02/05/2022
509. E SE IL FINE NON GIUSTIFICA I MEZZI? di Daniel J. Fleming
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Il fine giustifica i mezzi? Sempre e comunque? Daniel J. Fleming si pone l’interrogativo d’impronta machiavellica a proposito delle scelte fatte dal governo dello stato australiano del Victoria per combattere con efficienza la pandemia da covid-19. In questo articolo – che anticipiamo a stralci dal fascicolo n. 2/2022 di Concilium, in arrivo nelle librerie – il moralista di Melbourne analizza gli interventi che risultano giustificati, in una prospettiva consequenzialista, nell’ambito della salute pubblica. Partendo da due casi di studio, egli sostiene che ci sono però beni morali essenziali da non sacrificare neanche quando il fine è quello del contenimento del virus. Diversi strumenti dell’etica sociale cattolica forniscono, in questa prospettiva, un correttivo importante, e dovrebbero essere utilizzati in modo profetico per assicurare la dignità di tutti/e. Un utile contributo al dibattito che la guerra in Ucraina ha spostato per ora in secondo piano, ma che non è mai del tutto aggirabile.

 

 

 

A luglio 2020 è iniziata, nello stato del Victoria, la “seconda ondata” della pandemia da covid-19 che ha visto oltre 18.000 abitanti infettati da coronavirus e 750 morti. Come in altri contesti, la mortalità e le forme gravi della malattia hanno avuto un impatto sproporzionato sugli anziani. Lo stato del Victoria dalle autorità è stato inserito in uno dei lockdown più lunghi e severi del mondo per controllare la diffusione del covid-19. I vittoriani che vivevano a Melbourne e dintorni hanno avuto 112 giorni di restrizioni, potendo lasciare le loro case solo a condizioni rigorose. Il lockdown si è rivelato efficace e ha portato a un periodo di relativa libertà dal covid-19 per l’Australia.

Questo happy end è stato raggiunto ricorrendo a particolari “mezzi”, molti dei quali gravosi, ma che nel complesso sono stati accettati dalla comunità come forma di sacrificio condiviso per il bene comune. Si sono tuttavia evidenziate caratteristiche preoccupanti della risposta australiana alla prima e seconda ondata di covid-19, che sono al centro del presente contributo.

Il primo caso di studio

Il primo caso di studio ebbe inizio sabato 4 luglio 2020, quando lo stato australiano del Victoria era al culmine della sua seconda ondata. Era già stato imposto un lockdown generalizzato a diversi sobborghi di Melbourne, con i residenti autorizzati a uscire di casa solo per motivi limitati ed essenziali. All’interno di queste periferie vennero imposte ulteriori misure straordinarie di lockdown tramite un ordine di detenzione a nove condomini di edilizia popolare, occupati fra l’altro da persone in difficoltà, inclusi soggetti che vivono in povertà e/o hanno complessi bisogni sanitari, oltre che rifugiati.

Ai residenti in quegli alloggi densamente popolati venne vietato uscire di casa per qualsiasi motivo, con sanzioni di quasi $ 20.000 AUD. Mentre gli altri residenti di Melbourne in lockdown vennero informati in anticipo delle restrizioni, quelli che vivevano nelle torri no: la direttiva, appena annunciata, venne applicata immediatamente. Un massiccio dispiegamento di forze dell’ordine venne inviato alle torri per garantire l’attuazione del lockdown totale, prima di permettere il coordinamento logistico di beni essenziali come cibo, farmaci e altri rifornimenti. […]

La motivazione di questo lockdown era che un numero significativo di residenti all’interno delle torri aveva contratto il covid-19 e, data l’elevata densità di popolazione e il ricircolo d’aria limitato nelle torri, il rischio di diffusione dell’infezione era elevato. La conclusione a cui giunse il governo fu che il lockdown totale era necessario per contenere qualsiasi ulteriore focolaio.

Il buon fine del controllo dell’infezione è stato utilizzato anche per deviare qualsiasi critica espressa da singoli e organizzazioni in gran numero che, sebbene concordassero con lo scopo perseguito dal governo, hanno messo in dubbio i mezzi con cui è stato raggiunto. Ciò è culminato nella constatazione del difensore civico secondo cui il governo del Victoria ha violato le leggi sui diritti umani, in particolare perché il lockdown è stato imposto con la forza e senza preavviso, osservando che «in una società giusta, i diritti umani non sono una convenzione da ignorare durante una crisi».

Il secondo caso di studio

Un altro caso di studio rivela l’impatto di un’etica consequenzialista su coloro che sono strumenti, e non solo soggetti,delle decisioni politiche. Mi riferisco a coloro che hanno lavorato nel sistema dei covid-hotel in Australia. Da noi la maggior parte dei viaggiatori internazionali durante la pandemia è stata obbligata a mettersi in quarantena in degli appositi alberghi per quattordici giorni, per assicurarsi di non essere infettati da coronavirus. Le normali funzioni di questi hotel (come la pulizia e il catering) sono state fornite dal personale dell’hotel stesso; i servizi sanitari e di sicurezza venivano invece generalmente forniti da un insieme di forze dell’ordine, servizio pubblico e contractors privati.

Data la vicinanza a individui potenzialmente positivi, coloro che lavoravano nel sistema si sono trovati in una situazione di alto rischio di infezione.Nonostante ciò, dopo un anno di operatività, sono regolarmente emerse segnalazioni di personale non adeguatamente formato e attrezzato per affrontare tale rischio. Le indagini hanno anche scoperto che alcuni hotel non erano idonei allo scopo: i loro sistemi di ventilazione esponevano il personale ad un alto rischio di contrarre il virus, anche senza che entrasse in contatto diretto con chi stava male.

Considerato come un mezzo per raggiungere un fine, tale personale non è stato protetto allo stesso modo del personale sanitario in prima linea. Tutto ciò non è cambiato nonostante le accuse mosse al sistema, le quali sono culminate nella sanzione comminata al dipartimento della sanità di uno stato per aver messo in pericolo la salute dei suoi collaboratori. […] 

Etica solidale ed etica consequenzialista a confronto

Questi due casi di studio illustrano alcuni degli esiti inquietanti di una certa impostazione nelle questioni di bioetica pubblica. Il primo rivela che le decisioni fondate sul pensiero consequenzialista possono facilmente superare i beni etici essenziali – compresi i diritti umani – nel perseguimento di buoni fini. Il secondo rivela il modo in cui le persone possono diventare schiave di questi buoni fini ed essere strumentalizzate nel processo, trattate come oggetti al servizio di un bene, piuttosto che soggetti in sé. È probabile che tali problemi diventeranno prevalenti in varie forme a fronte del contenimento del covid-19 e si presenteranno di nuovo in future emergenze di salute pubblica.

Ora, gli strumenti dell’etica teologica cattolica producono una risposta eticamente più solida: al centro di essa vi è il rifiuto dell’idea che sia necessario compromettere i beni etici per raggiungere fini buoni, in circostanze difficili.

L’etica consequenzialista in salute pubblica risulta interessante perché è focalizzata sul raggiungimento del miglior risultato possibile per la maggior parte della popolazione. Quando hanno successo, le decisioni basate su questo quadro sono politicamente popolari perché la maggior parte della popolazione viene avvantaggiata in modo misurabile e solo una minoranza subisce conseguenze negative. Il punto di partenza dell’etica teologica cattolica è invece la pari dignità di tutte le persone. In quest’ottica, anche se bisogna tener conto delle conseguenze nel processo decisionale, il proprio dovere non può essere semplicemente la massimizzazione del bene per quante più persone possibile, soprattutto se nei mezzi scelti per raggiungerlo viene lesa la dignità di alcuni. Si deve rendere conto della dignità di tutti.

L’etica sociale cattolica, in particolare, dispone di strumenti che forniscono un’alternativa al pensiero consequenzialista che mina la dignità dei pochi a favore di un buon esito per i molti. Qui sottolineo l’attualità dei princìpi di solidarietà e l’opzione per i poveri. La solidarietà invita la persona o la comunità che è preoccupata per la dignità di tutti a stare con coloro che saranno colpiti da decisioni o interventi particolari – a pensare dal punto di vista della loro dignità, a immedesimarsi e condividere le loro sofferenze. L’opzione per i poveri è una sfida per avviare tale solidarietà non prima con i “molti”, ma casomai con coloro la cui dignità è più a rischio a causa di una particolare scelta. Sottolineando l’importanza di questo approccio, papa Francesco ha recentemente affermato che solo solidarizzando con le periferie si potrà vedere chiaramente la realtà. Così facendo, la propria concettualizzazione della scelta cambia necessariamente, perché si deve rendere conto della dignità di coloro che saranno resi vulnerabili o le cui vulnerabilità saranno aggravate, da una determinata decisione. Entrambi i princìpi hanno radici bibliche nell’insegnamento di Gesù (per esempio Mt 25,31-46) e nella tradizione profetica di Israele (per esempio Is 1,17).

Tali princìpi oppongono resistenza al processo decisionale che sostiene che il fine giustifica i mezzi. Danno invece vita a un approccio che pone i mezzi scelti sullo stesso livello dei fini perseguiti: soltanto scelte che siano a favore della dignità di tutti, con una particolare attenzione ai più vulnerabili, sono eticamente giustificabili. In questo modo quei princìpi coltivano una forma di immaginazione morale che è in grado di vedere possibilità che per una coscienza consequenzialista semplicemente non sono disponibili.

L'etica cattolica è troppo idealista e poco pragmatica?

L’approccio etico-sociale non richiede la negazione delle dure realtà che affrontiamo e delle conseguenze malvagie che possono derivare da buone decisioni. Non è una ricerca ingenua di una risposta impossibile, perfetta. Piuttosto, invita una comunità e i suoi leader a prendere le decisioni partendo da un profondo impegno verso determinati princìpi fondamentali, resistendo a qualsiasi tentazione di metterli da parte nel perseguimento di fini particolari, non importa quanto desiderabili. Ciò permette di assumere decisioni prudenti, giuste e che non compromettano i beni etici essenziali, anche nel caso in cui alcuni effetti negativi siano inevitabili.

Per esempio, un breve ritardo nel lockdown del quartiere popolare avrebbe consentito una comunicazione sensibile e appropriata sull’epidemia e avrebbe assicurato l’approvvigionamento dei beni essenziali per i residenti, cosa che si sarebbe potuta effettuare senza una forte presenza della polizia. In effetti, gli stessi residenti hanno notato che semplici passi come questi avrebbero assicurato la loro sicurezza e avrebbero trasmesso loro il messaggio che il governo includeva la loro dignità e la preoccupazione per la loro salute nel suo processo decisionale. Anche se ormai è troppo tardi per adottare un approccio del genere nei confronti degli abitanti di quei quartieri, in Australia la dignità dei lavoratori dei covid-hotel è stata progressivamente presa in considerazione e rispettata. Ciò è stato ottenuto considerandoli alla stregua degli operatori sanitari in prima linea, riconoscendo il rischio connesso al loro lavoro, proteggendoli e onorandoli di conseguenza.

Ci saranno molte altre decisioni fondamentali da prendere per le comunità australiane e internazionali in futuro. Quelle persone di fede e di buona volontà che sostengono la pari dignità di tutte le persone hanno la responsabilità profetica di ricordare ai loro leader che il processo decisionale in materia di salute pubblica deve assicurare la dignità di tutti ed essere sempre orientato al bene comune (cfr. Fratelli tutti 69, 169, 176-197). Confido che queste riflessioni sosterranno tali sforzi per convincere chi comanda a decidere con saggezza, senza trattare mai le persone come un mezzo per raggiungere un fine, negando i doveri nei loro confronti o strumentalizzandoli. Una strada diversa è possibile.

 

[traduzione dall’inglese di C. Colombo]






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