Lo scrittore Claudio Magris in un suo recente articolo notava che i cattolici si sono dimenticati alla svelta di un grande teologo come Karl Rahner (1904-1984). Karl Rahner è una delle figure più importanti della teologia del XX secolo (e si deve dire che è in corso l’edizione critica dell’Opera Omnia presso Herder), ma è anche uno scrittore di spiritualità, che è stato molto amato e letto anche dal grande pubblico. Sono molti i brevi testi di spiritualità pubblicati anche in lingua italiana dalla Queriniana, dalla Morcelliana, dalle Paoline e da San Paolo. In Germania è stato recentemente riedito il breve libro “Parole per un’esperienza di fede”, che è una breve antologia rahneriana di testi di spiritualità, edita in traduzione italiana dalla Queriniana (1998) nella collana «Meditazioni» (139). Proponiamo questo testo, tolto dall’antologia citata.
Siamo tutti radunati attorno alla croce del Crocifisso, sia che alziamo gli occhi a lui o cerchiamo di passargli davanti senza guardarlo, sia che siamo in un momento di buonumore e soddisfatti (a nessuno è vietato esserlo) o spaventati da morire. Stiamo sotto la croce come coloro che sono a loro volta destinati a morire, come coloro che sono caduti nella colpa, come i delusi, come coloro che sono rimasti debitori di amore verso gli altri, come gli egoisticamente codardi, come coloro che soffrono incompresi a motivo di se stessi, degli altri e della vita. Quando ci sentiamo bene, protestiamo naturalmente contro un simile pessimismo ‘piagnucoloso’, che vorrebbe presumibilmente avvelenarci la gioia di vivere (cosa che non va affatto bene); quando ci sentiamo forti nell’anima e nel corpo, non vogliamo credere che tale forza è limitata e che un giorno ci abbandonerà. Eppure è così: stiamo sotto la croce.
Non faremmo quindi bene ad alzare gli occhi a colui che abbiamo trafitto, come dice la Scrittura? Non sarebbe una cosa salutare lasciar emergere il rimosso, voler stare lì dove siamo? Non potremmo farci coraggio o, meglio, lasciarci fare coraggio dalla grazia di Dio e accettare lo scandalo e l’assurdità della nostra inevitabile ‘posizione’ come la «forza di Dio e la sapienza di Dio», mentre alziamo lo sguardo al Crocifisso e entriamo nel mistero della sua morte?
Molti lo fanno certamente, senza dirselo ancora una volta, mediante l’atto tacito della loro vita, che accetta docilmente in silenzio la morte. Ma possiamo anche non compiere questo ultimo atto della nostra vita. È perciò meglio celebrare anche espressamente il venerdì santo del Signore, avvicinarsi alla sua croce, ripetere le sue parole. Esse sono molto semplici; chiunque le può comprendere e ripetere. Qui siamo di fronte all’abisso dell’esistenza, in cui cadiamo. E crediamo che lì abitino l’amore e la vita stessa, cioè Dio. Diciamo: Padre. Preghiamo: Padre, nelle tue mani affido me, il mio spirito, la mia vita, la mia morte. Così facendo abbiamo fatto quel che in fondo potevamo fare. Il resto, l’ineffabile, quel che è la salvezza, verrà.
(Da Parole per un’esperienza di fede, Queriniana, Brescia 1998)
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Editrice Queriniana, Brescia (UE)