22/09/2006
76. Conferenza di Moltmann all'Università di Udine
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Il teologo Jürgen Moltmann tiene una conferenza all’università di Udine sabato 23 settembre. Riproduciamo il testo della conferenza, che mostra come scienze della natura e teologia possano convergere e integrarsi reciprocamente. Presenta il teologo tedesco al pubblico di Udine Rosino Gibellini.


JÜRGEN MOLTMANN
VINCITORE DELLA COPPA MONDIALE DI TEOLOGIA


di Rosino Gibellini


In occasione del campionato mondiale di calcio 2006 è stato lanciato da un teologo finlandese su un sito internet, ben collegato con siti accademici, il campionato mondiale di teologia, per votare quale fosse il più grande teologo del XX secolo. Le votazioni telematiche internazionali di questo inusitato campionato hanno registrato in testa un gruppo di 16 teologi: 6 tedeschi, 4 americani, 2 francesi, e 4 di altre nazionalità; 9 erano protestanti, 6 erano cattolici, e 1 era ortodosso. Il risultato finale, diffuso anche da alcune note togate riviste internazionali, ha dato Moltmann come vincitore della coppa mondiale di teologia. Moltmann ha battuto Rahner nelle semifinali, e lo svizzero von Balthasar nelle finali. Nelle finali il voto era richiesto su cinque punti: creatività, rilevanza, permanenza nel tempo, impatto sulla Chiesa e impatto sul mondo accademico. Moltmann ha battuto nelle finali von Balthasar per quattro a uno. Ci congratuliamo con il vincitore della coppa mondiale di teologia.

Ma è la sua grande opera che conta. È conosciuto in tutto il mondo come il teologo della speranza. Nato ad Amburgo, in Germania, nel 1926, ha fatto in tempo ad essere arruolato nella Wehrmacht, e a trascorrere dopo la guerra tre anni di internamento, 1945 – 1948, in campi di prigionia, come prigioniero degli inglesi, prima in Belgio, poi in Scozia e successivamente nell’Inghilterra centrale. Nato in una famiglia protestante laica, proprio dietro il filo spinato del campo di prigionia ha scoperto la fede in Cristo. Scrive nella sua autobiografia – firmata il giorno di Pasqua di quest’anno in occasione del suo 80mo compleanno e in uscita in questi giorni con il titolo Spazio aperto. Storia di una vita – in riferimento a questa esperienza nel campo di prigionia: «Ho ripreso il coraggio di vivere, e lentamente ma con sicurezza mi ha preso una grande speranza di risurrezione nel “vasto spazio” di Dio». Ritornato dalla prigionia nel 1948, opta per la teologia (invece che per matematica e fisica), che insegnerà nelle università di Bonn e Tubinga, avendo qui come colleghi: il filosofo Bloch e i teologi Küng e Ratzinger, per citare i più noti.

L’opera, che lo ha fatto conoscere in capo internazionale è Teologia della speranza del 1964, arrivata in traduzione italiana presso l’Editrice Queriniana nel 1970, vincendo in Italia il Premio internazionale di letteratura “Isola d’Elba” 1971 (fatto che viene ricordato con parole molto simpatiche nella sua autobiografia). Il libro non è semplicemente una trattazione teologica della speranza, che lo scrittore Péguy ha dichiarato «la piccola» tra le virtù, ma è una vigorosa e innovativa rilettura del cristianesimo in chiave di futuro e di speranza.

L’opera ha avuto un seguito in altre scritture, tra cui spicca Il Dio crocifisso del 1972 (egregiamente tradotto, assieme a molte altre opere, da don Dino Pezzetta), dove il teologo della speranza svolge una impressionante teologia della croce, che mette a tema la solidarietà del Dio trinitario con l’umanità e con la sua storia di sofferenza, che ha in Auschwitz una cifra conturbante per la Germania e per l’Europa. La speranza cristiana viene, così, ben distinta dall’ottimismo, e viene prospettata come speranza «creativa» in un orizzonte di futuro, ma insieme come speranza «avveduta» della violenza del male nel mondo. Essa si fa concreta nella resistenza contro il male, e nelle azioni della speranza, nell’esperimento della speranza, cui è chiamata la comunità cristiana. Un teologo nordamericano dava conto di queste opere moltmanniane in un articolo dal titolo espressivo «Il tempo invade la cattedrale».

Dopo il ciclo della teologia della speranza – che si può collocare negli anni Sessanta e Settanta – Jürgen Moltmann ha intrapreso, a partire dagli anni Ottanta, un progetto di Contributi sistematici alla teologia in una serie di 8 volumi, da poco conchiusa, come teologia dialogica. La teologia dialogica di Moltmann si sviluppa in comunione ecumenica con le teologie delle chiese cristiane e pensa ecumenicamente tutti i grandi temi e le grandi parole della tradizione cristiana (Moltmann ha scritto: «Chi non pensa ecumenicamente è eretico»). Questa teologia dialogica ha le sue coordinate di riferimento, oltreché nella Scrittura come fonte cristiana anche nella comune speranza nel Regno, come orizzonte di riflessione, quale trova espressione nella letteratura, nella filosofia, nelle religioni. Si potrebbe caratterizzare la teologia di Moltmann come «Passione per il Regno».

Tra questi 8 volumi della serie dei Contributi merita particolare segnalazione la suggestiva opera Dio nella creazione del 1985, dove il teologo sostiene che di fronte alla crisi ecologica ci sono delle correzioni da apportare anche in campo teologico. In ambito cristiano si era infatti tacitamente conclusa una spartizione di competenze: la natura è stata abbandonata alla scienza e alla tecnologia, e la teologia si era riservata la storia, che interpreta come storia di salvezza. Ma, così, la teologia non ha reso culturalmente operante la fede nella creazione. Da qui la necessità di «raffreddare la storia», cioé di passare dall’antropomorfismo della cultura moderna al teocentrismo cosmologico biblico: l’uomo e la sua storia vanno inseriti all’interno del più vasto «eco-sistema Terra». In questa sua trattazione Moltmann svolge le linee di una Dottrina ecologica della creazione. L’eco di quella trattazione si trova anche nella conferenza di questa sera, dove la scienza appella all’integrazione della sapienza.

Ma si deve anche ricordare un altro volume Lo spirito della vita (1991), e il più breve e bellissimo testo La fonte della vita (1997), che possono essere considerati come un punto d’arrivo del suo pensiero. Lo Spirito santo è presentato come la forza della vita nuova, vita per il corpo e per l’anima, per lo spirito e per i sensi, per il tempo e per l’eternità. Una teologia della speranza, dunque, che si sviluppa in una teologia della vita nella pluralità delle sue dimensioni.



SCIENZA E SAPIENZA
Interazioni fra teologia e scienze della natura


di Jürgen Moltmann


1. La memoria della natura

Il conflitto fra teologia e scienze moderne della natura ha una lunga storia. Ricordiamo i casi Giordano Bruno, Galilei, Charles Darwin. A ben vedere, si è trattato propriamente di un conflitto non fra teologia e scienze naturali, ma tra la cultura religiosa medievale ormai al tramonto e la nuova cultura secolare del mondo moderno. La fede nel progresso, tipica della modernità, condannava la teologia al passato, promettendo futuro alle scienze della natura.

Dalla fine di quel conflitto, fra teologia e scienze naturali si è instaurato un rapporto di coesistenza dove le controparti ora non vivono più in tensione e si accettano l’un l’altra proprio perché non hanno più niente da dirsi. Fede e conoscenza del mondo non entrano più in contesa sulla verità. Gli scienziati non s’attendono alcun incremento di conoscenza dallo studio della teologia, e di converso i teologi non sono più interessati a leggere il “libro della natura” per capire Dio. Del resto ci sono oggi scienziati che leggono pubblicazioni teologiche e teologi che s’interessano a studi di scienze naturali?

I teologi cui Galilei voleva mostrare i satelliti di Giove si rifiutarono di guardare al telescopio, perché convinti – come osservava pertinentemente Bert Brecht – che “non c’è nessuna verità da scoprire nella natura ma soltanto nella comparazione dei testi”.

E le cose non sono cambiate. In teologia ciò che serve a dimostrare la verità sono la citazione e l’esegesi della tradizione, nelle scienze invece sono l’esperimento e la sua ripetibilità che dimostrano la correttezza di un enunciato. Il teologo si sente vincolato dalla lunga tradizione, dal cristianesimo come veicolato dalla tradizione biblica ed ecclesiastica. La sua arte è l’ermeneutica, l’arte dell’interpretare. Egli parte dal primato del passato, la cui influenza storica si estende fino al presente. E cerca dunque di conoscere la verità confrontando i testi del passato. Lo scienziato della natura si piazza, per così dire, nel proprio laboratorio e si confronta con il proprio oggetto, lo sottopone ai suoi interrogatori e lo costringe a dare risposte. Vale qui la celere definizione di Immanuel Kant (nella Prefazione alla Critica della ragion pura), secondo cui la ragione moderna esamina soltanto ciò che “essa produce secondo il proprio schema”, dov’essa “costringe la natura a rispondere ai suoi interrogativi”.

Ma non si tratta di un’immagine un po’ troppo semplicistica: qua una tradizione temporale – là una natura atemporale, qui il ricordo – là l’esperimento, là il laboratorio – qui arts e humanities? Per andare più in profondità, io introduco il concetto di ‘memoria’. Indubbiamente la teologia rappresenta una componente essenziale della memoria culturale del nostro mondo. E nella memoria noi ricordiamo pericoli e liberazioni, catastrofi e riscatti, tempi di guerra e tempi di pace, stili di vita riusciti ed altri falliti. Noi ricordiamo tutto questo e lo reinterpretiamo in vista del futuro, per favorire la vita e costruire la pace, individuare i pericoli e stornare le catastrofi. Priva di memoria culturale, l’intera società si ammala di Alzheimer.

Comparativamente anche le scienze della natura hanno a che fare con la memoria della natura. Penso al libro di Rupert Sheldrake, The Presence of the Past del 1990. Dai profondi abissi viene a noi incontro il passato primigenio del cosmo, subito dopo il big bang. Se di notte guardiamo al firmamento, vedremo il passato dell’universo. La velocità della luce non è infinita, per cui noi non conosciamo mai in contemporanea ma sempre in successione, in anni-luce. Stelle di cui non cogliamo più la luce forse si sono spente ormai da tempo. Noi non le conosciamo nella loro realtà, per quelle che effettivamente sono, ma com’erano in passato. Nella costruzione della materia, degli atomi, molecole, cellule ed organismi, fino all’organo estremo il cervello, si è venuta ad accumulare nella natura una memoria che ha scartato le combinazioni ostili alla vita e assecondato quelle favorevoli. In questa memoria naturale noi possiamo scoprire una sapienza da cui la memoria culturale avrebbe tutto da imparare, se lo studio della memoria della natura diventasse, nelle scienze, l’interesse che guida alla conoscenza. Il codice naturale e quello culturale non sono tra loro talmente distinti da non influenzarsi a vicenda. Proprio questa consonanza garantirebbe la sopravvivenza dell’umanità nell’organismo terra del nostro pianeta. In questi concetti di memoria culturale degli uomini e di memoria della natura io riprendo e sviluppo le antiche immagini di ‘libro della Bibbia’ e ‘libro della Natura’ (Raimondo Lullo).


2. La conoscenza ha le sue radici nello stupore

Secondo le tradizioni bibliche, il timore del Signore è l’inizio della sapienza. Per i primi filosofi greci la radice della conoscenza sta nello stupore: thaumázein significa osservare con attenzione e personale interesse. Secondo Platone, “ogni filosofia nasce dal provar meraviglia”. Dobbiamo proprio scegliere tra Gerusalemme e Atene? Dovremo deciderci tra chiesa e laboratorio? Esistono finestre diverse che si affacciano sulla realtà? Non sarà proprio lo stupore che proviamo di fronte alla natura a condurci al timore di Dio e il timor di Dio a lasciarci stupire dalla natura?

Quando c’imbattiamo in qualcosa d’imprevisto ed inaspettato siamo presi dallo stupore o dallo spavento. Stupiti, disponiamo i nostri sensi a ricevere le impressioni che la realtà in noi suscita. Ci rendiamo attenti, direttamente interessati alle cose. Il nuovo che ora percepiamo penetra, in tutta freschezza e senza mediazioni, negli organi sensoriali di cui siamo muniti. Ciò che ci viene incontro è una ‘in-pressione’, e noi restiamo ‘in-pressionati’. E, come spesso si dice, non siano ancora in grado di ‘con-prenderlo’. Appena usciti dalla precedente ‘comprensione’, siamo ancora frastornati. Questo stupore immotivato ci espone personalmente al nuovo. E ciò spiega l’affinità tra stupore e timore. Nello stupore noi ci apriamo, disponibili a lasciarci afferrare dalla nuova impressione. Nel timore ci ritraiamo, tutti presi dalla preoccupazione per noi stessi. Quando ci apriamo all’impressione del nuovo, vediamo in noi determinarsi nuove forme di con-prensione, per cui riusciamo a conservare l’impressione che la novità ha suscitato, la possiamo ricordare e siamo pure in grado di elaborare nuovi punti di vista, adeguati alla realtà che si è formata in noi. Si dice anche che le nuove impressioni “continuano ad agire”. E forse potremmo pure dire che il conoscere che nasce dallo stupore è ‘conoscenza intuitiva’.

Nello stupore noi percepiamo le cose per la prima volta. Anzi, non esiste un’altra prima volta nella nostra conoscenza. Ora ci sentiamo esposti, senza protezioni, alle nostre impressioni, abbiamo la sensazione di rimanerne travolti. Il bambino stupefatto non dispone ancora di rappresentazioni adeguate a dominare impressioni che lo colpiscono in tutta la sua sensibilità, in quanto non può ricordare ancora qualcosa di paragonabile ad un’esperienza del genere. Solo alla volta successiva si formeranno i ricordi che gli consentiranno di comprendere quelle impressioni, e gli atteggiamenti ripetitivi in risposta alle impressioni esercitate. Ora il bambino vi si abitua, le riconosce, sa, non si sorprende più. Lo stupore della prima volta svanisce nell’assuefazione. Il bambino ha dunque imparato. E noi adulti associamo lo stupore proprio agli occhi del bambino che si aprono per la prima volta al mondo. Gli scienziati, artisti e pensatori che consideriamo dei ‘geni’ sono individui che hanno conservato, più di altri, una capacità infantile di stupirsi ed una sensibilità per tutto ciò che è nuovo e sorprendente. Sono persone ‘originali’ appunto perché rimaste vicine alla conoscenza originaria.

Al di là dello stupore infantile, noi sappiamo pure che la percezione di un fenomeno per la prima volta provoca sempre ed in ogni individuo un senso di stupore. Ogni nuova ‘scoperta’ scientifica risveglia lo stupore della prima volta. Queste esperienze vengono poi ripetute per via sperimentale e servono ad ampliare il bagaglio delle nostre conoscenze. E le ricordiamo con il nome dello scopritore proprio a significare quella ‘prima volta’.

Noi distinguiamo tra una prima volta della nostra conoscenza del fenomeno ed una prima volta del fenomeno che ci si presenta. Quando quegli eventi suscitano un senso di stupore per la novità, noi parliamo in modo soggettivo di ‘s-coperte’, intendendo dire che ora scopriamo ciò che prima era nascosto e conosciamo ciò che prima ci era ignoto. Quando invece li registriamo in modo passivo, diciamo che “gli occhi si sono aperti” e “hanno lasciato cadere la loro benda”.

Ma fin dagli inizi dell’età scientifica moderna, queste scoperte vengono fatte in modo prevalentemente attivo. Per cui s’intraprendono viaggi di ricerca o si pianificano metodicamente esperimenti, al fine di verificare, o falsificare, supposizioni previe. E questo sperimentare attivo ha finito poi per sovrapporsi a tal punto sull’accadimento passivo degli eventi che non si percepiscono più i fenomeni oggettivi.

Ma ogni reale s-coperta si basa sul lato oggettivo degli stessi fenomeni. Proprio per questa ragione noi parlano di ‘fenomeni’ che ci si mostrano. Ebbene, questi fenomeni attesi, ma non forzati, ci sorprendono. Noi conosciamo ciò che ci si manifesta, e mostriamo interessi non solo teoretici ma anche estetici atti a guidare la nostra conoscenza. Se osserviamo il lato passivo e quello attivo del nostro conoscere ci accorgiamo della consonanza tra ciò che si è mostrato e ciò che è stato scoperto. La s-coperta risponde alla manifestazione. Discovery e revelation sono le due facce dello stesso avvenimento. Noi abbiamo conosciuto ciò che ci è stato dato a conoscere. Abbiamo trovato ciò che noi non abbiamo inventato. Ci stupiamo di fronte ad una realtà che è proprio quella che ora conosciamo. Manifestamente alla ragione umana risponde un mondo razionale. Ma che cos’è la ragione umana e che cosa si può considerare come razionale? Prima di rispondere alla domanda, riprendiamo il discorso dello stupore.

La sensazione di stupore non viene prodotta soltanto da eventi e conoscenze della ‘prima volta’. Anche una cosa che già conosciamo e che ci è familiare suscita sempre, nella nostra conoscenza, un certo grado di stupore, poiché, propriamente parlando, non c’è nulla in natura, e nemmeno nel nostro cervello, che si ‘ripeta’, essendo il tempo irreversibile. Ciò che è passato non ritorna più. Ogni istante del tempo è singolare ed unico. Soltanto la nostra capacità di lasciarci stupire ci consente di percepire il carattere singolare ed unico degli eventi e delle conoscenze, perché ora possiamo osservare ciò che è irripetibile nel ripetibile, il disuguale nell’uguale, il dissimile nel simile.

Chi ha disimparato a stupirsi considera vero soltanto ciò che all’apparenza rimane sempre uguale a se stesso, e non si aspetta nulla di nuovo. Reagisce come è abituato, non capisce nulla. Giudica ‘caso per caso’ in base ai precedenti e non avverte l’unità degli eventi. Quando vediamo gli eventi contingenti come dei ‘casi’, stabiliamo una regola generale in base alla quale tutti “devono essere trattati in modo uguale”, come giustizia impone. Ed invece non tutti sono uguali tra loro. Ogni caso è diverso da tutti gli altri, come poi sappiamo. Sul piano delle scienze della natura noi trasformiamo gli eventi in ‘casi’, per sottometterli alle leggi senza tempo della natura. Ed anche questo li priva della loro contingenza e specificità. Saranno le moderne teorie del caos a contrastare questa tendenza. E nel campo dell’arte, in un tempo in cui tutte le opere artistiche sono riproducibili, si cerca l’imprevedibile e si producono events e performances.

Ogni scienziato rimane affascinato dal fatto che l’oggetto del suo interesse è conoscibile in natura. Pare si dia una corrispondenza tra la ragione umana e la razionalità del mondo. Ma è la razionalità del mondo a rispondere alla nostra ragione, o non potrebbe essere l’inverso, che sia cioè la ragione umana a dover rispondere alla razionalità del mondo?

Si è osservato spesso che se l’animale si accontenta del proprio ambiente, il vivente umano sa e può sapere più di quanto gli serve per sopravvivere. Ogni ragione strumentale serve – assumiamo innanzitutto – al potere e progresso del genere umano. Noi, però, possiamo conoscere e capire ben di più. Prendiamo, ad esempio, l’analisi del DNA nella moderna ricerca genetica. Si possono analizzare le informazioni contenute nelle molecole a doppia elica per capire com’esse funzionino e quali siano le possibilità di una loro modificazione. E questo, al momento, pare l’interesse preminente, non soltanto di tipo scientifico ma anche economico. Ma poi si pone anche l’interrogativo etico: si possono brevettare frazionatamente non solo le scoperte ma pure le conoscenze acquisite sul genoma umano per lucrare sulle applicazioni rese possibili dalla tecnobiologia?

Un’altra problematica che si solleva viene dall’approfondimento delle informazioni che si accumulano nel e poi si trasmettono con il codice genetico. Noi parliamo di ‘patrimonio ereditario’, ma in effetti si tratta, comparativamente, della memoria che in milioni di anni si è venuta ad ammassare nelle sequenze di queste molecole. I sistemi della materia e del vivente nascondono un’antichissima sapienza di vita. In questo quadro, la ricerca sulla natura è una ricerca sulla memoria, e del tipo non poi così dissimile da quello che conosciamo nelle ricerche sulle memorie culturali dell’umanità. Da dove apprende il ragno il modo di tessere la sua tela? L’amore materno è condizionato geneticamente o viene inculcato?

Se la ricerca naturalistica è, come qui assumiamo, l’indagine condotta sulle memorie naturali presenti nei sistemi della materia e del vivente, allora noi stiamo indagando sulla sapienza che si cela nei sistemi naturali, e lo facciamo per diventare noi stessi, a nostra volta, sapienti. Ma allora la ragione scientifica non è semplicemente sapere ordinato alla funzionalità ed al dominio, ma, come il termine tedesco Vernunft (ragione) suggerisce, organo percipiente. Non dovrebbe essere possibile reintrodurre questa ragione strumentalizzata nella più vasta sapienza della vita, la phronesis? E in che modo?


3. Il timore del Signore è l’inizio della sapienza

Lo stupore, come radice della conoscenza, noi lo ascriviamo al bambino e lo associamo a quell’infantilità originaria che sopravvive in ogni persona adulta. La sapienza, invece, contiamo di trovarla nelle persone anziane, quelle che le tante esperienze della vita e la prossimità alla morte dovrebbero aver reso sagge. Ma non si tratta di un processo automatico nel corso degli anni. I sessantenni del nostro mondo moderno “non sono diventati più saggi, neanche un tantino”, come si dice in una nostra canzone di successo. Il fatto è che essi vogliono rimanere forever young. Ma in che modo si diventa saggi?

La sapienza non nasce dalle esperienze che facciamo ma dal rapporto che con tali esperienze intratteniamo. Non è il conoscere che ci fa saggi ma il conoscere di conoscere. La sapienza è un’etica del sapere. Se trasformiamo il nostro sapere in consapevolezza, diventiamo attori partecipi del sapere stesso: diamo una possibilità alla sapienza. È come se io mi guardassi dall’alto delle mie spalle e mi chiedessi: che cosa stai facendo, a che cosa ti servono le conoscenze di cui disponi, e le esperienze che hai fatto hanno poi cambiato la tua vita, e che cosa rimarrà di te una volta che sarai morto? La sapienza nasce da un processo di riflessione che si sviluppa nella direzione contraria a quello spontaneo dello stupirsi e dell’agire. Da una parte lo scoprimento stupefacente del mondo e, dall’altra, un saggio rapporto con le scoperte fatte.

Vogliamo capire quella sapienza che ha origine nel rapporto con il divino, con il cosmico, con l’umano, e ci chiediamo in primo luogo se si tratta di sapienze affatto differenti o non invece di un’unica sapienza che abbraccia e combina insieme queste tre dimensioni. Qui io parto dal presupposto dell’unità del differente, perché ciò che a noi interessa è la comunione. Si potrebbe anche vedere, in queste differenti dimensioni, le diverse figure, i volti dell’unica sapienza. Incominciamo con la figura specifica che la sapienza assume nelle tre relazioni: con il divino, il cosmico e l’umano, per poi individuare alcune combinazioni trasversali e interazioni.

a. Stando alla tradizione veterotestamentaria, la sapienza divina viene agli uomini dal ‘timore del Signore’. Non si tratta di quel mysterium tremendum che incute spavento e smarrimento, ma piuttosto la grandiosità divina che, se percepita, suscita nell’uomo sentimenti di rispetto e di umiltà. Il timor di Dio combina insieme il rispetto per un Dio ‘sempre più grande’, ed incommensurabile, e la fiducia originaria, infantile, in una bontà pur essa incommensurabile. “Corona della sapienza è il timore del Signore” e “pienezza della sapienza è temere il Signore” (Sir 1, 16.14). Timore e amore descrivono insieme i due lati della presenza di Dio: distanza e vicinanza, grandiosità e intimità, trascendenza e immanenza.

Quale conoscenza scaturisce dal timore di Dio e dall’amore per lui? Innanzitutto quella che induce a riflettere sulla realtà stessa dell’uomo: chi sono io, che cos’è l’essere umano? Di fronte alla grandiosità di Dio l’uomo si rende conto della propria nullità, né prova desideri di autodivinizzazione. Nel suo amore per Dio, invece, egli sa di essere per lui importante e non prova sentimenti di autocommiserazione. La domanda “Che cos’è l’uomo?” non è certo mal posta, se nella Bibbia ha il seguito: “perché te ne ricordi” (Sal 8,5). Non soltanto l’amore per Dio ma anche “il timore del Signore allieta il cuore e dà contentezza, gioia e lunga vita” (Sir 1,11).

Timore e amor di Dio sono sapienza nel rapporto dell’uomo con Dio. Ma come vedere la sapienza in relazione a Dio? Approfondiamo allora la dimensione trascendentale di questa sapienza, non della nostra sapienza in rapporto con Dio bensì della stessa sapienza divina, perché, come è manifesto, non solo Dio è in essa presente ma anch’essa è presente in lui.

Nell’inno di lode del libro dei Proverbi (Prv 8), la Sapienza è chiamata ‘figlia di Dio’, per metterne in risalto la natura divina:

“Il Signore mi ha creato all’inizio della sua attività,
prima di ogni sua opera, fin d’allora.
Dall’eternità sono stata costituita, fin dal principio, dagli inizi della terra.


Quando ancora non aveva fatto la terra e i campi,
né le prime zolle del mondo…
allora io ero con lui come architetto
ed ero la sua delizia ogni giorno,
mi rallegravo davanti a lui in ogni istante,
mi ricreavo sul globo terrestre,
ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo” (8, 22-31).

Qui alla Sapienza divina si attribuisce una preesistenza: essa è qui fin dall’inizio, accompagna il Creatore, come un ‘architetto’, nelle opere che egli chiama all’esistenza, rappresenta la sua ‘delizia’, gli serve per ‘giocare’.

Stando al libro della Sapienza (7, 17ss.), il Creatore ha concesso a questa Sapienza “la conoscenza infallibile delle cose, per comprendere la struttura del mondo e la forza degli elementi, il principio, la fine e il mezzo dei tempi…, la natura degli animali e l’istinto delle fiere…”. Essa sa tutte queste cose perché le ha fatte e in queste forme di vita essa rimane presente. La Sapienza “è il più agile di tutti i moti; per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa” (7,24).

Essa “è un’emanazione della potenza di Dio,
un effluvio genuino della gloria dell’Onnipotente,
per questo nulla di contaminato in essa s’infiltra.
È un riflesso della luce perenne,
uno specchio senza macchia dell’attività di Dio,
è un’immagine della sua bontà” (7, 25-26).


Che cosa rivela di Dio questa Sapienza?

Innanzitutto che Dio è “un amante della vita” (11,26), e poi che egli è l’artista di questo cosmo. Non solo egli chiama tutte le cose all’esistenza, ma le organizza come in un grande gioco della sua gloria. In Dio non c’è luce e tenebre, creazione e distruzione, vita e morte, ma soltanto un inequivocabile Sì e Amen. In altre parole, la trascendenza è carica di positività, è la trascendenza dell’essere nelle distruzioni della vita e annientamento dell’essere.

Infine, la divina Sapienza, che tutto penetra, plasma e sostiene, è più di una luce creata, essendo presente prima ancora della creazione della luce: è luce dalla luce increata della divinità e comunica alla creazione temporale le energie eterne circolanti nella profondità dell’essere trinitario di Dio. In quanto forza creatrice, essa lega insieme le energie increate di Dio e le energie create della sua creatura. E’ il mistero divino della creazione, quello che viene ad esprimersi in tutte le creature e loro forme e relazioni.


b. La Sapienza cosmica parla agli uomini. “I cieli annunziano la giustizia di Dio” (Sal 96,6). “Tutte le opere lodano Dio” (Sal 144,10). Il che significa che l’unica Sapienza divina si trova in tutte le cose e loro forme e, se conosciuta, rende sapiente anche l’essere umano. Gli uomini possono prestare ascolto all’inno di lode che sale dalla creazione ed inserirsi nel coro, per esprimere così una consonanza tra sapienza cosmica e sapienza culturale. Bisogna però credere che la creazione, in linea di principio, si apra alla conoscenza delle creature umane: “Dio ha fondato la terra con sapienza” (Sir 3,19). “Tutto hai fatto con saggezza. La terra è piena delle tue creature” (Sal 103,24). La sua sapienza “è diffusa su tutte le sue opere” (Sir 1,9). Tutta la terra è piena della sua sapienza” (Sap 1,7).

Ci troviamo pertanto di fronte ad un mondo strutturato in modo sapienziale. La fiducia che nel cosmo e in una vita vissuta correttamente nell’alveo della cultura umana già risieda una divina sapienza funge da postulato pre-razionale e asseconda l’indagine che ha per oggetto questa stessa sapienza. (1) Il modo sapienziale in cui la materia si struttura e il vivente si organizza è un invito a penetrare con il pensiero una realtà aperta alla nostra conoscenza. (2) La dimensione sapienziale immanente nel cosmo sottrae questa sapienza al conoscere umano, quale che sia il grado della sua acquisizione cognitiva. È, appunto, la dimensione trascendente della sapienza immanente. Ed anche ciò che rende umili le persone che si addentrano nella conoscenza del mondo: “La saggezza è presso gli umili” (Prv 11,2). Questa sapienza sta nel riconoscere che più si dilata il nostro sapere, più cresce anche la nostra consapevolezza di sapere ben poco, in quanto il sapere e conoscere dell’uomo si svolge nel vasto raggio della Sapienza divina, eccelsa, e qui ha la sua propria collocazione.

Se la conoscenza scientifica rispetta la trascendenza di questa sapienza immanente, rispetterà poi anche la natura propria delle cose nel mondo, quel lato interno e nascosto che esse ci esibiscono nel loro lato esteriore. Kant distingueva ancora tra “la cosa-in-sé, nascosta” e il suo modo di manifestarsi, a noi conoscibile. La vera essenza delle cose nel mondo di Dio, quella per noi inaccessibile nel manifestarsi delle cose nel mondo dell’uomo, va sempre rispettata, pena confondere il fenomeno con l’essenza. La conoscenza della natura porta al riconoscimento di questa sua specificità. L’interesse cognitivo che anima la conoscenza scientifica non mirerà allora a soggiogare la natura conosciuta ed appropriarsela, ma a rispettarla. Noi vogliamo conoscerla per poter vivere, insieme ad essa, un rapporto di comunione creaturale e sapienziale. E conosciamo la natura in quei suoi nessi nei quali vogliamo inserirci in modo armonico. E’ quella che un tempo si riconosceva come la ‘simpatia’ con la quale la divina Sapienza mantiene insieme tutte le cose. E dovrebbe essere pure la tendenza ad integrare i metodi particolaristici e individualizzanti delle scienze della natura nelle prospettive olistiche dei più ampi nessi sistemici presenti in natura, come si è visto realizzare con successo nelle ‘scienze della terra’, nelle ‘bioscienze’, ecc.


c. La sapienza umana distingue tra bene e male, conservazione e distruzione, vita e morte: “Chi trova me trova la vita,… ma quanti mi odiano amano la morte” (Prv 35.36). Dicevamo che il timore induce ad un rapporto con le conoscenze scientifiche ispirato alla saggezza. La phronesis dei greci distingue tra bene e male, la sapienza giudaica e cristiana distingue tra ciò che serve alla vita e ciò che si allea alla morte. Per entrambe chi è saggio impiega, o accetta che s’impieghino le conoscenze scientifiche che favoriscono la vita, mentre si oppone e resiste a tutto ciò che diffonde distruzione e morte.


4. La presenza di Dio nella storia della natura

Riassumo quanto sono venuto dicendo sulla memoria della natura, per inquadrarlo nel più ampio contesto della storia della natura, e quindi concludere con la questione di Dio.

1. Il discorso della ‘memoria della natura’ suppone che la natura, in tutti e ciascuno dei suoi viventi, abbia una storia singolare e unica, e – per quanto ci è dato a conoscere – irreversibile. Il concetto ‘ storia della natura’ si è rivelato straordinariamente fecondo dopo la separazione di natura e storia nel sec. XIX. Le macrostorie della natura, come (1) l’estensione del cosmo dopo il big bang e (2) l’evoluzione della vita sulla terra sono uniche e irripetibili, all’interno di un tempo irreversibile.

2. Nella costruzione della materia e nelle strutture complesse del vivente il passato è presente nella figura della memoria, una memoria naturale che asseconda i nessi favorevoli alla vita e scarta quelli ostili. Si sono venute a formare in natura, per così dire, delle ‘abitudini’ nel modo di orientarsi, quelle che noi consideriamo ‘leggi naturali atemporali’. Ma queste leggi sono esse stesse componente della natura. Sono ordinamenti contingenti di un mondo contingente. Se, con Rupert Sheldrake, le consideriamo abitudini della natura, scopriremo in esse delle esperienze che si sono impresse nelle strutture come memorie. Si tratta di una sorta di comportamenti normalizzati, regole secondo le quali la natura si orienta. Ma se nelle ‘leggi naturali’ vediamo abitudini acquisite dalle esperienze, troviamo anche qualcosa d’altro, precisamente tendenze ad organizzare la materia e la vita in sistemi sempre più complessi, dall’atomo fino al cervello.

3. Se nella storia della natura esiste anche una memoria della natura, allora in questa memoria si potrà riconoscere pure la sapienza della natura. In linea del tutto generale, si tratta della sapienza dell’essere contro il non essere, e del sopravvivere contro lo scomparire. Se non si desse questa sapienza mirata e organizzata, le strutture materiali e vitali sarebbero da tempo collassate, insieme al cosmo.

4. Se esiste una memoria della natura rispetto al suo passato, allora esiste pure un’aspettativa nell’organizzazione dei sistemi naturali rispetto al futuro. Non soltanto gli esseri umani ma tutti i sistemi di vita autoreferenziali combinano insieme esperienze ed aspettative, e riferiscono le potenzialità del futuro alle realtà del passato. La loro presenza costituisce il fronte sul quale si attuano o si vanificano le possibilità. Tutto ciò che esiste è diventato e tutto ciò che è diventato esiste nel processo del divenire e svanire. Ma diventare può solo ciò che ha un futuro davanti a sé, e se questo futuro è pieno di possibilità. Tutti i sistemi materiali e vitali che noi conosciamo sono materia processuale, quindi sistemi aperti. E i sistemi aperti sono compartecipi e anticipano le loro possibilità di futuro. Proprio per questo il futuro ha priorità sul passato: dal futuro può diventare il passato, ma dal passato mai il futuro. Esso racchiude pertanto una possibilità più elevata di realtà: ogni realtà è possibilità realizzata. E pure qui non c’è reversibilità.

5. Se esiste una storia della natura con una struttura temporale irreversibile, tutti gli esseri naturali sono riferiti alla loro memoria riguardo al proprio passato e alle loro aspettative riguardo al proprio futuro. Tutte le strutture accertabili della realtà sono incanalate in questi tempi e vanno dunque comprese come fasi di trapasso verso altre forme. Tutto ciò che si forma trapassa in altro da sé. Lo stesso cosmo, nel suo insieme, si presenta come un processo incompiuto, che non conosce ancora il proprio futuro. Tutto ciò che noi possiamo conoscere sul piano delle scienze della natura deriva da una massa di potenzialità che largamente ancora ignoriamo. Si danno però dei campi limitati di aspettative, dove possiamo registrare eventi reali. Se non ne disponessimo, non riusciremmo a capre né gli elettroni, né gli esseri viventi e nemmeno il cervello umano.

6. Percependo la priorità del futuro nel concetto del tempo e della potenzialità nel concetto della realtà, arrivo dunque a Dio ed al suo operare nella storia della natura e degli uomini. Secondo la metafisica aristotelica, poi assunta dalla teologia cristiana come ‘teologia naturale’, Dio è la ‘Realtà che tutto determina’, l’Essere supremo e l’Atto puro.

Ma dopo quanto abbiamo detto, dovremo ampliare questa immagine di Dio. Per ‘Dio’ noi intendiamo la fonte di tutte le possibilità e l’origine del tempo dal futuro. Al concetto di Dio noi leghiamo non la determinazione di ogni realtà bensì la possibilizzazione del possibile: un Dio che concede tempo, che dà tempo, e consente in tal modo movimento, libertà e vita. Ma allora non potremo continuare ad immaginare la sua onni-potenza come un potere sovrano esercitato dal Monarca celeste che tutto controlla, ma piuttosto come onni-pazienza che tutto sopporta. Dio opera all’interno del mondo sopportando tutto con la sua pazienza, concedendo tempo alle cose, dando spazio e aprendo nuovi campi di possibilità ai loro movimenti. In forza della sua pazienza Dio sostiene il mondo e in forza della sua aspettativa egli consente ad esso sempre nuovo futuro.
Questa pazienza di Dio è sicuramente fondata sulla sua autolimitazione, perché soltanto se l’assoluto limita relativamente se stesso è possibile una coesistenza con il relativo. Con questa sua autolimitazione Dio limita pure la propria onnipotenza, onnipresenza e onniscienza, liberando così spazi di vita e tempi alle sue creature. Ma è solo Dio che può limitare e solo l’onnipotenza può ritrarsi, per cui in una simile prospettiva sarebbe fuori luogo pensare ad una rimozione di Dio dal mondo.
Se ripensiamo di nuovo alla storia della natura e degli uomini, non saremo indotti a cercare l’onnipotenza di Dio in interventi miracolosi e grandiosi che calerebbero dall’alto, ma la vedremmo piuttosto nella sua pazienza che sopporta in silenzio e che apre tempi e fa emergere nuovi possibilità.
Concludo con la stupenda esperienza che il profeta Elia fece sul monte Oreb, come leggiamo nel cap. 19 del primo libro dei Re.

Il profeta è caduto in disgrazia e, braccato, fugge verso il monte Oreb, per lamentarsi con Dio: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita”. E nel corso della notte Dio stesso gli compare sul monte. Ma in che modo? Leggiamo che incominciò a spirare un vento impetuoso, “ma il Signore non era nel vento”. Poi ci fu un terremoto, “ma il Signore non era nel terremoto”. Ci fu un fuoco, “ma il Signore non era nel fuoco”. Infine, come traduce Lutero, ci fu “un leggero ronzio”, o, come traduce Martin Buber, “la voce del silenzio fluttuante nell’aria”. “Come l’udì, Elia venne fuori e si pose davanti al Signore: perché Dio era lì”.




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Traduzione dal tedesco di Dino Pezzetta
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)
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