Una ricerca sorprendente finora mai tentata, quella di Luca Castiglioni in uscita nelle librerie in questi giorni, che riesce a ripensare la comune uguaglianza battesimale di donne e uomini alla luce della differenza sessuale. Un campo di indagine semplicemente sterminato, punteggiato di mille equivoci storici e tensioni attuali, ma ricchissimo di frutti (per chi li voglia cogliere). Senza sminuire il colossale sforzo dell’autore, anticipiamo dal libro in uscita l’ultimissima parte della riflessione. Si tratta di una proposta in otto punti che prova a rendere le relazioni dei presbiteri con i laici, in particolare con le donne, «più coerenti con la novità escatologica di rapporti che “rinascono dall’alto”, essendo la pari dignità di ogni battezzata e battezzato la realtà strutturante dell’ecclesiologia del Vaticano II». Sono, se vogliamo, degli esercizi per avanzare verso la sinodalità o, più semplicemente ancora, dei suggerimenti per un ascolto reciproco. Questi suggerimenti indicano uno stile che tutti i preti potrebbero e dovrebbero assumere in quanto uomini nel popolo di Dio.
- Il primo passo da compiere consiste nel riconoscere che vi è ancora un problema relativo al modo in cui le donne sono considerate nella chiesa, mentre si ha sempre la tendenza a credere che non ce ne sia alcuno.
- Non dobbiamo mai parlare al posto delle donne o parlare – da uomini – delle donne, senza parlare con loro. Ciò implica bloccare ogni esaltazione, tanto più sospetta quanto più lusinghiera, della loro figura idealizzata.
- Ci serve anche rinnovare una vera fiducia nell’ascolto della voce delle donne da qualsiasi parte provenga, il che implica in primo luogo di non circondarsi esclusivamente di Yes Women, a tutti i livelli, e di scegliere risolutamente la via del dibattito aperto e libero sui temi difficili, come quelli della ministerialità e della corresponsabilità. Certo, una parola di donna non è intelligente a priori né per forza coerente con il vangelo, ma è imperativo riconoscere la precomprensione pesantemente negativa, nella chiesa, nei confronti del “femminismo” e la diffidenza ancora presente rispetto a quelle (e quelli) che si impegnano in questioni “di donne”. In realtà non si tratta di questioni “loro”, perché riguardano tutto il corpo della chiesa nella sua unità differenziata. Le “loro” domande, anche le più imbarazzanti, non sono da intendere come le rivendicazioni di donne frustrate, eternamente insoddisfatte e lamentose, ma esprimono la sofferenza dovuta a una emarginazione non coerente con il vangelo e anche un vivo desiderio di assumere la piena statura ecclesiale conferita dal battesimo a ogni credente.
- Cerchiamo anche di comprendere e scusare certe intemperanze di linguaggio, addirittura una certa diffidenza e quella dose di risentimento che le donne potrebbero legittimamente avere nei nostri confronti. Non sono ampiamente giustificate? È strano che chi è maltrattato si lamenti? Valutiamo soprattutto quanto sia difficile per loro collaborare in una chiesa che resta, soprattutto nei contesti istituzionali e accademici, largamente androcentrica e nella quale il maschilismo è presente in via ordinaria anche nei discorsi dei preti.
- Sapendo inoltre che una certa logica di dominazione maschile rinasce sempre, potremmo avere l’umiltà e la prudenza di introdurre degli strumenti per una “disciplina gender”. In questo senso la scelta del movimento dei Focolari, che ha sempre una donna come presidente e un uomo come vicepresidente e, su un piano diverso, il metodo della coeducazione adottato dagli scout ci sembrano paradigmatici. Simili attenzioni sono possibili a tutti i livelli, per esempio con la scelta della copresidenza maschile-femminile delle équipe pastorali o con sistemi di controllo degli interventi orali e nella leadership nel corso di riunioni o altre attività pastorali: questi non devono passare esclusivamente o in prevalenza da noi preti[1].
- Per cercare di recuperare un ritardo bimillenario ci vuole però più di questo: se non è già troppo tardi, ora è il momento di muoversi verso le donne, di andare ad ascoltarle, uscendo dall’autosufficienza presunta che ci ha caratterizzato troppo a lungo. Chiedendo di essere accolti, dovremmo dire apertamente alle donne che non possiamo né vogliamo più pensare alla condivisione della stessa appartenenza ecclesiale in una condizione che le releghi in una posizione subordinata e poco valorizzante. Bisogna dire loro e mostrare loro che noi ne soffriamo e che sappiamo che tale situazione non è voluta da Gesù Cristo. Andiamo a chiedere di collaborare, usciamo dall’autoreferenzialità. Avviciniamoci alle donne in modo non paternalistico, soprattutto con gesti che esprimano tanto la nostra presa di coscienza dell’esistenza storica della discriminazione quanto la nostra impossibilità di fare a meno della loro voce, addirittura il nostro desiderio ardente di vivere con loro come fratelli e sorelle, come amici, e non soltanto nell’esercizio della paternità sacerdotale.
- Soprattutto per le donne che non riusciamo a frequentare ci vorrebbe il coraggio di una (o più di una) scelta simbolica, che marchi gli spiriti nel mondo globalizzato in cui la chiesa deve annunciare il vangelo. Lo scopo è che tutte le donne possano “sentire” che qualcosa nella chiesa “si muove” in questo campo. Si può pensare che una forma universale di domanda di perdono per tutti i peccati secolari di sottomissione ed esclusione – domanda rivolta a tutte le donne del mondo (similmente a ciò che Giovanni Paolo II fece per il giubileo dell’anno 2000) – accompagni la richiesta rivolta alle donne di collaborare nei luoghi ecclesiali «dove si prendono le decisioni importanti»? «Sarebbe davvero impensabile», si chiede P. Sequeri, «la mediazione permanente di una specifica istituzione teologica-ecclesiale di uomini e donne che, elaborando una sensibilità realmente condivisa sul tema, la rendessero esemplarmente disponibile come anticipazione e fermento della desiderata cooperazione – fin qui “tacita” – fra il principio mariano e quello petrino della chiesa?».
- L’ultimo “esercizio di sinodalità”, riguardante più direttamente le difficoltà che la scelta di proibire l’ordinazione presbiterale alle donne implica, è anche un esercizio di immaginazione abbastanza spinto. Per rimediare all’opacità, addirittura all’ambiguità di un segno che – malgrado i suoi valori – resta molto difficile da accettare, bisognerebbe che fosse visibile non solo il fatto che Gesù Cristo ha accettato, con la parzialità della propria maschilità, la nostra umanità per riscattarla per intero, ma anche il modo in cui ha assunto tale maschilità. La “kénōsis della maschilità” che il Cristo ha realizzato dovrebbe essere più manifesta. In questo senso potrebbero essere utili un passo in avanti da parte delle donne e un passo indietro (o in basso) da parte degli uomini, che realizzano insieme un comune movimento.
Si potrebbero dunque riservare alle donne battezzate, operando una scelta disciplinare, atti ecclesiali di importanza significativa, chiedendo agli uomini di rinunciarvi (in tutto o in parte). Pratiche che esprimono in particolare la memoria del cammino delle donne evangeliche al seguito del Cristo, con riferimento alle figure di Maria, la madre di Gesù, e delle donne che gli sono rimaste fedeli nell’ora suprema, dalla passione fino alla sepoltura la mattina di Pasqua. Si potrebbe così scegliere di affidare alle donne cristiane in modo esclusivo (o maggioritario) l’amministrazione del sacramento del battesimo (seguendo l’insistenza sulla loro prossimità alle “fonti della vita”) e le celebrazioni delle esequie (soprattutto in memoria del gesto dell’unzione di Betania interpretato da Gesù come segno della sua sepoltura). Si potrebbe anche riservare alle donne l’annuncio della risurrezione durante la veglia pasquale, sull’esempio di Maria di Magdala, apostola degli apostoli. Non è chi non veda l’immensa difficoltà che comporterebbero queste proposte stravaganti, se non assurde[2]. Ma si tratterebbe di «iniziare processi più che possedere spazi» (cf. EG 223), perché questi spazi che si immagina di riservare alle donne sono unicamente strumenti (provvisori) per rendere la comunità ecclesiale più fedele a Cristo, considerando l’urgenza da risolvere: il senso di estraneità che molte donne e uomini percepiscono nei confronti delle strutture della chiesa, ancora impregnate di androcentrismo.
Insomma, la difficoltà di un cambiamento su questo terreno è immensa, ma il fatto di stazionare nella situazione attuale senza cambiare nulla crea una difficoltà ancora più grande.
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[1] Nel caso delle riunioni si potrebbe distinguere sistematicamente tra la persona che presiede (evitando, per quanto possibile, che sia il prete), quella che modera (attenta a dare la parola a tutti, affinché ognuno possa essere ascoltato e nessuno si imponga sugli altri) e quella che verbalizza (per favorire i processi di verifica, troppo spesso assenti nelle nostre comunità). Nelle attività pastorali si potrebbe procedere allo stesso modo, affinché il prete non sia al medesimo tempo chi fa l’omelia, dà gli avvisi, tiene il timing ecc. La liturgia meriterebbe un discorso a parte, che seguirebbe comunque la stessa logica della valorizzazione di ognuno e ognuna, facendo attenzione che le donne (e tutti i laici) non abbiano unicamente da ripetere «Amen».
[2] La loro enormità testimonia proprio la difficoltà a porre le necessarie scelte di rinnovamento ministeriale, pur conservando l’attuale fondazione teologica dell’esclusione delle donne dal ministero ordinato.