16/08/2021
492. EVVIVA, MI ANNOIO! di Manuel Belli
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Gli antichi latini non disdicevano l’ozio, affatto! E oggi non mancano psicologi e pedagogisti che sottolineano il valore positivo del «dolce far niente»: secondo costoro, annoiarsi fa bene, perché l’offerta di un tempo destrutturato e preservato da ogni compito obbligatorio stimolerebbe, soprattutto nei bambini, la creatività e la spontaneità. Bando, dunque, a inutili passatempi e intrattenimenti: il lato luminoso della noia consiste nel costringerci a cercare stimoli diversi e a tirare fuori la nostra curiosità. La quale è un motore di conoscenza, di crescita.
D’altro canto, non solo luci ma anche ombre. Se è vero che la “noia” nel nostro dire comune copre una vastissima gamma di stati interiori, con il loro pesante corredo di irrequietezza e di depressione, Evagrio Pontico descriveva – nelle sue memorabili pagine sul “demone di mezzogiorno” – il tedio che può cogliere il monaco nelle ore più calme e calde della giornata. Molto più vicino a noi, nelle sue lettere dal carcere lo stesso Dietrich Bonhoeffer ammette di aver conosciuto da vicino un senso di inerzia, insoddisfazione, indifferenza che prostra nell’animo più profondo: un temibile compagno di cella, nelle ore più tristi!
Per sconfiggere la noia, allora, o forse per accoglierla furbescamente a braccia aperte, anche noi ci affidiamo – in questo afoso tempo d’estate, per qualcuno foriero di monotonia, insoddisfazione, tedio – alla lettura delle pagine di Manuel Belli che, nel suo recente saggio L’epoca dei riti tristi, vi dedica osservazioni acute e condivisibili.



Che cos'è la noia?

La noia è l’esperienza dell’impossibilità di sospendere la nostra esistenza: noi siamo gettati nel mondo e siamo continuamente esposti ad esso. Non possiamo sospendere la nostra vita: il mondo sempre ci appella e ci provoca. Ma a volte ne faremmo volentieri a meno. Ci sentiamo annoiati ogni volta che siamo chiamati ad assumere il peso del tempo avendo come unica attività in corso il percepire la nostra passività.

La noia è un desiderio di riempimento del tempo che sembra incredibilmente “pieno di nulla”. Si tratta di uno stato paradossale: la coscienza è provocata dalla pesantezza del vuoto. Ciò che le si propone non è percepito nel suo profilo di desiderabilità. D’altro canto, la noia diventa anche stimolo: come posso riempire questo tempo, che non mi è dato di sospendere, in modo da renderlo accettabile o, addirittura, gioioso?

Per questa ragione la noia non può che generare riti, ossia comportamenti simbolici e schematici che agiscono il senso e che iscrivono la situazione entro un quadro di significato. Molto verosimilmente se un bambino dovesse essere lasciato in un tempo di attesa, riempirebbe questo tempo giocando con quello che trova.


Il gioco e la noia


Il bambino “gioca la noia”: il tempo non occupato diviene momento generativo di esperienze ludiche. Molti pedagogisti denunciano una «tensione degli adulti verso il controllo e il governo dello spazio del gioco, un bisogno di non perdere di vista il bambino, di monitorarlo costantemente, di indirizzarlo verso giochi più utili, finalizzati a degli scopi educativi, e aventi degli obiettivi ben precisi, definiti a priori» (Digennaro, Fine dei giochi). In realtà la noia è vitale perché stimola fantasia e libertà per organizzare ludicamente il tempo. La noia potrebbe essere promotrice di creatività in quanto tempo lento, destrutturato, libero e incanalato. Giochi come “nascondino”, “guardie e ladri”, “castelli” non prevedono nulla: solo il corpo di un gruppo di bambini, un tempo libero e il desiderio di ritualizzare da bambini il momento della noia. Nel tempo destrutturato e potenzialmente noioso tutto può diventare occasione di gioco: un pezzo di legno può essere l’oggetto da portare nella base avversaria, un sasso può diventare bersaglio da colpire, un fazzoletto la bandiera da conquistare.Inventare giochi è un rito generativo che nasce dalla noia. E le piazze o i parchi pubblici sono i luoghi naturali dove celebrare questi riti.


Ma che è successo a parchi e piazze...

…dal 1985 ad oggi? La ritualità dell’abitare le case e le città è profondamente mutata negli ultimi decenni: la maggior parte delle persone risiede in un “appartamento”, linguaggio sconosciuto nei paesi fino agli anni Sessanta, in cui l’unità abitativa era per lo più il cortile. Gli spazi si privatizzano e i parchi e le piazze sono sempre più disertati dai bambini senza la presenza degli adulti. Sono di gran lunga aumentate le esigenze di sicurezza, e anche dal punto di vista legislativo i vincoli chiedono sempre più presenzialità da parte del mondo adulto. In generale l’aumento del livello di istruzione della popolazione ha creato una sorta di pedagogismo: vorremmo che i bambini leggano libri educativi, imparino giocando parole in inglese e possano vivere giochi in grado di sviluppare il loro potenziale.

Quando i giochi adultizzati terminano, c’è sempre la TV a riempire il tempo, oppure le nuove tecnologie informatiche. Spesso i genitori sono accorti: il figlio può guardare la TV ma solo con programmi evidentemente educativi, oppure può usare il tablet ma con app appositamente selezionate. E così la noia lascia i bambini, ma con essa un altissimo potenziale di fantasie ed energie. 


Più fruitori che protagonisti

Tendenzialmente siamo diventati più fruitori che protagonisti nei nostri tempi di noia: chiediamo che ci venga offerto un contenuto e siamo più restii a produrlo. L’assuefazione richiede tempi sempre più ristretti e prodotti sempre più numerosi: la serie perfetta deve sapere creare suspense, deve indurci a consumare il prodotto successivo. Diventiamo così sempre più sensibili alle iper-stimolazioni: la tecnologia permette una sempre maggiore qualità dell’esperienza audio-visiva. Anche nella noia i ritmi si fanno sostenuti, i tempi misurati dai minuti dell’episodio da visionare, le settimane si contano al ritmo delle stagioni di contenuti visualizzate. Sospendere, differire, rallentare sono verbi non compatibili con questa forma di mercato che intercetta molte energie intellettive ma libera tutto sommato pochi pensieri. E così pian piano cambia il nostro modo di diventare annoiati: abbiamo la possibilità di esserlo sempre di meno, ma perdiamo la chance di disporre di un tempo creativo per disporci a una passività recettiva.


Tra passività e attività

La noia è un meccanismo delicato tra attività e passività. Da un lato è l’attestazione della nostra più completa passività: io non sono all’origine del mio tempo. I miei giorni e le mie ore fluiscono al di là che io ne sia più o meno contento. Io mi riscopro vivo senza potermi sottrarre al compito di esistere. In molti istanti della nostra vita non abbiamo tempo di pensarci, e in altri momenti assaporiamo la bellezza dell’esserci. La noia ci pone di fronte alla crudezza di un tempo che ci è dato senza alcuna autorizzazione previa da parte nostra.

Ma un tempo vuoto è anche un tempo che spalanca una dimensione di attività: il tempo che io vivo senza alcuna decisione previa da parte mia è il luogo del mio decidermi libero. Proprio io posso decidere la qualità di questo tempo che ho tra le mani.I riti che costellano i tempi di noia sono la modalità con cui viviamo il senso che intendiamo dare ai nostrigiorni. Ogni nostra azione ha un carattere rituale, perché in esse celebriamo il senso della nostra esistenza. Se il luogo in cui celebriamo la nostra noia è l’appartamento e lo stile è una fruizione di contenuti, stiamo decidendo di “ammazzare il tempo”, come recita un modo di dire piuttosto eloquente. Ma possiamo decidere di costruire e generare nel tempo: racconti, cose, giochi, interessi, parole, relazioni. E possiamo iniziare da bambini.

Con delle buone storie, dei bei pensieri e in un ambiente libero, la noia può non fare paura e generareriti felici. Per grandi e piccoli. E riti liberi e densi sono la premessa necessaria a celebrare riti religiosi vivibili.



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