Riprendiamo di seguito alcuni passaggi dell’ampia intervista rilasciata dal teologo Kurt Appel al quotidiano Il Foglio, nel giorno di Pasqua (1 aprile 2018).
Il teologo austriaco Kurt Appel, promettente studioso e docente di teologia fondamentale e di filosofia della religione all’Università di Vienna, ci guida nella riflessione sul mistero pasquale alla scoperta della sua peculiarità. Queste considerazioni si sviluppano a pochi giorni dalla pubblicazione in lingua italiana del suo importante saggio Tempo e Dio. Aperture contemporanee a partire da Hegel e Schelling (Queriniana, 2018, pp. 240), tentativo di elaborazione di una teoria teologica del tempo, attenta alle dimensioni del passato e dell’eternità.
Un’attenta analisi dei racconti pasquali rivela delle divergenze e delle contraddizioni insormontabili. Una loro armonizzazione risulterebbe poco convincente e intellettualmente disonesta. I racconti evangelici di Matteo e di Luca presentano delle modifiche e delle amplificazioni notevoli: lo sviluppo delle tradizioni pasquali è stato complesso. Una tale diversità non risulta imbarazzante per la fede e per la teologia cristiana?
L’esegesi moderna è nata nelle università tedesche, per di più nelle facoltà di teologia protestante. E cosa fa lo studioso tedesco? Studia, seduto alla sua scrivania, le fonti e i documenti – al contrario, lo studioso austriaco preferisce recarsi in un caffè o al teatro… Per questo, si pensava che anche gli autori del Nuovo Testamento avessero scritto i propri testi compilando documenti e notizie. Io non sono di questo parere. Nel mondo antico gli uomini, in particolare i primi cristiani spinti dal desiderio della missione, hanno viaggiato. Durante i loro viaggi missionari, i pochissimi cristiani dei primi decenni hanno fatto ricorso a qualsiasi possibilità e strumento per scambiare novità. In tal modo, le comunità cristiane erano ben collegate tra loro. Dal mio punto di vista, anche gli autori dei vangeli si sono conosciuti, erano a conoscenza gli uni degli altri. Così, i vangeli non si contraddicono, al contrario si completano a vicenda, costituendo una sinfonia in quattro tonalità. Quindi, da un lato, ritengo vero che un’armonizzazione dei quattro vangeli canonici sarebbe intellettualmente disonesta. Dall’altro lato, penso che le differenze presenti in essi non siano casuali, ma intenzionalmente volute. Le differenze non esprimono una contraddizione, bensì una pluralità della salvezza che non può essere raccontata in modo lineare, attraverso una sola narrazione.
Una percezione teologica del tempo e dello spazio soggiace alle diverse localizzazioni dell’incontro di Gesù risorto con i suoi discepoli.
Certamente. Con le localizzazioni dell’incontro di Gesù risorto in Gerusalemme e in Galilea viene espresso qualcosa di più profondo: nel passaggio tra tempo ed éschaton, ossia nel passaggio dalla storia terrena alla storia celeste, i nostri schemi geografici non funzionano più. Nell’éschaton, tutte le coordinate geografiche sono rese inoperose. Al posto dello spazio-tempo subentra un mondo simbolico. Ciò non si deve intendere come se i racconti sul Risorto fossero solamente simbolici, mentre il mondo fisico andrebbe avanti in maniera indipendente. I cristiani devono anzi avere uno sguardo molto più radicale su questo evento. Il mondo spazio-temporale e fisico è reso inoperoso nell’éschaton, indicato dalla risurrezione, e al suo posto subentra un mondo poetico. Nella lingua tedesca esiste la parola aufheben che racchiude un triplice significato: “elevare”, “conservare” e “rendere inoperoso”. Si può dire che il mondo simbolico hebt auf – “eleva, conserva, rende inoperoso, cancella” – il mondo spazio-temporale.
Nelle apparizioni del Risorto tra la Galilea e la Giudea, in particolare nella capitale Gerusalemme, sembra dunque trasparire una dialettica biblico-teologica che parla del Dio di Gesù.
Nei vangeli, l’apparire del Risorto è situato sia in Galilea che a Gerusalemme perché il Dio del mondo biblico oscilla sempre tra periferia e centro. Dio si rivela in Sion, il monte di Gerusalemme sul quale era situato il tempio, e anche sul Sinai. Nel racconto del paradiso, contenuto nel libro della Genesi, l’albero della conoscenza che appartiene a Dio è situato sia al centro che al margine del giardino dell’Eden. Il sabato, il “tempo di Dio”, si trova al centro e al margine del tempo feriale. Durante la sua vita, Gesù ha agito sia in Galilea che a Gerusalemme. Come tutte le altre divinità del Vicino Oriente antico, il Dio biblico è un Dio al centro della vita politica e culturale. Tuttavia, diversamente dalle altre divinità, si tratta di un Dio che non appartiene mai completamente a questo centro, egli non trova del tutto la sua dimora nei templi, la sua presenza non è limitata ai palazzi e alle grandi città, ma si estende anche alle periferie. Per queste ragioni, circa la verità dei racconti evangelici, ritengo che sarebbe molto più preoccupante se l’apparire del Risorto fosse stato limitato a un solo luogo geografico, magari al solo centro di Gerusalemme. Ma il Risorto ci incontra “sulla soglia”, tra centro e periferia, tra mondo geografico e mondo simbolico, tra Gerusalemme, come luogo delle promesse, e la Galilea, come luogo di emarginazione. Come alla fine della nostra vita vengono qualche volta ricapitolati gli eventi più importanti, inclusi quelli che erano al margine della nostra memoria, così anche il Risorto si ricollega ai luoghi decisivi del suo agire – Gerusalemme-centro, Galilea-periferia –, trascendendo il mondo fisico.
Nonostante le difficoltà sollevate dalle discordanze delle narrazioni evangeliche, la certezza comune è che il Crocifisso di Nazaret vive presso Dio.
Il Crocifisso vive presso Dio, ma vive presso Dio in quanto ci incontra nei poveri, in quanto noi – come nel Vangelo di Marco – riprendiamo il cammino verso la Galilea, dove incontriamo il mondo emarginato dei piccoli. Forse si dovrebbe esprimere questa realtà così: il Dio biblico ha il suo luogo nel tempio, e il nuovo tempio è la croce. Per tale ragione, il Crocifisso vive presso Dio, in quanto Dio si trova nelle piccole e grandi croci di questo mondo.
Mai menzionato da Paolo di Tarso nelle sue lettere e dai primi compendi della predicazione apostolica, il tema del “sepolcro vuoto” è da qualche anno molto discusso in teologia e in esegesi. Come lo si deve comprendere? Può costituire una “prova” della risurrezione di Gesù?
Ritengo non si debbano cercare prove sul piano fisico. Anche l’amore non si può provare, ma solo sperimentare. Il sepolcro vuoto è un segno centrale del cristianesimo. Esso rimanda sia alla nostra storia e al nostro mondo categoriale che all’éschaton. Il luogo di Cristo non è situato né in un mondo platonico ultramondano né in un mondo cartesiano-categoriale dove esistono solo oggetti, e nel quale la vita non possiede alcun ruolo particolare. Tuttavia, il cristianesimo ha il suo luogo nel mondo storico che viene trasfigurato. Come ho già accennato, Cristo è l’intersezione e il passaggio tra il mondo simbolico e il mondo fisico. La stessa cosa vale per la tomba vuota: si tratta di una realtà “spazio-temporale” situata a Gerusalemme, che è possibile visitare anche oggi. Ma il sepolcro è anche vuoto, esso non contiene il corpo fisico di Gesù perché il suo corpo risorto è ovunque, laddove si trova la vita ferita, laddove gli uomini festeggiano il passaggio dalla morte fisica, mentale, sociale e culturale, alla vita. Il corpo risorto di Cristo si trova nel paesaggio affettivo ed empatico della Bibbia, non in una tomba gerosolimitana.
Il “sepolcro vuoto” è allora irrilevante, come sostengono alcuni, dal punto di vista storico?
Il sepolcro vuoto non è irrilevante, ma è un simbolo del transito dal mondo fisico al mondo dei segni – il mondo simbolico, appunto. Esso ci indica che i nostri corpi sono qualcosa di più della pura materia spazio-temporale. Vorrei aggiungere un elemento su Paolo di Tarso. È vero che egli non si riferisce direttamente al sepolcro vuoto, ma parla di una nuova vita in Cristo. Con ciò, Paolo si riferisce a una vita che non va più situata nella tomba.
Il teologo italiano Vito Mancuso, nel suo libro Io e Dio. Una guida dei perplessi (Garzanti, 2011), ha affermato che la risurrezione di Gesù non è il fondamento della fede. Lei condivide tale percezione? La risurrezione può essere ancora considerata come la base sulla quale poggia la fede cristiana?
Non sono d’accordo con questa affermazione. Essa dimezza l’esistenza cristiana, in quanto la riduce alla materia spazio-temporale. Certamente, è vero che la risurrezione non può essere vista come una realtà meramente ultramondana. Nondimeno, ogni corpo rimanda oltre se stesso e la nostra vita consiste in un’apertura per l’Altro, così siamo già un corpo inizialmente risorto. Ridurre il mondo a ciò che è immediatamente dimostrabile e identificabile, al tempo cronologico e allo spazio cartesiano, non credo sia un pensiero e un atteggiamento biblico. Penso che il cristiano debba confrontarsi con le sfide della nostra cultura – proprio come fa peraltro Mancuso –, che egli debba anche testimoniare con la propria esistenza che il nostro mondo non è un essere di oggetti, un essere solo quantitativo ed economico, ma un essere simbolico, ovvero di segni che trascendono la realtà rappresentabile nella dimensione spazio-temporale. Dal mio punto di vista, questo sguardo non è solo necessario per potersi dire cristiani, ma è anche la condizione per un nuovo approccio alla vita e per un nuovo umanesimo.
Quali ritiene siano le radici permanenti del non credere nella risurrezione di Cristo?
Esistono diverse ragioni. La chiesa si è presentata troppo spesso nella storia come un potere totalitario che ha sollecitato la resistenza. In tal modo, i dogmi centrali del cristianesimo talvolta non sono stati collegati con la speranza della salvezza, ma con l’oppressione della libertà umana. Un altro motivo è da ricercare in uno sguardo riduzionista del mondo contemporaneo: noi – mondo occidentale – riduciamo, da un lato, la realtà agli oggetti, dall’altro lato, lo spazio e il tempo a qualcosa di quantificabile e di misurabile. Il mondo biblico però si presenta come una realtà di segni e di significati interconnessi e che rimandano all’apertura dell’essere, del tempo e dello spazio – oltre la semplice dimensione quantificabile. In un orizzonte concettuale del genere, la risurrezione è il segno nel quale sono interpretabili la vita e l’essere. In un’ottica materialistica, invece, la risurrezione (ma anche la vita e la poesia) rimane incomprensibile.
A cosa può essere ricondotto un altro motivo del non credere alla risurrezione?
Un’altra ragione del perché la concezione della risurrezione si sia allontanata sempre più dall’orizzonte dei cristiani, oltre che delle persone del nostro tempo, è legata alla comprensione del corpo risorto in quanto corpo invulnerabile. Ma l’esistenza invulnerabile sarebbe un’esistenza intoccabile, mostruosa. Quando si leggono i vangeli, le ferite della crocifissione di Gesù rimangono, anche se vengono trasformate, diventando i segni dell’inizio di una nuova comunità. Penso che la risurrezione renda perfino più tangibile il nostro corpo. Il corpo risorto è un corpo di e in comunità, soprattutto in relazione con le creature più deboli della storia umana. La chiesa cattolica ha sempre creduto alla comunità dei vivi e dei morti. Nella loro indisponibilità, i morti sono con noi e noi abbiamo una responsabilità nei loro confronti.
Di fronte ai progressi scientifici e tecnologici, nel contesto dell’affermazione del transumanesimo, sorgono due domande: ha ancora senso credere nel Cristo risorto? Quale linguaggio adottare per esprimere questa realtà?
La teologia deve sviluppare un linguaggio poetico, in collaborazione con l’arte e la filosofia. Questo linguaggio deve essere sensitivo, erotico e politico nel senso più profondo. Niente deve sottrarsi alla sua attenzione. In verità non si deve far altro che quanto si verifica nella liturgia, dove infatti avviene la trasformazione della materia, dunque del pane e del vino, in un segno, Cristo. È questo il motivo per il quale nella teologia devono essere coltivate la poesia, la filosofia e la cultura.
La teologia potrebbe quindi aiutare a superare la distanza culturale che separa l’uomo moderno dall’universo mentale nel quale si espressero gli evangelisti, senza con ciò cancellare lo scandalo cristiano del Dio crocifisso e risorto dai morti.
La teologia ha sviluppato un intero cosmo di nozioni e di traduzioni concettuali. Come la chiesa cattolica in generale, anche il mondo teologico esprime un impressionante programma estetico. Ogni pensiero, ogni momento della realtà possiede il suo ordo e la sua estetica. Nondimeno, esiste il pericolo che questo mondo divenga autoreferenziale e trascuri le sfide della cultura contemporanea. La teologia, che in un certo senso rappresenta l’ultima disciplina veramente universale nel nostro mondo, deve sviluppare sempre di nuovo dei metodi per interpretare la cultura, offrire strumenti per cogliere i fermenti culturali, politici e sociali di un’epoca. Essa deve aiutare a comprendere e criticare la società. Penso che le categorie teologiche possano aiutare a capire a fondo la letteratura, i film e gli sviluppi socio-politici del pianeta. In questo senso, la teologia riuscirà a superare le distanze culturali se riesce a guardare oltre il proprio ambito disciplinare. Papa Francesco colpisce la quotidianità dei suoi ascoltatori e la trasforma, riesce a parlare la lingua degli uomini d’oggi, e tuttavia non perde mai di vista la cosa essenziale: nella croce siamo riconciliati con Dio, con gli altri e con noi stessi. Nel segno della croce è possibile accettare la nostra finitudine e incontrare la gioia e la gloria di Dio anche nell´incontro del più piccolo. In questa capacità di collegare il centro della fede cristiana con la cultura odierna si può ritenere Francesco uno tra i teologi veramente bravi di oggi.
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