Seguiamo, in questo terzo momento, le battute finali della riflessione di Elizabeth Johnson. L’amore di Dio per ogni singola creatura sembra essere l’unica risposta plausibile in grado di ridare linfa non solo al nostro modo di “guardare” al creato ma soprattutto al nostro modo di “agire” in esso. Credere e riconoscere un Dio diverso può fare di noi delle persone diverse, capaci di sentirsi parte di un’unica grande comunione creaturale, voluta e ama da Dio, fino alla fine.
C’è un esperimento che può iniziare a introdurre un po’ di sobrietà nelle menti imbevute di supremazia umana. Ha a che fare con gli alberi. Nella scala dell’essere gli uomini si collocherebbero al di sopra delle piante. Quando noi umani respiriamo, inspiriamo ossigeno ed espiriamo anidride carbonica; gli alberi fanno l’opposto: assorbono anidride carbonica e producono ossigeno. Dobbiamo alla fotosintesi gran parte della produzione di ossigeno contenuto nell’atmosfera terrestre. Eliminate le piante, e gli uomini soffocheranno. Eliminate gli uomini, e le piante staranno comunque bene, anzi probabilmente meglio, perché non ci saremo più noi a tagliarle. Chi ha maggiormente bisogno dell’altro? Chi ha più valore? Secondo quale criterio?
Una robusta ecoteologia contro la “mutilazione”
Credo che, nel campo della fede, uno dei migliori antidoti alla supponenza umana sia una robusta teologia della creazione. Qui entra in gioco il linguaggio radicale della conversione, che viene usato da teologi, papi e scrittori di spiritualità per sottolineare l’ampiezza della sfida. Abbiamo bisogno di voltare pagina, di cambiare i nostri cuori, di reimpostare le nostre menti, di prendere una nuova direzione e – in un modo che potrebbe suonare strano all’orecchio religioso – di convertirci alla Terra in quanto unica e amata comunità del creato.
Sollecitando a una conversione di questo tipo e attingendo a una ben fondata teologia della creazione, Laudato si’ critica la visione che pone l’uomo al vertice come “inadeguata” e apertamente “sbagliata”. Papa Francesco sa di offrire un contributo nuovo al magistero cattolico, insistendo sul fatto che «siamo chiamati a riconoscere che gli altri esseri viventi hanno un valore proprio di fronte a Dio» (n. 69). E poi prosegue con franchezza: «Oggi la chiesa non dice in maniera semplicistica che le altre creature sono completamente subordinate al bene dell’essere umano, come se non avessero un valore in se stesse e noi potessimo disporne a piacimento»; piuttosto, «possiedono un valore intrinseco indipendente» dall’uso che noi ne facciamo (n. 140).
Si noti il linguaggio molto ponderato che va a sfidare la scala dell’essere. E perché? Perché Dio le ama, anche i piccoli efemerotteri. Ciò porta a un’affermazione radicale: «Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Invece tutte avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso la meta comune, che è Dio» (n. 83).
Quasi con un senso di agonia, Laudato si’ applica questa visione della comunità del creato alla catastrofe in corso dell’estinzione delle specie. Quando una specie si estingue, scompare per sempre: dato che l’evoluzione richiede il passaggio dei geni da una generazione alla successiva, essa non tornerà mai più. Laddove la morte corrisponde alla fine dell’esistenza per il singolo, l’estinzione equivale alla morte della stessa possibilità di nascere per una specie e a un danno per tutte le altre creature dell’ecosistema con il quale essa è in relazione. Guardando alla comunità del creato, Laudato si’ dichiara che «Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda, che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione» (n. 89).
Che idea straordinaria! La scomparsa di una specie dovrebbe colpirci come se il nostro corpo fosse stato ferito, o come se noi stessi avessimo perso un arto.
Parlando in modo chiaro, Francesco conduce la comunità del creato lungo tutto il percorso fino al futuro ultimo. «Alla fine ci incontreremo faccia a faccia con l’infinita bellezza di Dio». Sta parlando del paradiso, che naturalmente è indescrivibile. Avvolti dall’affetto, noi umani non ci ritroveremo da soli, perché tutto l’universo sarà presente, «parteciperà insieme a noi della pienezza senza fine». Infatti «la vita eterna sarà una meraviglia condivisa, dove ogni creatura, luminosamente trasformata, occuperà il suo posto» (n. 243). Rivedrò il mio cane in paradiso? Qui c’è la risposta. Non possiamo immaginarcelo, ma Francesco sta allargando la logica delle fede in Dio Creatore.
Alcuni anni fa, mentre mi trovano in Sudafrica per dei corsi accademici, ho tenuto una conferenza proprio su questa idea biblica per cui tutta la creazione sarà redenta. Ero reduce da una visita al Kruger National Park ed ero stata toccata nel profondo dalla vista dei magnifici animali africani liberi nella natura; così, decisi di abbandonare il testo che avevo preparato per dichiarare che a leoni, ippopotami, giraffe, impala, gnu, cicogne – a tutti quanti – era promesso un avvenire benedetto. Il giornale cattolico locale non fu d’accordo e pubblicò un articolo critico verso la mia conferenza, intitolato Salvezza anche per gli elefanti?
E perché no? Il Creatore non è un Dio usa e getta. Noi umani non siamo i soli soggetti del divino amore. Nella comunità del creato condividiamo tutti l’identità di base per la quale siamo delle creature amate. Nonostante tutta la differenza della specie umana, questa identità condivisa ci lega alla terra, al mare e al cielo, alle puzzole, ai gabbiani, ai salmoni, ai ragni e alle sequoie. Un giorno noi tutte creature saremo a casa nella bellezza divina, proprio come ora nel tempo la nostra casa comune è la Terra. In quanto vero e proprio insegnamento religioso, questa convinzione ha delle implicazioni etiche profonde.
Ampliare il repertorio del nostro amore
Il nostro tempo ci sollecita con urgenza a sviluppare un senso ecologico di noi stessi, in sintonia con la fede in un Dio ecologista. Alla luce del nostro comune Creatore dobbiamo ampliare il nostro senso d’identità perché venga incluso il rapporto con le altre creature, con la terra, l’acqua e l’aria, tutta la creazione. Quando avremo veramente apprezzato l’esistenza dell’“altro”, giungeremo a un nuovo punto di partenza per prendere delle decisioni. Allora potremo iniziare a cambiare alcuni dei comportamenti che si sono sedimentati in profondità e che stanno portando alla distruzione ambientale e alla povertà mondiale galoppante, a vedere il mercato come una divinità e alla nostra desolazione culturale. Onorati e deliziati dalla vita che ci circonda, potremo iniziare a sentire il grido della Terra e il grido dei poveri, e compiere i passi necessari a proteggere i nostri simili.
James Michener, in un racconto inserito nel romanzo La fonte (Rizzoli, 1968), lo sottolinea a modo suo. Come lui stesso racconta, in epoca prebiblica un popolo che viveva in un villaggio cananita del Medio Oriente adorava un dio che richiedeva dei sacrifici umani, compresi i figli primogeniti, per assicurare la fertilità dei raccolti. Una giovane donna di nome Timna, che aveva partorito di recente, amava intensamente il proprio figlio e non riusciva ad accettare che dovesse morire. Supplicò disperatamente il marito, protestò e discusse con forza, ma invano. Nel giorno stabilito, nel mezzo di una pomposa cerimonia pubblica, il marito si avvicinò all’altare e consegnò il neonato ai sacerdoti, che gettarono il fagottino tra le fiamme. Alcuni mesi dopo, ancora straziata dal dolore, Timna prese parte a un’altra cerimonia comunitaria. «E mentre gli altri facevano festa, la donna tornò verso casa a passi lenti, contemplando la vita sotto una luce nuova e dolorosa: con degli dèi diversi, suo marito Urbaal sarebbe stato un uomo diverso».
Con degli dèi diversi, suo marito sarebbe stato un uomo diverso. La saggezza spirituale della riflessione di questa donna è profonda.
Immaginate se il Dio vivente venisse continuamente e pubblicamente compreso come un creatore appassionato, amante e redentore della Terra e di tutte le sue creature – tra cui gli esseri umani. Immaginate se la gente di fede pregasse, predicasse, insegnasse, si pentisse, si lamentasse, celebrasse, lodasse e agisse in maniera responsabile, così da rendere giustizia al cuore del Dio vivente che effonde amore su tutti gli esseri umani e anche sul suolo, sulle acque e l’aria, e su ogni passero che cade a terra, come ha detto Gesù.
Con un Dio diverso, il popolo di Dio sarebbe diverso. Allora la legge morale dell’amare il prossimo come se stessi includerebbe il pipistrello e l’ape; allora l’invocazione “abbi pietà di noi”, si amplierebbe includendo non solo “noi” esseri umani, peccatori e sofferenti, ma anche l’intera comunità dei viventi, della quale facciamo parte; allora l’azione per la giustizia sociale ed ecologica scaturirebbe come parte intrinseca dello stile di vita cristiano, non come un’aggiunta posticcia.
Il fatto di ignorare questa prospettiva tiene le persone di fede e le loro chiese, sinagoghe, templi e moschee bloccate nell’irrilevanza, mentre il tremendo dramma della vita e della morte va in scena nel mondo reale. Al contrario, convertirci alla Terra in quanto membri della comunità del creato ci permette di partire per una grande avventura della mente e del cuore, ampliando il repertorio del nostro amore.
[Prima puntata: Assaggi di ecoteologia - 1][Seconda puntata: Assaggi di ecoteologia - 2]© 2023 by
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