Lo speciale che il settimanale Credere dedicava al perdono (n. 8/2023), facendosi accompagnare dal libro di Andreas Unger edito da Queriniana, Sulle tracce del perdono, cominciava con queste considerazioni. «Tutti dicono che il perdono è un bellissimo concetto, finché non hanno qualcosa da perdonare», disse lo scrittore C.S. Lewis – autore della celebre saga fantasy Le cronache di Narnia – in uno dei suoi discorsi radiofonici degli anni Quaranta, poi confluiti nella raccolta Il cristianesimo così com’è. Tutti abbiamo sperimentato almeno una volta nella vita quanto sia liberatorio e buono per noi e il nostro rapporto con gli altri perdonare sgarbi o torti di piccola o media entità. Ma le cose cambiano quando sul piatto ci sono fatti più gravi: la perdita di un caro, un’aggressione violenta, un trauma indelebile. In questi casi sorgono spontanee alcune domande: è sempre giusto perdonare? Si può davvero perdonare qualsiasi cosa? Di seguito proponiamo un assaggio da una delle storie raccolte da A. Unger nel suo libro, che ci parla del perdono come “riconciliazione”.
«Credo che il perdono sia come un processo che non si può forzare. Ho parlato con persone che si sono sforzate di perdonare o sono state forzate a farlo: questo in realtà ha peggiorato la loro situazione. Il perdono può avvenire solo se gli permetti di accadere e sei libero di scegliere di non perdonare» (A. Unger)
Yaël Armanet-Chernobroda abita ad Haifa, Israele, in un piccolo alloggio ben ordinato. Yaël è la vedova di un uomo che l’attentatore suicida palestinese Shadi Tobassi ha fatto saltare in aria, insieme a se stesso e ad altre quattordici persone, in un ristorante. Otto anni dopo il fatto Yaël si è recata a Jenin, in Cisgiordania, per conoscere i genitori dell’attentatore: voleva capire chi era, come era cresciuto e come viveva. La vicenda è narrata anche nel documentario tedesco Dopo il silenzio.
L’incontro
Ci vogliono alcune settimane perché la famiglia di Shadi Tobassi si senta pronta a incontrare Yaël. Prima del suo arrivo, però, Yaël fa giungere loro due richieste: vorrebbe che fossero presenti tutti i figli e i nipoti dei genitori di Shadi; e vorrebbe non essere costretta a vedere delle foto dell’uccisore di suo marito. Mentre il padre, Zakaria Tobassi, si trattiene nella moschea, Nadije Tobassi, la madre, toglie il ritratto dalla parete. È questo un segno particolarmente forte che sta al principio del loro incontro.
Poco dopo sono lì che siedono, alla presenza di tutta la famiglia Tobassi, in un soggiorno a Jenin. E conversano tra di loro. C’è una domanda che sembra aleggiare nell’aria. Yaël però non la pone. La domanda è: come è venuto in testa a vostro figlio di farlo? Come avete educato vostro figlio? Ma sono i genitori a dare una risposta: l’avrebbero distolto dal farlo se avessero intuito quello che aveva in mente. «Sono sicura che non mentono», dice Yaël. «Ma sono anche sicura che il ragazzo ha ricevuto una certa educazione a scuola e che è stato sottoposto all’indottrinamento, alla manipolazione e alla propaganda di Hamas».
Quale perdono?
Yaël parla un tedesco discreto, con un leggero accento francese. Quando vado a trovarla nella sua casa di Haifa, va subito al punto. «Perdonare (vergeben): è una parola che non conoscevo». Solo Dio può perdonare. «Chi sono io? Non sono il giudice. Per me è più importante sapere che dopo la mia visita i figli e i nipoti vedono Israele in modo diverso». Conosce però la parola verzeihen, il perdono all’altro; per lei, però, nessuna di queste due parole è la risposta giusta. E allora? «La parola più importante è “riconciliazione”». E perché? «Se è del perdono che lei parla, solo Dio può concedere il perdono. Non io. Io non posso parlare a nome di quelle persone».
E il perdono all’altro? Per lei è troppo facile perdonare così, troppo superficiale: «Va bene, perdono un altro: è facile dirlo. Ma riconciliarsi significa costruire qualcosa». Inoltre: «Che c’è da perdonare? Un giovane è arrivato e ha ucciso quante più persone possibile. Era quello l’obiettivo». Che cosa succede quando qualcuno ha perdonato un altro? «Possiamo voltare le spalle a quella persona e non vederla mai più. Per questo io dico invece: la risposta è la riconciliazione». Ha voluto che i figli e i nipoti dei Tobassi fossero presenti, perché vedessero un’ebrea in carne e ossa sedere tra loro. «Riconciliarsi significa costruire un ponte, un futuro comune insieme ai palestinesi. Ma anche vincere la paura. È vero: ho anche paura». Prima di entrare in Cisgiordania Yaël ha dovuto firmare un documento nel quale dichiarava che l’esercito israeliano non sarebbe stato responsabile nel caso ci fosse capitato qualcosa: «Indipendentemente dal tipo di morte».
Riconciliazione
Yaël mi racconta quello che è successo dopo il documentario. È andata a finire che le due madri si sono avvicinate sempre di più nei colloqui e hanno aperto i loro cuori. Adesso Yaël e la famiglia Tobassi sono state addirittura invitate a Berlino per la Berlinale. Si incontrano ogni giorno in una camera di hotel; in genere restano in compagnia le une delle altre. Una sera il padre mostra a Yaël delle immagini dei figli e dei nipoti sul cellulare. All’improvviso appare l’immagine di Shadi. Il padre la fa subito sparire. Yaël dice: «Abu Anjad, non dimenticherò mai che suo figlio era un assassino e che ha ucciso quante più persone possibile. Ma non dimenticherò mai nemmeno che era suo figlio, e che voi siete in lutto per vostro figlio». Allora si guardano tra loro, senza dire nulla. «Tutti e due avevamo le lacrime agli occhi, la madre se ne stava accanto a me, in silenzio».
E poi Yaël aggiunge: «Io so un’altra cosa che tu non sai. Lo sai che tuo figlio non solo è morto nello stesso giorno di mio marito, ma anche nello stesso giorno in cui mio marito è nato, l’8 marzo?».
«È stato quello il momento in cui abbiamo costruito insieme un ponte», racconta Yaël.
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