14/01/2005
40. E Dio in tutto questo? di Leonardo Boff
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Di fronte allo scatenamento degli elementi della natura nel Sudest Asiatico con migliaia e migliaia di vittime, specialmente di innocenti, non sono pochi quelli che, angustiati, si domandano: E Dio in tutto questo? Egli non è buono e onnipotente, come affermano le religioni? Se è onnipotente, può tutto. Se può tutto, perché non evitò il maremoto? Se non lo evitò, è forse un segno che non è onnipotente o che non è buono. Come disse un poeta-cantante: Se è per disfare, perché ha fatto? Da quando l’essere umano ha avvertito la presenza di Dio nell’universo e nella sua vita questa contraddizione rappresenta una piaga sempre aperta.
I filosofi e i teologi cristiani hanno inventato la teodicea, e cioè una argomentazione che cerca di esentare Dio dalle disgrazie del mondo e dare così una spiegazione alla sofferenza. Ma non ci sono riusciti, perché dare una spiegazione alla sofferenza non la fa cessare, così come leggere ricette culinarie non spegne la fame. Da qui comprendiamo la contesa di Giobbe, eterno protestatario, contro tutti i suoi “amici” (e ci sono incluso anch’io, come teologo, e tutte le religioni) che cercavano di spiegargli il senso del dolore: «Voi non siete nient’altro che dei parolai e dei medici di bugie. Se almeno taceste le persone vi prenderebbero per saggi». Ma noi continuiamo a non tacere…
Di fronte a questa situazione lacerante possiamo alimentare, penso, tre atteggiamenti: rivolta, rassegnazione, speranza contro ogni assurdità.
La rivolta si esprime con una negazione. Molti dicono: Dio non esiste. E se esiste, è inaccettabile, perché avremmo più domande da fare a Lui che non Lui a noi. Io mi rifiuto di accettare una creazione di Dio nella quale ci siano bambini che soffrono innocentemente. È una posizione comprensibile e logica. Ma essa non elimina il male, e questo continua. Critici, facciamo la seguente domanda: la ragione è tutto? Dio può essere quello che non possiamo comprendere.
Se la rivolta non risponde, forse la rassegnazione? Questa constata realisticamente: la realtà è fatta di bene e di male. È illusorio cercare di superare il male, perché bene e male son sempre congiunti, come la luce all’ombra. Sapienza è cercare un equilibrio e imparare a vivere senza una speranza finale. Freud e i saggi del Primo Testamento consigliavano: «Accetta il principio della realtà; modera il principio del desiderio; accetta quello che accade; mostra grandezza nel tuo dolore». Questo atteggiamento è nobile, trasforma la persona, ma non muta la realtà brutale.
Un terzo atteggiamento è quello della speranza nonostante tutto. Parte riconoscendo chiaramente: il male è un mistero indecifrabile. Esso sta lì non per essere compreso, ma per essere combattuto. Per questo non è una teoria che gli darà senso, bensì una pratica. Da questa nasce una speranza che in tutto deve esserci un senso segreto al di là dello scandalo della ragione. Esso si manifesta, per esempio, nel miracolo di un bimbo di tre mesi che si salva su un relitto che fluttua travolto dalle acque, o nella solidarietà di tutto il mondo per le vittime. La solidarietà non elimina il dolore, crea una fraternità tra quanti soffrono che impedisce la solitudine e la disperazione. I cristiani e i buddisti dicono: Dio non restò indifferente alla sofferenza. Egli soffre insieme. Andando nell’esilio della incarnazione, gridò: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?». La passione di Dio nella passione del mondo ci fa credere che la speranza abbia più futuro che la brutalità degli eventi. Dio ha promesso che «non ci sarà più pianto, né lutto, né morte, perché tutto questo è passato». E intanto, il mistero continua ad essere mistero e siamo circondati da tanta sofferenza. E quanto fa male.



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Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
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