistenza del cristiano. L’amore di Dio che è-con-l’altro si manifesta in un ordine del mondo e in un’esperienza corporea che non mira più alla totalità e alla sua rappresentazione, ma che vede stare al centro il corpo incompleto e offerto, dal quale germoglia una vita nuova. Dalla frattura, dalla vulnerabilità, dalla rottura che segna il corpo divino, nasce una nuova visione della fragilità della vita e del suo bisogno di essere colmata. Il potere divino d’ora in avanti si manifesta nello Spirito che, come scrive Paolo nella Lettera ai Colossesi, ci consente di «dare compimento a ciò che manca ai patimenti di Cristo» (Col 1,24).
La teodicea si manifesta sotto forma di libertà; però l’idea di libertà, come un mondo dotato di senso nelle mani di Dio, è connessa alla capacità di amare in maniera solidale, all’incarnazione sempre in divenire di Gesù nella vita comune (chiesa). Dato che il Dio sovrano assoluto, dietro a cui si nascondono la morte e il niente, non è più la forma più alta di rappresentazione dell’essere, anche la morte risulta depotenziata. La vita non è più in transito verso il nulla, bensì va verso l’altro, che equivale a una transizione verso l’apertura di Dio stesso. La vita non è più separata da Dio ma è in Dio, fino alla più intima sensazione corporea.
(traduzione dall’inglese di Chiara Benedetti)
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