Che cosa abbiamo da Dio? Che cosa ci dà? Le generazioni passate avevano subito una risposta a portata di mano: la vita eterna! Poi venne l’epoca in cui, di preferenza, i teologi mettevano in guardia dalla consolazione della vita eterna ed esigevano una vita piena prima della morte. In effetti il dono di Dio non è direttamente la ‘vita eterna’, ma è il Figlio. Secondo Gv 3,16 Dio ha ‘dato’ il Figlio e Lutero traduce appropriatamente: «Diede il suo figlio unigenito». Ciò si differenzia in modo piacevolmente sobrio da altre traduzioni che parlano qui di consegnare (hingeben) o sacrificare (dahingeben), pensando così solo esclusivamente alla morte di Gesù e risvegliando associazioni quasi erotiche. No, il dono è il Figlio. Una formulazione ad un primo sguardo singolarmente vuota. Ma se si riempie il vuoto con la riflessione, si giunge a una grande ricchezza di conoscenza.
L’intero vangelo di Giovanni, inclusi i miracoli e la risurrezione, è un unico rimando e un’unica indicazione al fatto che il Figlio porta alla fede. Egli è l’argomento a favore della fede in Dio. Certo, Dio mette a rischio anche se stesso ‘dando’ il Figlio. A ogni modo il Figlio è prima di tutto dono, così come poi viene anche chiamato via, risurrezione, vita, verità o pane di vita. Il Figlio viene dato senza condizioni. L’assenza di condizioni non vale soltanto per questo dono, ma in questo caso è completa. L’evangelista cerca di rendere ciò che va aggiunto, la fede, ‘appetitosa’, nel vero senso della parola, ai suoi lettori. La fede, dice, è come quando si mangia del pane che viene offerto, si beve da un calice che viene servito.
In quanto ‘dono’ il Figlio è un’ottima spiegazione del termine ‘grazia’ in Gv 1,17. Questa grazia, infatti, non è una cosa; è appunto, esclusivamente, il Figlio stesso. Mosè donò la legge come qualcosa di svincolato e svincolabile da lui personalmente, mentre il Figlio è lui stesso grazia. In ciò si manifesta un tratto originario del primo cristianesimo. Così Gesù può dire: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa», soltanto perché entra fisicamente, di persona, in casa del pubblicano Zaccheo. E poiché dono e donatore non sono distinti, anche secondo Paolo ogni estraniamento tra Dio e il suo dono è superato. Paolo non contrappone più la legge agli esseri umani, come un regolamento estraneo. Dio mette invece direttamente nel cuore degli esseri umani, attraverso lo Spirito Santo, ciò che devono e, allo stesso tempo, possono fare. In Luca, Paolo e Giovanni, il contrasto tra dono e donatore è quindi annullato. Nel superamento di questo orribile fossato c’è una parte dell’annuncio ambizioso ed eccezionale dei primi cristiani. Qui il ‘Figlio’ non è interessante per i tratti caratteriali della sua persona; Gv 3,16 parla molto rigorosamente soltanto della sua funzione: descrive dono e pretesa, segni e automanifestazione di Dio. Non c’è posto per carinerie di qualunque sorta. Registriamo anche la completa assenza di un approccio psicologico a Gesù.
L’evangelista Giovanni (Gv 3,16) non parla qui del «Figlio prediletto», come altrimenti avviene spesso nel Nuovo Testamento. Si parla piuttosto del «mondo prediletto». Ciò è scandaloso sotto ogni punto di vista. Dio vuole bene al mondo! ‘Mondo’ significa perlomeno tutti gli esseri umani come destinatari di Dio. La chiesa antica ha un po’ ripreso l’arditezza di Gv 3,16 quando, nella liturgia pasquale, dice: «Per riscattare i servi hai sacrificato il Figlio». Qui l’audacia è certo mitigata già perché si tratta del contrasto tra Figlio e servo, e non più di quello tra Figlio e mondo. Gv 3,16 è qui molto più radicale. Ciò significa: lo stato in cui si trova il mondo non costituisce, come spesso nella questione del male e del mondo malvagio, il classico argomento contro Dio. La domanda dello scettico su dove si trovi Dio nel mondo malvagio viene ripresa dall’evangelista, che risponde: in Gesù Cristo – dove sennò? Gesù è il segno di Dio nel mondo. Questo Dio si prende tanta cura del mondo da arrischiare la cosa più preziosa che a giudizio d’uomo possiede, il proprio Figlio.
Non incontriamo qui né un Dio impotente né un Dio irretito nel mondo, né un Dio sofferente, né un Dio dalla malintesa ‘onnipotenza’, ma un Dio che si comporta come un amante, un innamorato, per dare e rischiare il Figlio per il bene del mondo che ama. Nelle religioni del mondo, come nella Bibbia, si dice spesso che gli uomini amano o devono amare Dio, come la donna che sparge l’olio profumato su Gesù e non conosce confini in quest’amore. Secondo Gv 3,16 Dio ama il mondo ‘idolatricamente’, questo amore è il vero mistero di Dio. L’esistenza cristiana può consistere soltanto nello stupirsi per tutta la vita di questa dichiarazione d’amore di Dio, che è senza paragone tra le religioni e venne e viene ancora percepita come esperienza di novità in diversi contesti pagani. Di recente è stata Madre Teresa a presentare questa essenza del cristianesimo in un ambiente induista stupito e provocato.
‘Amore’ viene chiamato l’affetto di Dio per il mondo e il suo scopo è senz’altro che gli esseri umani partecipino della vita stessa di Dio, la ‘vita eterna’. La stessa voce ‘vita’ lo dice: qui si tratta già del problema della morte. Essere morti significa infatti essere senza nome. La morte viene superata attraverso l’amore, in particolare attraverso l’amore possente e creatore di Dio, perché l’essere umano amato rimane e non passa come le mosche. Solo attraverso l’amore Dio rende partecipi di se stesso. Qui risplende ancora una volta una profonda comunanza tra Giovanni e Paolo. Anche secondo 1 Cor 13, il cantico paolino alla carità, ovvero all’amore, la carità è la cosa più grande perché resta. Perché, dunque, è come Dio stesso. Ha infatti due cose in comune con Dio: rimane ed è indistruttibilmente viva, e la sua natura è il donarsi.
KLAUS BERGER, Gesù, Queriniana, Brescia 2006, 2008 3, 76-78.
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