15/04/2023
533. CI HA LASCIATO JACQUES GAILLOT: VESCOVO IN USCITA, PROFETA SCOMODO
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“Elettrone libero”, “vescovo dei margini”, a capo di una diocesi fantasma dopo la sua estromissione dalla quella reale di Evreux, il vescovo Jacques Gaillot, morto mercoledì 12 aprile a Parigi, all’età di 87 anni, è stato una delle figure più controverse e popolari della chiesa francese del post-concilio.

Nato nel 1935 a Saint-Dizier, in Francia, licenziato in teologia e diplomatosi presso l’Institut de liturgie parigino, Gaillot fu ordinato nel 1961. Dopo una rapida ascesa nella gerarchia ecclesiale, fu nominato vescovo della diocesi di Evreux nel 1982, dove rimase fino al 1995, quando papa Giovanni Paolo II lo sollevò dall’incarico a motivo di alcune sue prese di posizione a favore dell’ordinazione di uomini sposati, oltre che a favore dei divorziati risposati. La “punizione” così inflitta a un vescovo popolare, mediatico e progressista suscitò grande scalpore in Francia, con numerose manifestazioni di sostegno. A Évreux diverse migliaia di persone parteciparono alla messa di addio del vescovo, il 22 gennaio 1995.

Mons. Gaillot fu poi degradato a vescovo in partibus infidelium della diocesi di Partenia (Mauritania), scomparsa dalla geografia cattolica nel V secolo e definita perciò diocesi “fantasma”. Gaillot, nondimeno, ne seppe assumere il ministero in maniera effettiva, trasformandola in un vero e proprio strumento di difesa degli esclusi dalla società (tra le altre cose, fondò e fu co-presidente dell’associazione Droits Devant!, che lotta contro le situazioni di precarietà e di esclusione).

Papa Francesco lo ricevette in udienza privata nel settembre del 2015. Così il ricordo dell’incontro, nelle parole del vescovo francese: «Ero in una stanza riservata alle visite della Casa Santa Marta; a un certo punto, una porta si è aperta: era il papa che entrava, semplicemente. L'incontro è avvenuto in modo familiare, senza protocollo. È veramente un uomo libero. A un certo punto si è alzato e ha detto: c’è un fotografo? Siccome non c'era, abbiamo scattato una foto con un cellulare».

Il catalogo Queriniana ospita due suoi interessanti saggi:

-          Lettera agli amici di Partenia (1996)

-          Ecco le cose in cui credo! (1998)

In ricordo di quel “vescovo in uscita” ante litteram, lasciamo a lui la parola, con due brevi estratti dai suoi testi. Sono gli incipit dei due libri, e dicono molto di uno stile pastorale che sarebbe bene non far passare di moda.


 

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Partenia non ha confini

Cari amici di Partenia, non so se ci rimarrete male, ma molta gente ha cominciato a non prendervi sul serio. Non è colpa di nessuno. Il vostro nome ha la risonanza che può avere un peplo antico, una conquista romana, e nel 1995 di centurioni se ne vedono pochi. Tuttavia, e malgrado il senso di umorismo che mi si riconosce, non ho la pur minima intenzione di scherzare. Questa volta proprio no.

Dodici anni fa non avevo creduto, subito, alla mia nomina a vescovo di Évreux. Ero più giovane, avevo meno pesi sulle spalle... e la lettera, posata sulla mia scrivania, con il sigillo della nunziatura, non mi aveva convinto se non dopo una lettura attenta. Ma ora – e anche senza la lettera – la mia mente non è stata sfiorata dal dubbio nemmeno per un solo istante. Questa certezza proveniva da Roma, donde io tornavo, e da tre giudici-prelati che, il giorno prima, mi erano apparsi tutt’altro che persone in vena di scherzare [si trattava di mons. Bernardin Gantin, prefetto della Congregazione dei vescovi, mons. Jean-Louis Tauran, segretario della medesima Congregazione, e dell’arcivescovo argentino Jorge Mejía, segretario per le relazioni della Santa Sede con gli Stati].

Il seguito geografico fu leggermente più fantasioso. Anche se già...

Vi ripeto, non prendetevela a male, ma Partenia è da secoli che non figura più sulla faccia della terra, e nel mondo moderno – mi dicono – neanche nei quiz televisivi. L’ignoranza non frena l’impazienza. Per giorni e giorni tutti andarono a tentoni, in pubblico e sulla stampa, esaminando carte e mappamondi, pronti a puntare l’indice sul luogo misterioso. Io non fui l’ultimo a rimanere sconcertato: l’enciclopedia Larousse mi aveva dato informazioni a suo tempo su Évreux, ma stavolta...

Risultai “trasferito” dapprima in una certa Parthenay, nel dipartimento Deux-Sèvres, con grande gioia di un mio nipote di cui diventavo vicino. Poi Partenia andò in esilio in Mauritania, andò a insabbiarsi nel deserto. Prima di fissarsi, infine, su una carta dell’Africa settentrionale cristiana risalente al V secolo e rispolverata da alcuni dotti geografi.

Dunque abbiamo fatto un po’ fatica a ritrovarvi. L’ingratitudine del tempo ha fatto di voi degli scomparsi, degli invisibili, annegati in una sorta di Atlantide della fede. Il vostro nome, oggi affiancato al mio, risorge dal fondo della storia, come un miraggio funesto, un’oscura chimera uscita dalla gerla di un castigamatti. Ora, il fatto è che voi per me esistete. Non ne faccio una questione di luogo, di dimensione o di storia. Voi non siete né una diocesi fantasma né una diocesi perduta, ancora meno una diocesi da riconquistare. Voi non siete una diocesi. Per me, amici di Partenia, voi siete il mondo. Ovunque vi troviate: in terre islamiche o altrove, nelle prigioni o nei salotti, alla mia porta o a migliaia di chilometri. Un mondo come io lo amo, di vasto orizzonte, senza pastoie e senza barriere. Un mondo per l’Uomo, per il Vangelo. È così che io vi vedo. Ovunque e in nessun luogo. Ed è vedendovi così che oggi vengo verso di voi.

Vi diranno che io faccio il viaggio per costrizione. È vero. Francamente, io non avrei pensato a Partenia da solo. Ma posso anche affermare che ho avuto la possibilità di scelta. Sotto l’apparenza delle dimissioni volontarie, mi si proponeva di rimanere a Évreux. Come vescovo “emerito”, in altre parole onorario o senza alcun ruolo. Io non ebbi, ad essere sinceri, alcun merito nel rifiutare. Mi piacciono le rose del giardino del vescovado, ma non a tal punto da ridurmi a passare tutto il giorno a potare rose. Ho optato, quindi, per essere “vescovo rimosso”. Certo, è una parola davvero brutta. Dalla risonanza autoritaria. Ma aveva almeno l’attrattiva dell’ignoto. Non sapevo che cosa significava, che cosa ne sarebbe risultato, una volta che “rimosso” fosse stato messo insieme a “vescovo”...

È bene precisare che agli occhi degli archeologi del Vaticano, voi non rappresentate né una onorificenza né una ricompensa. Ancor meno una promozione. Essi hanno attinto alle loro riserve, e hanno trovato un luogo inameno che legasse bene con sanzione. Quella che mi avevano inflitto i prelati di Roma. Tanto vale confessarlo fin da ora: io sono l’oggetto di una “correzione fraterna”. Una persona punita. Un vescovo punito. Un prodotto raro... che, a leggere il comunicato ufficiale, è in pari tempo anche un incapace.

Nell’atmosfera tesa e glaciale in cui operarono i miei giudici, non dovette apparire nemmeno un angolino di cielo azzurro: uno può avere la coscienza chiara e la fede che fa tutt’uno con il proprio corpo, ma venire a sapere in meno di mezz’ora che dopo dodici anni di responsabilità pastorale non ti sei dimostrato capace di «esercitare il ministero di unità che è il primo dovere di un vescovo»... e che «in considerazione di ciò, noi abbiamo deciso che domani, a partire dalle ore dodici, lei sarà sollevato dalle sue responsabilità di Évreux», può assestare un duro colpo al tuo morale. Lo confesso senza vergogna: nelle ore che seguirono, il nome di Partenia mi appariva come un colpo basso supplementare, come una terra lontana sperduta nelle nebbie dell’oblio, una terra di esilio segnata dal sigillo dell’infamia.

Mi perdonerete, cari amici di Partenia, questa reazione a base di emozione e di disillusioni? È una reazione che non è più la mia.

Non è più la mia perché, come diceva Martin Luther King, io ho fatto un sogno: quello di poter portare la parola del Vangelo a tutti e dappertutto. Quello di poter scendere in campo, di andare nella strada, nei mass media e negli altri luoghi di corruzione senza temere di peccare per aver frequentato cattive compagnie. Quello di poter “uscire” senza preoccuparmi di sapere se sono in casa mia o se sto calpestando il terreno di uno dei miei confratelli. Quello di non dover più temere i fulmini della Santa Sede per – è una citazione – «i miei frequenti viaggi fuori della mia diocesi».

La mia diocesi? Partenia non ha confini...

 

 

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Ricordati che sono stato io, Tayeb

Era inverno. Avevo passato la serata con il vescovo di Orléans. Doveva tornare a casa. Non appena la porta si aprì, ci vennero i brividi per il freddo: tutto coperto di neve, la strada ghiacciata. La piazza che si apriva davanti a noi aveva un aspetto sinistro. C'era la luna nuova. Notte fonda. La luce dei lampioni riusciva a stento a fendere la nebbia.

Il mio amico era arrivato in ritardo, a causa dello stato delle strade. Avendo fretta di vedermi, aveva lasciato la macchina nel primo parcheggio trovato, ma adesso non ricordava bene dove fosse.

Udiamo delle risa e delle grida. Sette giovani magrebini raccolgono la neve sul cofano delle macchine parcheggiate e si prendono a pallate. La piazza, chiaramente, appartiene a loro. Per una volta, se la possono godere. Non ci prenderanno come bersaglio? «Pare di essere nei sobborghi», mi sussurra il vescovo, non troppo tranquillo. «Occhio!».

Però dobbiamo pur passare. Mi faccio avanti verso il più vicino, accovacciato accanto ad una macchina, mentre sta finendo di prepararsi una palla di neve:

– In gamba! Si vede che non hai freddo! Sei pieno di vita!

Stupito, alza la testa, rimane per un momento con la bocca aperta e lascia cadere la sua palla:

– Ma... ma lei è monsignor Gaillot!

– Esatto!

Senza rispondermi, si alza e, tutto soddisfatto, si mette ad agitare le braccia, gridando ai suoi compagni: «Venite, venite, c'è monsignor Gaillot!». Poi, guardandomi fisso in faccia: «Sono io, Tayeb, che l’ho riconosciuta!».

Fierezza di quel grido! Vale tutte le presentazioni di questo mondo. Io sono io, e lui è lui. Ci stringiamo la mano. Ma già il gruppo, che prima stava davanti a noi, comincia a farcisi d’intorno, ad accoglierci in maniera dimostrativa. Adesso formiamo un cerchio. Come un calore improvvisamente ritrovato.

Spiego loro la situazione: stiamo cercando la nostra macchina, più o meno in quella direzione. Neanche la minima esitazione da parte loro: «Vi accompagniamo». E partiamo, circondati dai nostri nuovi alleati, chiaramente decisi a vegliare su di noi.

Davanti, il vescovo cerca di ritrovare la via. Tayeb cammina con lui.

– Che ne pensa dei preservativi?, gli chiede.

Il vescovo stupito:

– Che cosa? Davvero ti interessa il mio parere?

– Sicuro! Voi vescovi siete uomini di religione. Quando voi parlate, quello che dite interessa le altre religioni.

Io sto dietro con il resto del gruppo:

– Oggi per voi è festa. È l’Aid El Seghir,la fine ne del Ramadan.

– Ma come, lei lo sa?

– Sicuro che lo so: quello che riguarda voi, riguarda anche me.

Resto ammirato di fronte all’apertura e alla disponibilità di questi giovani. Perché bisogna proprio che la paura venga così spesso a uccidere l’incontro possibile in ogni angolo di strada, nel momento più inaspettato? Da parte nostra, è sparita qualsiasi inquietudine e, così, ritroviamo dei fratelli. La paura scaccia l’amore e l’amore scaccia la paura.

La strada è nostra.

Anzi no! Ecco qualcuno che passa. Cappello abbassato, collo del soprabito rialzato. Insomma, l’aria un po’ losca. Lo sconosciuto si ferma, ci squadra, pare esitare. È chiaro che anche lui ha un po’ di paura. Alla fine mi rivolge la parola. «Le vorrei parlare un momento, da solo». Breve esitazione da parte mia. Mi sento così a mio agio in seno al mio gruppo, e devo allontanarmene. E a volte mi è capitato di farmi coprire di ingiurie. Anche i miei nuovi compagni sono diffidenti: «Che cosa può volere da lei...?». Comunque io acconsento. Mentre mi allontano, i giovani mi seguono con lo sguardo. Alcuni hanno ancora la loro palla di neve, pronti a volare in mio aiuto.

Di nuovo piombo nel freddo. Ma non c’è nulla da temere. Lo straniero è portoghese.

– Ci tenevo a dirle la mia simpatia e la mia solidarietà per tutto quello che fa, dichiara semplicemente.

Così dopo un attimo posso rassicurare la mia guardia del corpo: «Niente paura! È uno che mi voleva fare coraggio».

Adesso ritroviamo la macchina. È venuto il momento di lasciarci. È allora che Tayeb mi rilancia il suo appello:

– Ricordati che sono stato io, Tayeb, che ti ho riconosciuto.

Il grido mi ha accompagnato per molto tempo e mi accompagna ancora. Sì, me lo ricordo. E ci medito sopra.

Chi sei, Tayeb? Di te non so assolutamente niente. Posso comunque pensare che, anche tu, devi conoscere la “galera”, le vessazioni, i controlli, per il semplice fatto del colore della tua pelle. La vita è dura, nella nostra società. Quante volte non avrai sentito dire che agli occhi di coloro che ti guardavano, tu non eri niente, eri solo uno straniero che non aveva il diritto di venire in Francia? E improvvisamente, ecco che tu irradiavi fierezza, che, pieno di gioia, mi lanciavi il tuo nome: «Sono stato io, Tayeb!».

E il timore sottinteso: «Ricordati!». Come se temessi di vedere questo breve istante ricadere nel nulla, e tu con esso. È così che si ricade nell’abisso, nel pozzo, dopo aver avuto per un istante l’impressione di volare tra le stelle.

Ci si ricorda degli eroi, degli artisti, degli scrittori celebri, dei grandi uomini. Su di loro si scrivono libri. Vengono ammirate le tracce che essi hanno lasciato. Si vorrebbe imitarli. Ma a che pro ricordarsi di un magrebino incontrato per caso, una sera, al buio e nella neve, se non perché, attraverso la sua richiesta, sentivo tutta l’attesa dell’uomo, quella che io sento in fondo a me stesso? Per un breve istante abbiamo comunicato, abbiamo fatto alleanza, abbiamo camminato insieme nella fiducia e nella pace. «Ognuno nella sua notte», dice il titolo di un libro di Julien Green, che descrive la solitudine profonda dell’uomo. Ma ci sono momenti in cui questi “ognuno” possono incontrarsi. Perché ciascuno nel proprio cuore nasconde una stella. Perché la stella brilli, basta che vengano infrante le barriere della paura. Allora la notte diventa luce, e il freddo della solitudine, calore. Come non ricordarsi di tali momenti di incontro, per quanto fuggitivi possano essere... e, di conseguenza, sperare?

Oggi, io scrivo, ed è grazie alla tua storia che inizio questo libro, tanto essa è carica di domanda e di senso.






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