24/04/2008
113. Diventare Chiesa capace di comunicare. Un compito antico in tempi che cambiano di Joachim Wanke (Vescovo di Erfurt, Germania)
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Pubblichiamo questo breve articolo di Joachim Wanke, vescovo di Erfurt nella Turingia (Germania), già DDR, che, secondo le statistiche, rappresenta ora una delle zone più intensamente secolarizzate dell’Europa. Joachim Wanke è dal 1998 presidente della Commissione Pastorale della Conferenza Episcopale tedesca.


Gesù ha detto: «Può forse un cieco guidare un altro cieco?» (Lc 6,39). Per poter indicare agli altri la direzione giusta dobbiamo anzitutto visionare noi stessi la mappa. Prima di richiamare l’attenzione degli altri su qualcosa di interessante bisogna in primo luogo che noi stessi abbiamo visto qualcosa. La Chiesa esercita la sua forza di attrazione lì dove essa viene percepita non tanto come istituzione burocratica ma soprattutto come comunità vivente di fedeli.

Le considerazioni relative al compito di diventare Chiesa capace di trasmettere la Parola di Dio risultano poco convincenti se disponiamo di un unico schema di categorie contrapposte: da una parte noi battezzati e cresimati, e dall’altra coloro che non conoscono il Vangelo. Naturalmente qui qualcosa di vero c’è, ma questa contrapposizione diventa subito fuorviante se riteniamo che il Vangelo sia più vicino a noi che agli altri. Questo è sbagliato.


L’annuncio missionario – Una strada non a senso unico

In linea di principio esiste una disponibilità alla chiamata di Dio che riguarda tutti gli uomini. La vittoria pasquale di Cristo è stata ottenuta per tutti, e la volontà salvifica di Dio abbraccia tutto il genere umano. Questo è il principio fondamentale della Chiesa fin dalle sue origini. Per questo motivo la Chiesa non si è mai costituita in sette, né è diventata un circolo di saccenti che spicca altezzosamente sulla massa o che non vuole avere nulla a che fare con quest’ultima.

Questo per me, d’altronde, dimostra chiaramente che la capacità di comunicare nella fede non presuppone necessariamente una santità assoluta. Anche il malato può indicare a un altro malato il medico e la terapia adeguata. Certamente ognuno deve recarsi dal medico autonomamente. Dal punto di vista teologico è chiaro che il Vangelo, in quanto proclamazione di un «passaggio di potere» fondamentale che Dio opera in Cristo, non è così facilmente alla nostra portata da poter essere offerto agli altri come se fosse una compressa. Noi stessi abbiamo bisogno di questa «medicina», di questo orientamento di vita che si origina dalla parola di Dio; ne abbiamo bisogno continuamente e all’infinito.

Per me ne consegue che tra credenti e non credenti può esserci solo un rapporto di solidarietà esistenziale. Non possiamo ragionare avendo in mente una strada a senso unico. Non si tratta neppure di un’assistenza di persone agiate fornita a coloro che dipendono dall’aiuto altrui. Ad essere bisognosi di Dio sono tutti gli uomini, credenti e non credenti.


Ciò che allontana dalla fede in Dio

Un’obiezione fondamentale che oggi alcune persone non cristiane sollevano in merito a una forma di vita dichiaratamente religiosa, può essere così formulata: con una fede religiosa l’uomo perderebbe la sua autonomia, la sua capacità di autodeterminazione. Esiste il sospetto che la religione, e anche la religione cristiana, sia una condizione di dipendenza nella quale l’uomo sarebbe privato del suo diritto di autorealizzazione creativa e della sua autonomia morale. Questo è l’oscuro tormento che allontana molti, anche tipi riflessivi, dalla fede in Dio e nel Vangelo.

A ciò potrebbe rispondere l’antropologia, la quale sa che noi essenzialmente siamo esseri dialogici e non monologici; può rispondere la teologia, la quale ci dimostra che la libertà di Dio non può mai essere concepita come concorrenza, bensì solo come ciò che coopera alla libertà dell’uomo. Come dice il salmista, «Nella tua luce vediamo la luce!» (Sal 36,10).

Qui però non si tratta di un semplice scambio di argomentazioni razionali. Si tratta di motivi che solo il cuore conosce, come direbbe Blaise Pascal. Come si può dimostrare a colui che non ha mai osato tuffarsi in acque profonde che l’acqua regge il peso? Come si può spiegare che l’amore non rende passivi ma oltremodo attivi, se la persona interessata non ha mai sperimentato su di sé il dilemma: amare o essere amati? Chi ama resta libero, anche se colui che ama contrae obblighi, responsabilità. Ma questo avviene su un altro livello di realtà, che amplia gli orizzonti della propria vita. Vi sono legami che rendono liberi. Tra questi vi è la fede cristiana in Dio.

Il rifiuto della fede in Dio resta un mistero del cuore. Lo ammetto: nei nostri tempi la presenza divina è così oscurata che alcuni riescono a fare esperienza di Dio solo con molta difficoltà. Noi uomini di oggi vediamo ovunque soltanto noi stessi. Crediamo di comprendere tutto, ma davvero tutto, persino la religione, le sue origini, la sua storia, la sua capacità di attrazione. Eppure, chi comprende tutto, alla fine non vede più nulla!Naturalmente si potrebbe chiedere: una persona, quando parla, deve conoscere la grammatica? La grammatica è il presupposto naturale della parola e della scrittura, sul quale noi, nel suo uso quotidiano, non ci soffermiamo. Ora provo a spararla grossa: per me la grandezza, la vastità di Dio non è qualcosa né di lontano né di indistinto. Per me fa parte dell’esperienza quotidiana e di ogni istante, come può essere ad esempio il respiro. La negazione di Dio mi appare come una sorta di amnesia, di distrazione, di dimenticanza. Quando si è impegnati nella lettura non si pensano agli occhi. Vi sono legami che rendono liberi. Tra questi vi è la fede cristiana.


Memoria della gratitudine

Paolo, nel dar conto della sua incessante attività di missionario e di fondatore di comunità nell’area mediterranea, ha scritto: «Tutto infatti è per voi, perché la grazia, ancora più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l’inno di lode alla gloria di Dio» (2 Cor 4,14). È una felice formulazione di ciò che rappresenta la Chiesa. La presenza di quest’ultima ha lo scopo di moltiplicare la gratitudine a Dio. La Chiesa deve avere memoria della gratitudine. A questo compito ognuno dà il suo contributo, il singolo credente e la Chiesa come comunità.

Talvolta i cristiani chiedono che cos’abbia di particolare la loro fede. Le altre persone non si adoperano anch’esse in tutti in modi per avere una vita decorosa? Non compiono anch’esse cose esemplari nella vita quotidiana e nel lavoro? Paolo risponderebbe: sì, ma così dimenticano la gratitudine. Gisbert Keith Chesterton ha detto che la sventura degli atei è quella di non poter ringraziare nessuno. In questo, in questo «incitamento al ringraziamento» consiste il mio impegno di vescovo nella Turingia. A ciò danno il loro contributo anche tutti gli altri fedeli che operano in altri aspetti di questo compito di gratitudine della Chiesa, ad esempio nella Caritas o in altre attività quotidiane. A ciò contribuisce la madre che insegna il suo bambino a pregare, così come la catechista che trasmette ai giovani il gusto di essere cristiani. Contribuiscono i cristiani di altre chiese e comunità, ai quali ci unisce un profondo legame spirituale. Il numero più ampio possibile di persone deve scoprire attraverso noi credenti e battezzati che esiste un motivo per essere grati e che ci si può sentire «debitori» in un senso assoluto e profondo. Così alla fine trasmettiamo soltanto ciò che noi stessi riceviamo, e precisamente ciò che ogni volta riceviamo da Dio in modo nuovo. Che contributo possiamo dare perché i non credenti imparino a vedersi così?


Cautela verso la «trappola della Chiesa»

Non è detto che il nostro sforzo di annunciare il Vangelo nel nostro Paese faccia aumentare rapidamente il numero di coloro che aderiscono alla Chiesa. La distanza interiore di numerose persone nei confronti dell’istituzione Chiesa ha molteplici ragioni. Tali ragioni non meritano di essere liquidate rapidamente. Sono tuttavia convinto che, a lungo termine, la Chiesa eserciterà una nuova forza di attrazione anche per coloro che se ne sentono estranei. In un certo senso essa esercita questa attrazione già oggi, in particolare lì dove viene percepita non tanto come istituzione burocratica ma soprattutto come comunità vivente di fedeli. Gli incontri con i catecumeni mi rendono evidente questa realtà.

Dobbiamo comunque tener presente questo: se è vero che la Chiesa è solo il recipiente della grazia di Dio, lo spazio di risonanza in cui vibra la «melodia» di Dio, allora è chiaro che non la Chiesa va illuminata bensì il Vangelo.

Dico questo chiaramente, anche a rischio di suscitare irritazione, perché non vorrei che finissimo nella «trappola della Chiesa», ovvero in un atteggiamento propagandistico che si avvale della presunta perfezione e grandezza della Chiesa.

Naturalmente io mi rallegro quando la Chiesa suscita una buona impressione nel mondo. Noi possiamo e dobbiamo impegnarci totalmente affinché la Chiesa possa esercitare un forte richiamo (io stesso soffro per i suoi errori e le sue debolezze, di cui anch’io ho la mia responsabilità). Ma ciò che conta è soprattutto l’impegno che mira a rivelare ai nostri simili la grazia di essere chiamati da Dio. Costoro devono aspirare al suo Regno, essere discepoli del Vangelo, persone che improntino la loro esistenza al modello di vita di Gesù Cristo.


Incoraggiare le persone a incontrare Dio

Bisogna riflettere anche su questo: mettere le persone in contatto con Dio, con il Vangelo di Gesù Cristo, con questa visione pasquale dell’esistenza, con cui noi stessi cerchiamo di vivere. Come può realizzarsi praticamente tutto questo? Ad esempio:

con una chiesa che sia aperta tutto il giorno o anche la sera, nella quale ci sia qualcuno pronto ad accogliere e a trasmettere la Parola ai visitatori;

con corsi che introducano alla fede cristiana, ai quali si sia pubblicamente invitati;

con gruppi comunitari che siano aperti anche a non battezzati, come ad esempio un coro, un gruppo di assistenza, un circolo di genitori single, un gruppo che si dedichi agli stranieri ecc.;

impartendo riti a non battezzati (riti di benedizione, ad esempio a malati, celebrazioni per adolescenti non battezzati che si trovano alla soglia dell’età adulta, commemorazioni per i defunti ecc.);

incoraggiando una discussione pubblica sulla cultura della sepoltura e l’elaborazione del lutto (cosa a cui sto attualmente assistendo in una città così secolarizzata come Erfurt, in occasione della realizzazione di un colombario in una chiesa per custodire le urne cinerarie).

Esistono diverse possibilità di far incontrare alle persone Cristo e il suo Vangelo. E Dio conosce infiniti modi per legare a sé i cuori delle persone, anche oggi. Oggi vi è un «vento favorevole» per la testimonianza cristiana. Cito soltanto l’interesse per gli sconosciuti, la grande considerazione di cui gode la testimonianza personale, l’anelito all’acquisizione di senso, l’interesse rivolto alle radici cristiane della nostra cultura. Soprattutto, però, vi è l’anelito a ciò che non si può comprare ma soltanto donare: la possibilità di vivere relazioni buone e positive. Proprio a questo anelito viene incontro il Vangelo.

Questi sono soltanto pochi aspetti che a mio parere dimostrano che la nostra società distante dalla Chiesa è un terreno aperto per le sementi del Vangelo. Che metodi scegliere per la semina? Anzitutto è importante che siamo convinti della qualità delle sementi e dell’opportunità che un buon terreno, come dice il Signore nella sua nota parabola, può portare «molto frutto». Un seminatore che vede ovunque solo pietre ed erbacce non inizia affatto la semina. Il nostro atteggiamento è decisivo. Da qui prende inizio la possibilità di trasmettere la Parola.


Joachim Wanke, nato nel 1941 a Breslavia, dottore in teologia e professore universitario dal 1980; è del 1994 vescovo della diocesi di Erfurt, e dal 1998 presidente della Commissione Pastorale della Conferenza Episcopale tedesca.





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© 2008 by Teologi@Internet
Traduzione dal tedesco di Marco Di Serio
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)
Teologi@Internet: giornale telematico fondato da Rosino Gibellini