04/12/2018
418. HANS JOAS: «IL MIO RIFUGIO È UNA VECCHIA CHIESA BAROCCA» di Andreas Öhler
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Il tedesco Hans Joas è uno dei più apprezzati e prolifici sociologi contemporanei. Nel novembre 2018 ha compiuto settant’anni e in questa intervista, rilasciata ad Andreas Öhler di Konradsblatt, ci parla delle sue personali convinzioni, del suo modo di sentire l’esperienza religiosa e quei luoghi di culto della cristianità che sono le chiese. Ricordiamo che di Joas in anni recenti l’Editrice Queriniana ha pubblicato La fede come opzione, introdotta da un intelligente editoriale di Paolo Costa. Il quale farà giungere in libreria, nelle prossime settimane, la sua ultima fatica letteraria, dal titolo: La città post-secolare. Il nuovo dibattito sulla secolarizzazione. Qui, fra l’altro, vengono abbondantemente ripresi pensieri e concetti di Hans Joas.


 

Professor Joas, lei è uno studioso analitico che però non nasconde la propria fede cattolica. Può facilmente nascere il sospetto che lei manchi di una certa distanza critica…

Nel campo delle scienze religiose, l'arte sta esattamente nel collegare fra loro prospettiva esterna e prospettiva interna. Io stesso ho lavorato a lungo su altre tematiche rispetto alla religione, in ambito sociologico. A quel tempo, il mio bisogno di giustificare intellettualmente le mie convinzioni rimaneva piuttosto separato dal lavoro scientifico. Poi ho fatto delle esperienze che mi hanno aiutato a superare il divario.

 

A quali esperienze si riferisce?

A partire dalla metà degli anni Settanta sono stato spesso negli Stati Uniti. Lì è alquanto comune per dei professori e degli studenti di scienze umane e sociali prendere parte alla liturgia domenicale. La fede è senz’altro più sentita in quel paese rispetto a come avviene nella vita di tutti i giorni da noi, al punto che si può parlarne apertamente, senza sentirsi estraniati. Questo mi ha dato coraggio. Per esempio, la comunità cattolica di Chicago, della quale sono stato a lungo membro, è una comunità multietnica e di larghe vedute. È stata per me molto importante anche la lettura del classico di William James, Le varie forme dell'esperienza religiosa. Questa psicologia religiosa imperniata sullo spirito del pragmatismo americano mi ha aperto delle nuove prospettive di pensiero.

 

E da James che cosa ha appreso?

Ho imparato che quando scelgo di scrivere di religione, l'elemento cruciale è l'esperienza umana. Tutti fanno delle esperienze che li portano oltre se stessi. Alcune esperienze richiedono anche un’articolazione, altrimenti non possono essere integrate nella vita di tutti i giorni. La poesia, per esempio, può fornirci un mezzo espressivo se… non troviamo le parole. La teologia e la filosofia chiariscono e sistematizzano questi tentativi di articolazione.

 

È questo che fa la teologia? Quegli insegnamenti sembrano a molti delle frasi vuote, dei dogmi senz’anima…

Una tradizione di fede abbracciata da molte persone e che vuol giustificarsi razionalmente all’esterno non può fare a meno della riflessione teologica. D’altro canto, se le credenze tradizionali vengono trasferite in un nuovo contesto, talvolta sono difficili da comprendere, poiché il contesto storico originale non esiste più. Perciò è facile che appaiano come delle affermazioni arbitrarie.

 

Come si può allora parlare dei valori?

Anche chi non crede in senso religioso spesso ha delle ferme e salde convinzioni. Esse si formano in maniera simile alla fede, come ho cercato di dimostrare nel mio libro Die Entstehung der Werte [L'emergere di valori]. Decisiva, nell’etica come nella politica, non è dunque tanto la differenza tra credenti e non credenti, bensì la comunanza su certe convinzioni.

 

Il cristianesimo non viene oggi troppo spesso ridotto a un’esperienza estetizzata? Si è come alla ricerca di un’energia spirituale pervasiva…

Il concetto di energia si adatta piuttosto bene alla mia teoria. In qualunque esperienza di auto-trascendenza sta proprio l’esperienza di una forza che non proviene da me, ma che mi afferra. Si pensi all’innamoramento. Non è che un mattino mi alzo dal letto e decido: oggi mi innamoro. Vi sono peraltro situazioni in cui non ci si vuole innamorare – e invece capita di farlo.


Che conclusioni può trarre la chiesa da questo discorso?

Molte. Solo un esempio: i luoghi di culto dovrebbero agevolare le esperienze di trascendenza. È triste quando si trovano chiuse le porte delle chiese. Da bambino era un’abitudine, quando si passava davanti a una chiesa, entrarci a fare una visita e fermarvisi un attimo.

 

Per lei le chiese sono un luogo di riparo, un porto sicuro?

Sono cresciuto alla periferia di Monaco, dove c’era (e c’è tuttora) una chiesa barocca mèta di pellegrinaggi. Perciò su di me le chiese barocche esercitano sempre un certo effetto; lì riprendo fiato, trovo la quiete, mi sento al riparo. Ma è una cosa alquanto soggettiva. Ovunque io mi trovi nel mondo, frequento la liturgia non solo perché ne sento il bisogno spirituale, ma un po’ anche per curiosità. Nella celebrazione, sperimenti qualcosa che ti trascende; ma questo può assumere svariate forme culturali.

 

E per lei dove ha luogo questa esperienza?

Per me il fulcro è l’eucaristia. Naturalmente, non tutti vivono questa esperienza di auto-trascendenza a ogni funzione religiosa. Però vale la regola: se non ci provi, certamente non succederà. Il rituale comunitario ci rinvigorisce.

 

 

«Nella prospettiva sviluppata da Joas, la fine della contrapposizione frontale tra mentalità religiosa e mentalità secolare è una condizione essenziale per rilanciare e rinvigorire la creatività valoriale delle persone. E questa è una risorsa fondamentale di fronte alle sfide radicali cui dobbiamo rispondere nel nostro tempo» (P. Costa).



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