Di seguito presentiamo uno stralcio del dossier che la rivista Jesus ha dedicato, nel numero di agosto 2018, alle Filippine e alla sanguinosa campagna che il presidente Duterte ha intrapreso formalmente contro le bande del narcotraffico, ma fatalmente destinata a colpire anzitutto gli strati più poveri della popolazione. Una strage che conta già ventimila morti, e una politica contro cui si battono – fortemente osteggiati dalla presidenza filippina (cfr. le recenti violente dichiarazioni di Duterte contro i vescovi filippini) – la chiesa locale e i suoi esponenti, tra i quali il teologo filippino Daniel Franklin Pilario, membro del comitato internazionale di direzione della nostra rivista Concilium. Sullo stesso delicatissimo argomento raccomandiamo, in particolare, il lucido contributo di Jojo M. Fung dal titolo: “Una teologia emergente della sicurezza umana: il contesto filippino” (in Concilium 2/2018, 81ss.).
Nelle Filippine la chiesa cattolica ha sempre esercitato una notevole influenza politica. Alla vigilia del voto presidenziale l'intera Conferenza episcopale cattolica aveva pubblicamente esortato i cattolici a non votare per Duterte, dipingendolo come «espressione delle forze del male»: «Questo mostro infernale è un Pol Pot che non esiterà a uccidere masse di persone. Ci saranno nuovi campi di sterminio se Duterte diventa presidente», aveva ammonito l'arcivescovo Antonio Ledesma. Tanto più forte è stata l'opposizione della chiesa, tanto più fragorosa e simbolicamente cocente appare la sconfitta che le gerarchie hanno incassato: la tornata elettorale del 2016 ha segnato un cambiamento epocale nella società filippina, certificando la fine dell'influenza della chiesa sulle scelte politiche, ma anche morali, della gente. Aprendo uno squarcio nel profondo delle coscienze.
Quest'ultimo aspetto squaderna una questione che Daniel Pilario, teologo dell'ordine dei Lazzaristi, preside della St. Vincent School of Theology a Manila, così sintetizza: «Come possono milioni di cattolici inchinarsi devotamente e adorare la croce il Venerdì santo e nello stesso tempo approvare l'uccisione dei tossicodipendenti perché sarebbero una minaccia per l'intero Paese? Come possiamo definirci cristiani mentre 1'80% di noi, anche sacerdoti e suore, approva l'abuso di potere di Duterte e la sua politica di mandare al macello perfino i minorenni?».
Pilario è un "teologo di strada". Ogni settimana lascia i banchi dell'università per recarsi a Payatas, la grande discarica a cielo aperto nella Manila Bay, divenuta un villaggio stabile che ospita duecentomila persone impegnate nell'economia del riciclo. Aiuta i confratelli vincenziani nella parrocchia di Payatas, per dare assistenza pastorale, celebrare messe, benedire i morti, incontrare persone. Una distesa di ruscelli e baracche si snoda attorno a montagne di spazzatura che danno sostentamento a migliaia di famiglie che scavano, selezionano, smistano e vendono rifiuti e materiali di scarto. Qui per tre mesi, nel 2017, agenti di polizia hanno condotto un censimento a tappeto, imponendo un test antidroga ai residenti e compilando una "lista nera" di colpevoli. Le famiglie che si rifiutavano di cooperare erano contrassegnate con un segno rosso sulla loro casupola. Da allora raid notturni della polizia e dei vigilantes si susseguono nel villaggio.
E tante famiglie piangono i propri cari, uccisi senza pietà. Rosaline, 29 anni, ha perso il marito e ha tre figli da sfamare. Con altre donne frequenta il gruppo di counseling psicologico e spirituale che Pilario guida ogni weekend. Toccando con mano la loro tragica esperienza, il sacerdote chiosa: «Da un lato i cattolici professano con devozione di seguire Gesù sul Calvario; dall'altro urlano a Pilato: "Crocifiggilo". In questa gente si incarna il Cristo sofferente, questi poveri vivono la sua Passione».
È Baltazar Obico, frate francescano e superiore nel convento San Antonio, ad offrire una chiave di lettura teologica, che spiega un fenomeno di larga portata: «Molti battezzati sostengono Duterte perché, per loro, Dio è qualcuno che li libera dal male, piuttosto che salvare i peccatori». C'è, alla base «una concezione di Dio, un'idea del Signore di stampo veterotestamentario»: è questa che consente, nel profondo della coscienza individuale, di giustificare lo «scomodo lavoro» che il presidente si è sobbarcato. «Si crede in un Dio-castigatore, piuttosto che in un Dio-salvatore. Un Dio che punisce piuttosto che perdonare».
Allora, secondo questa convinzione distorta, è Dio stesso che guida il lavoro di chi purifica la nazione da «maiali, bastardi e peccatori». Ci spiega Obico: «Questa visione, purtroppo molto diffusa, mostra una mancanza di fede nel Dio rivelato dal Vangelo, che non condanna ma ama, che usa misericordia e ha il potere di cambiare il cuore dell'uomo». Ma a molti non è data una seconda possibilità. La teologia di Duterte ha deciso così. E fa presa nella nazione.
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