14/02/2006
67. Deus caritas est Commento all’Enciclica di Benedetto XVI di Janet Soskice (Cambridge – Gran Bretagna)
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Presentiamo il Commento all’Enciclica di Benedetto XVI, a firma di Janet Soskice, apparso su “The Tablet” (Londra), uno dei più noti e diffusi settimanali cattolici internazionali, in data 4 febbraio 2006. Janet Soskice, di origine canadese, è una delle più note teologhe cattoliche in Gran Bretagna: docente di teologia all’università di Cambridge, già presidente della Associazione britannica di teologia cattolica, e membro della direzione della rivista internazionale di teologia “Concilium”, dove è possibile leggere alcuni suoi articoli.


«Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1 Gv 4,16). Così inizia la lettera alla chiesa sull’amore di papa Benedetto XVI. Avrebbe potuto scegliere di incominciare con Lc 6,27 («Amate i vostri nemici») o con Gv 3,16 («Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito»), o con moltissimi altri testi di ugual risonanza sull’amore. Ma quanto in realtà ha scelto è quasi unicamente quello che si adatta al suo scopo, poiché unisce un insegnamento cristiano centrale su Dio – che Dio è amore – con ciò che è importante per noi – «chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui». La lettera procede con una sicurezza, unità ed eleganza insolite nelle encicliche papali. Promette bene per il futuro.

La prima parte della Deus caritas est è una classica riaffermazione della dottrina cristiana e cattolica sull’amore. Lasceremo ai vaticanisti e agli esperti di encicliche il compito di dirci se la seconda parte “concreta” fu stesa durante il precedente pontificato ed è stata qui cucita insieme – ma c’è così tanta continuità tra i due pontificati che la cosa è di scarsa importanza. Ciò che non si può negare è la novità e la freschezza della prima parte teologica. Il papa dipinge con colori distinti – patristici e agostiniani. L’amore è la chiave per la Scrittura, e l’amore di Dio e del prossimo è il cardine su cui ruota la vita umana. Il Nuovo Testamento, ci ricorda il papa, privilegia la parola agáp («Nel linguaggio greco […] piuttosto messa ai margini», n. 3) quando parla di amore, rispetto a éros e a philía (all’incirca, amore bramoso o sessuale, e amore di amicizia). Ma anziché soffermarsi su questa sicura osservazione, fa notare che tra gli amori umani (per la famiglia, la professione, per il prossimo e per Dio) è quello tra uomo e donna che emerge, e si espone alla tesi di Nietzsche (condivisa dalla maggior parte dell’ateismo moderno) secondo cui il cristianesimo ha distrutto l’éros, disprezzando il corpo e la vita sessuale.

La risposta del papa è che l’éros o amore di desiderio non è un male in sé ma va disciplinato e purificato. Questa è una risposta tipicamente cattolica e agostiniana, ed è magnifico vederla riaffermata qui in modo deciso, specialmente quando parecchi teorici dell’amore cristiano moderni (di solito non cattolici) la prendono in un senso talmente agapico che qualsiasi ombra di desiderio umano è immediatamente esclusa come motivata da “interesse personale” e perciò cattiva.

Sia contro gli atei, che affermano che il cristianesimo ha distrutto l’éros, sia contro gli agapici cristiani, che dicono di non aver bisogno di esso, il papa mette in evidenza come l’Antico Testamento non abbia rifiutato in alcun modo l’amore di desiderio né, seguendo questo, l’abbiano fatto i Padri cristiani. Siamo fatti per avere desideri, ma dobbiamo desiderare in modo corretto ed amare bene. In mani cattoliche il Cantico dei Cantici (che crediamo essere stato composto come un canto dell’amore coniugale che colpisce in maniera esplicita) si trasforma in un quadro del nostro desiderio di Dio. «Il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te» [Le confessioni (I, 1, 1), in Opere di Sant’Agostino I, Città Nuova, Roma 1965, 5] è la riaffermazione di Agostino dell’amore di desiderio che si addice ai cristiani, e da questo dovrebbero derivare gli amori umani, compreso l’éros, propriamente ordinati. Éros e agáp , come dice il papa, non possono mai essere interamente separati. In questa gradita riaffermazione dell’unità dell’amore, l’enciclica unisce sapere e bisogno pastorale facendo uso di una brevità impressionante.

Ugualmente impressionante è come l’enciclica tratta abilmente il rapporto del cristianesimo con il giudaismo. Nel secondo paragrafo (n. 1) ci viene ricordato che il “comandamento dell’amore” di Cristo – amare Dio e amare il prossimo come se stessi – è chiaramente ebraico, ed è la sintesi dello Shema‘, ovvero il comandamento di amare Dio con tutto il cuore di Deuteronomio 6 e quello dell’amore del prossimo di Levitico 19. Questo subito mette in dubbio quelle riduttive esposizioni cristiane dell’amore che sfruttano la facile opposizione tra il giudaismo come religione della Legge e il cristianesimo come religione dell’Amore. È dall’Antico Testamento, e non certo da Aristotele o Platone, che il cristiano ha imparato a conoscere l’amore di Dio per il mondo e per ciascuno di noi come individui. Questo è un amore personale, elettivo e di desiderio da parte di Dio, come è dimostrato dal modo audace in cui il profeta Osea paragona l’amore di Dio per Israele che sbaglia prostituendosi con déi sconosciuti, con l’amore che egli ha per Gomer, una donna chiaramente bizzarra e promiscua.

Sull’amore, la novità dell’insegnamento cristiano non consiste in «quello che Gesù ha insegnato», ma su «chi era Gesù» – perché se Dio è Amore, allora Gesù è, secondo la fede cristiana, questo Amore incarnato. Gesù è allo stesso tempo sia la patria che desideriamo, sia la nostra via verso quella terra. Il suo sacrificio sulla croce è, come ci ricorda il papa, «amore […] nella sua forma più radicale» (n. 12) e, ricevendo i sacramenti, noi, il cui amore da parte sua è troppo debole, siamo nutriti dall’Amore divino e veniamo «coinvolti nella dinamica della sua donazione» (n. 13). Per questo siamo uniti non solo a Dio ma gli uni gli altri, e diventiamo “un corpo”, come settimana per settimana i cristiani pregano nell’eucaristia.

L’amore di Dio per noi e il nostro amore per Dio deve inevitabilmente e senza eccezioni riversarsi nell’amore vicendevole. E per quanto possa essere imbarazzante stringere la mano di un estraneo in chiesa, dovremmo sempre per lo meno riflettere sulla 1 Gv 4,20 citata qui: «Se uno dicesse: “Io amo Dio” e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede».

Amo il mio prossimo, addirittura i miei nemici a causa e per mezzo dell’amore di Gesù Cristo: «Il suo amico è mio amico». Amare Dio senza manifestarlo in amore per gli altri non è amore. Ma questo amore per il prossimo fluisce non perché ci siamo preparati a venire incontro alle richieste del “comandamento dell’amore” del Signore, ma perché Dio ci ha amato per primo, e il suo amore è ampiamente sparso nei nostri cuori.

L’architettonica cristologica della prima parte, “speculativa” dell’enciclica supporta gli insegnamenti pratici della seconda: «L’esercizio dell’amore da parte della chiesa quale “comunità d’amore”».

Ci è data un’utile scorsa sulla storia della carità nella chiesa primitiva, provvista di esempi belli ed eroici: Tertulliano, che racconta come i pagani furono colpiti dalla premura dei cristiani verso ogni genere di bisogni; il diacono cristiano, Lorenzo di Roma, che, quando gli fu ordinato di consegnare i tesori della chiesa alle autorità civili, distribuì i fondi destinati ai poveri e portò questi alle autorità come il vero tesoro della chiesa.

Segue poi una critica del marxismo, accompagnata comunque dal riconoscimento che la chiesa del XIX secolo fu lenta a sensibilizzarsi verso le strutture economiche in mutamento e i bisogni sociali. Tuttavia il marxismo ha torto nel sostenere che la giustizia può sbarazzarsi del servizio dell’amore (carità). «Il giusto ordine della società e dello Stato è compito centrale della politica» (n. 28), afferma l’enciclica, e la chiesa non deve sostituire lo Stato. Ciò per dire che la promozione della giustizia entro lo Stato è sempre una delle preoccupazioni della chiesa. Sebbene alcuni possano leggere questo come un attacco alla teologia della liberazione (se si può dire che quel movimento esista ancora) non sembra essere necessariamente così, tranne che nel caso di qualcuno che realmente pensava che la giustizia avrebbe eliminato il servizio dell’amore.

Rivolgendosi alla globalizzazione e ai rapidi mutamenti che contraddistinguono il nostro tempo, il papa si rivolge alla diffusione di organizzazioni e attività caritative non governative, molte di queste cattoliche, attualmente in servizio nel mondo. Parlando in prima persona singolare (un fatto che colpisce in un’enciclica) dice: «Vorrei qui indirizzare una particolare parola di apprezzamento e di ringraziamento a tutti coloro che partecipano in vario modo a queste attività» (n. 30), esprimendo la preoccupazione che queste, specie se “cattoliche”, comprendano veramente gli elementi della carità “cristiana ed ecclesiale”, e questo specialmente di fronte all’«incombente secolarismo di molti cristiani impegnati nel lavoro caritativo» (n. 37).

Il papa offre tre guide per mantenere sulla via giusta quanti esercitano un simile servizio: la carità cristiana è dapprima «semplicemente la risposta a ciò che, in una determinata situazione, costituisce la necessità immediata: gli affamati devono essere saziati, i nudi vestiti, i malati curati in vista della guarigione, i carcerati visitati, ecc.» (n. 31); in secondo luogo, la carità cristiana è indipendente dai partiti e dalle ideologie; e, inoltre, la carità cristiana «non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo» (n. 31). L’ultimo di questi punti è gradito e persino molto bello, ma i primi due possono suscitare problemi per quanti devono prendere delle decisioni nelle associazioni di aiuto cattoliche. L’aver a che fare con «ciò che, in una determinata situazione, costituisce la necessità immediata» esclude i problemi della riforma di un paese o dello sgravio dei debiti? bisognerebbe occuparsi delle ferite degli schiavi, ma non cercare di abolire la schiavitù? Se è così, ciò si discosterebbe dall’insegnamento di molti dei Padri della chiesa, che non solo dissero alle loro ricche congregazioni di nutrire i poveri, ma affermarono che i poveri erano tali a causa dell’avidità dei ricchi.

Ma il punto fondamentale del papa qui è che le opere di carità cattoliche e cristiane devono essere basate sull’amore di Dio, e non sulla promessa di qualche utopia costruita dall’uomo. Se, come i santi e specialmente Maria, la nostra speranza è in Dio, allora non dispereremo anche se, nel medio termine, le nostre buone azioni sembrano avere una piccola e facile conseguenza.


Senza dubbio alcuni dei commenti sulla seconda parte che tratta dei limiti propri delle attività d’aiuto cattoliche genereranno delle discussioni, ma spero che queste non mettano in ombra la reale bellezza e l’energia teologica della prima enciclica di papa Benedetto. È la prima di cui mi rendo conto che l’autore in essa più che mai parla in prima persona, un cambiamento di voce assolutamente gradito in una lettera che tratta di amore e di relazioni. E il papa vi include una celia – discutendo del dualismo cartesiano, egli nota che l’amico epicureo di Descartes, Gassendi, si rivolse a lui col saluto: «O Anima», al che il filosofo replicava dicendo: «O Carne».

Se c’è una cosa che mi sembra manchi è una discussione sull’amore di sé. Nessun aspetto del comandamento del Signore è più ignorato nell’insieme dai teorici dell’amore cristiani, eppure Cristo ci esorta, come ha riconosciuto Agostino, non solo ad amare Dio e il prossimo, ma ad amare propriamente “se stessi”, «ama il prossimo tuo come te stesso». Forse possiamo attenderci di leggere ancora di più su questo tema, e su altro ancora, nella prossima lettera del nostro amico, papa Benedetto.




© 2006 by The Tablet - International Catholic Newspaper (Londra, 4 febbraio 2006)
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Traduzione dall'inglese della Redazione Queriniana
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)
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