Nei giorni scorsi è venuto a mancare il teologo domenicano Jean Pierre Jossua (24 settembre 1930 – 1 febbraio 2021). Nato nel 1930 in una famiglia di origini ebraiche, laureato in medicina, da adulto si avvicina al cristianesimo ed entra nell’ordine dei predicatori; è allievo di Congar e diventa il padre della cosiddetta “teologia letteraria”.
Nel 1978 Jossua scriveva l’articolo conclusivo di un fascicolo di Concilium dedicato a «Gli spostamenti attuali della teologia». Nella prima parte del suo contributo egli stendeva un bilancio complessivo dei grandi cambiamenti avvenuti, individuando nello “spostamento” (desplacement) una categoria sintetica. Riconosceva che «dal concilio a oggi si sono verificati dei cambiamenti assai più radicali di quelli avvenuti nel periodo che precedette il Vaticano II e che trovarono in esso la loro sanzione».
Nella seconda parte dell’articolo, che riportiamo qui di seguito, Jossua lanciava poi coraggiosamente il cuore oltre l’ostacolo («a mio rischio e pericolo») e spingeva il suo sguardo verso il futuro della teologia stessa. Tentava cioè di indovinarne le forme a venire: «Senza minimamente rivendicare un qualche dono di chiaroveggenza o un carisma profetico, semplicemente mi lascerò andare a immaginarmi quello che potrebbe diventare la teologia domani, se continuasse secondo la traiettoria che il complesso dei suoi spostamenti d’oggi comincia a delineare».
È estremamente istruttivo scoprire, a oltre quarant’anni di distanza, che cosa è vivo e che cosa è morto nelle sue appassionate previsioni di allora.
La grandiosa, rapida evoluzione [conosciuta dalla teologia dopo il Vaticano II], che però la maggioranza del popolo cristiano, gli ambienti ufficiali della chiesa con i loro teologi patentati, paesi interi rimasti più tradizionalisti non hanno ancora assimilato, si può prolungarla nel futuro, tracciando sulla carta una ipotetica linea evolutiva che avanzi nella stessa direzione e affermare: questa sarà la teologia di domani? Non è sicuro. Potrebbero verificarsi degli sconvolgimenti inattesi, come potrebbero avvenire altri spostamenti magari ancora più radicali. Oppure potremmo assistere a una qualche fase di completa reazione, come nel periodo del ‘modernismo’. Vedremmo allora una miriade di Lefèbvre, magari impeccabilmente romani, riunire attorno a sé un manipolo – paurosamente ridotto – di fedeli e i loro teorici reinterpretare come decadenza ed eresia la fase che stiamo vivendo, con ognuna delle sue tendenze. Ma se trascuriamo per un momento queste due eventualità estreme, per concepire l’avvenire della riflessione cristiana in una linea di continuità con i movimenti attuali, allora possiamo tentare di dirne qualcosa. Non certo dipingendo l’armonioso quadretto di una convergenza, ma semplicemente sottolineando – con approcci di varia natura e spesso antitetici – alcuni punti su cui si giocherà l’avvenire della teologia. Lasciamoci andare dunque a sognare…
a) Non sarà più possibile servirsi spensieratamente e abbondantemente del linguaggio come se non ponesse problemi; meno ancora sarà possibile organizzare dei complicati sistemi con una fiducia intrepida nella ragione. Le funzioni psicologiche e sociali della parola e della scrittura, la metafisica implicita nell’uso ingenuo del discorso, il carattere delirante delle ampie costruzioni sistematiche diventeranno evidenti a tutti…, a meno che il vento non torni a cambiare!
Eppure non si tratterà di una ulteriore incarnazione dell’anti-intellettualismo, del semplicismo, del pietismo, del fondamentalismo. La ragione sarà presente nella fede come ciò con cui essa non potrà fare a meno di battersi, dato che la sua salute e la sua verità umane dipendono da questo confronto incessante, inesauribile.
b) Nessuna teologia potrà più nascere se non dall’esperienza degli uomini, dei credenti, se non confrontandosi di continuo con essa, verificandosi incessantemente su essa. Nessun teologo potrà più parlare nascondendosi dietro l’‘obiettività’ del suo discorso, ma dovrà esporne l’humus personale, la genesi interiore. Nessun autore religioso potrà continuare a imbrattare della carta senza preoccuparsi del modo di scrivere, ciò della tecnica, dello sforzo originale, della modesta creazione che lo scrivere sempre richiede per far entrare in contatto fra loro due esseri distanti, ignoti l’uno all’altro. Nessuna riflessione cristiana punterà più su un testo, del passato o del presente, come su una norma sacra, assoluta, intangibile, ma da esso nient’altro si aspetterà se non una ispirazione, per assolvere un compito di pensiero che, pur essendo interpretazione, è sempre innovazione.
Ma la testimonianza non sarà tutto. Questa teologia, individuale o comunitaria – modesta, libera, cosciente dei propri mezzi di comunicazione –, ancora più di oggi avrà a che fare con le varie critiche che non sono se non altrettante conseguenze di modi nuovi di considerare l’uomo. Bisognerà che essa si ponga il problema dell’origine del proprio desiderio di Dio, che si assicuri che chi parla possa senza ingenuità dire io. Bisognerà che verifichi che c’è una identità cristiana, reperibile nelle varie pratiche, che esiste un luogo d’unità delle differenti esperienze cristiane. Né potrà fare a meno di accertarsi se un’esperienza, un senso, effettivamente si possono comunicare, trasmettere ad altri.
c) Assai più d’oggi l’incontro fra la fede e i vari aspetti della modernità prenderà la forma d’un dialogo interiore, non più d’un confronto fra una prassi e un sapere cristiano già perfettamente costituiti e un ‘mondo’ non conosciuto se non troppo tardi, dall’esterno. Domani saranno lo psicoanalista, o quel suo cliente che conserverà – o scoprirà (càpita!) – la fede al termine del suo cammino, sarà il rivoluzionario che pensa che il vangelo ha ancora qualcosa da dirgli nella sua lotta, saranno costoro, dicevo, a parlare, non più gli ‘specialisti’ cristiani di Marx o Freud, abili nelle discussioni libresche.
A quel punto ci si troverà dinanzi a una scelta tremenda, di cui fin d’ora intuiamo la posta in gioco, e anche i prodromi. Cosa nascerà, da una simile prova? Una nuova religione dell’avvenire, sorta dal cristianesimo dopo aver assunto nel Nuovo Testamento e nella tradizione quello che ancora può assimilare, una nuova religione all’altezza di uno sconvolgimento culturale senza precedenti? Oppure una umanità completamente secolare, areligiosa, per la quale il fermento cristiano sarà una provocazione, un interrogativo indispensabile alla sua perpetua rimessa in causa, alla sua ricerca d’autotrascendenza? Oppure ancora, più classicamente, una reinterpretazione dell’essenza del messaggio neotestamentario, senza sacrificare neppure l’‘incredibile’, nella continuità di una tradizione che di simili riletture ha già conosciuto tutta una lunga serie? Ma allora, si sa benissimo, non sarà facile stabilire cosa è ‘essenziale’, e se agli occhi di uno si passerà per un ‘conservatore’, agli occhi di un altro facilmente si passerà per un ‘demolitore’…
d) Per finirla con la ‘critica’, tornerò ancora una volta sull’aspetto sociale delle cose. Non sarà più possibile dimenticare che ogni discorso nasce in un contesto ben preciso e in certa misura – pur senza cadere nel semplicismo delle ‘sovrastrutture’ e dei ‘riflessi’ – ne è il prodotto. Ogni teologia è segnata, plasmata, dalla situazione socio-politica (di professore universitario, per esempio, oppure di borghese che vive in un paese ricco) e socio-ecclesiale (prete o laico, legata oppure no a questo o quel gruppo, dipendente o no dalle istanze gerarchiche ecc.) di chi la elabora. Dimenticarlo, negarlo, equivarrebbe a esserne la prima vittima, diventando nel contempo anche il mistificatore d’altri. La teologia presupporrà una critica di se stessa da questo punto di vista, con degli strumenti affinati.
Ma la teologia non potrà essere di più che una critica della teologia? La cosiddetta ‘teologia politica’ degli ultimi anni a volte sembrava tendere moltissimo a una cosa del genere, e di fatto aveva delle strette analogie con l’atteggiamento pratico di chi vuole «restare nel sistema per meglio rovesciarlo». Vero è che il punto di vista della critica è totalizzante, e in certo qual modo niente sfugge alla sua azione. Ma con tutto ciò – e qui è il problema – sarà per forza anche totalitario, escludendo per ciò stesso ogni altro tipo di approccio? Esistono perfino delle forme anche più correnti di questo genere d’autodistruzione: circoli in cui non si parla di cristianesimo se non per vituperarlo, discussioni in cui la ‘problematicità’ del problema ha preso il sopravvento sull’affermazione positiva. Ma perché in fondo darsene tanto pensiero, se non è più un’esperienza positiva? E che bisogno c’è di stare a spremere le ultime gocce d’una Bibbia esangue sullo spremilimoni del materialismo storico, se il fiume spirituale del giudeo-cristianesimo non irriga più niente?
e) Per questo domani la teologia cristiana non esisterà se non sgorgando di nuovo da una esperienza spirituale intensa. Non avrà timore di ricominciare l’indefinita ricerca di Dio, di accogliere la sua manifestazione in Gesù Cristo (giacché tale è il suo messaggio autentico), di mostrarsi attenta alle irruzioni dello Spirito. Non disprezzerà le altre esperienze religiose dell’umanità qualificandole come ‘naturali’, non le ridurrà a ciò che di esse già conosce, non le considererà un ‘oppio’, ben sapendo che possono alienare né più né meno d’essa; si metterà invece al loro ascolto, le confronterà con ciò che porta in sé, lascerà che rimangano quello che sono e ne trarrà quello che non le è contrario. Più in generale, cercherà le fonti nascoste, si interesserà dei segreti trascurati non meno che delle ultime scoperte.
Ma tutto senza credulità, senza occultismo, senza spiritualismo, senza parapsicologia, senza glossolalia, senza chiromanzia, senza rabdomanzia, senza macrobiotica, senza teosofia, senza gnosticismo, senza incenso, senza bioenergia, senza fondamentalismo biblico, senza ignorantismo, senza rifiuto della critica, senza apoliticismo, senza trasparenza (non siamo mica dei vetri: siamo spessi!), senza astrologia (neanche ‘scientificamente’ ringiovanita), senza junghismo, senza clavelismo, senza arzigogoli neobizantini…
f) Domani non ci sarà più una teologia, come ieri; ma neppure più teologie occidentali, corrispondenti ad altrettante famiglie spirituali, come oggi. Ci saranno delle teologie diverse, qua e là nel mondo, corrispondenti a culture, radici profonde, modi diversi di marciare verso l’avvenire. I loro humus, le loro situazioni, i loro interlocutori privilegiati, i loro interessi fondamentali saranno diversi e accettati come tali: la loro lettura delle origini sarà diversificata, e distinti saranno anche gli strumenti d’elaborazione.
È chiaro che questa scomposizione della teologia, riconosciuta per quello che è, porrà dei formidabili problemi di unità della fede. Dove vederla – reale, viva – di contro a tutta questa differenza? Al di sopra? Meglio sarebbe dire: in altro modo. Come l’essenza del messaggio cristiano resta sostanzialmente identica al di là di tutte le sue reinterpretazioni storiche, ancorché non si possa conoscerla – per così dire chimicamente pura – se non attraverso esse, così anche l’unità della fede. Non si formulerà più, in questa diversità diventata ormai contemporanea, come un raggio isolato, ma si riconoscerà nelle sue dissimili variazioni. Ogni comunità – dell’una o dell’altra chiesa storicamente separata, perché le carte saranno ridistribuite – confesserà che ciò che un’altra comunità proclama, ciò che elabora o va elaborando è anche quello ch’essa stessa crede, nella differenza.
Ci saranno anche dei problemi d’unità nell’interpretazione concreta, sociale, del vangelo. Ci si può accettare diversi, anche e soprattutto politicamente. Ma ci si potrà indefinitamente riconoscere contraddittori? Razzisti e antirazzisti? Lettori delle beatitudini come un invito (per sé) a farsi artefice di giustizia, di fraternita, o come un obbligo (per gli altri) a non aspettarsi consolazione se non nell’aldilà?
g) Domani la teologia non sarà più clericale, ma verrà elaborata all’interno di gruppi cristiani, alla ‘base’. Sarà l’espressione della loro specifica esperienza – soprattutto nei settori in cui la gente di chiesa legifera senza portarne i pesi – e della loro lettura del vangelo. Finalmente si darà pieno riconoscimento alla ricerca e alla riflessione cristiana, già esistenti, di innumerevoli laici – storici, giornalisti, filosofi, scrittori, poeti. I ministri stessi saranno declericalizzati: scelti nella comunità, senza venirne separati, anche il loro lavoro teologico ne verrà modificato; e se continueranno a esserci dei teologi permanenti, saranno al servizio di questa ricerca multiforme.
Ma perché tutto ciò avvenga bisognerà prima aver risolto innumerevoli problemi, fin qui appena sfiorati. Infatti nessuna riflessione potrà mai comparire, senza una certa formazione che attualmente non esiste. Bisogna aver lavorato a lungo con gruppi di laici, averli spinti a elaborare una propria formulazione di fede, una teologia propria, per rendersi conto veramente della loro virtuale ricchezza e della povertà, di contro, dei mezzi di cui dispongono. È una formazione ancora tutta da inventare, al di là degli attuali timidi tentativi di trasmissione d’un sapere clericale. Inoltre non esisterà mai una riflessione alla base, regolata dalla vita, se non ci sarà anche una ricerca più esigente intellettualmente a suo beneficio. Chi la farà? Partendo da quale formazione iniziale? Grazie a quali risorse economiche? Molte attese, molti compiti…
Ho interpretato correttamente quanto sta oggi accadendo sotto i nostri occhi? Ho sognato l’avvenire con verosimiglianza o non piuttosto in una specie di delirio? Con tutto ciò, per quanto le risposte a queste due domande possano magari essere diverse, circa la tesi principale, cioè che gli spostamenti della teologia hanno già provocato la rottura della sua unità, mi si darà però ragione senz’altro.
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