05/02/2010
156. Cento anni di ecumenismo 2. (1910-2010) di Peter Neuner
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V. Contributi cattolici al movimento ecumenico

La chiesa cattolica non è membro del Consiglio ecumenico delle chiese, però è parte del movimento ecumenico. Sarebbe riduttivo far cominciare l’ecumenismo cattolico soltanto con il Vaticano II. Iniziative precedenti per una unificazione della cristianità furono tuttavia guidate in larga misura dall’idea che i “fratelli separati” dovevano rientrare nel seno della chiesa cattolica. Questa avrebbe dovuto prepararsi a offrire loro una patria. Il concilio Vaticano II segna un passo in avanti dell’ecumenismo con la sua revoca della scomunica tra Roma e Costantinopoli, con la fondazione del Segretariato per l’unità dei cristiani, con l’invito di “osservatori ufficiali” provenienti dalle altre chiese cristiane. Le affermazioni ecumeniche più importanti si trovano nelle costituzioni dogmatiche sulla chiesa e sulla rivelazione, inoltre nel decreto sull’ecumenismo, nel decreto sulle religioni non cristiane con le sue considerazioni sull’ebraismo, nel decreto sulla libertà religiosa, nonché nella costituzione sulla chiesa nel mondo contemporaneo. In fondo, nel concilio non fu lasciato da parte alcun tema riguardante la prospettiva ecumenica, perché in una chiesa ecumenicamente aperta non ci può essere alcuna questione puramente interna. Singole affermazioni importanti furono fatte a proposito della questione del ministero ecclesiale e dell’eucaristia, del matrimonio confessionalmente misto, dell’intercomunione, del rapporto tra primato e collegialità e del rapporto tra chiesa universale e chiesa locale, della libertà di coscienza e della libertà religiosa.

La base teologica di questo orientamento ecumenico fu posta nella costituzione dogmatica Lumen gentium, allorché a proposito della chiesa di Gesù Cristo fu detto che essa «sussiste (subsistit) nella chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui». Originariamente nel testo preparatorio c’era: questa chiesa è (est) la chiesa romano-cattolica; l’est fu sostituito con subsistit in. Ciò significa: la chiesa come istituzione manifesta la chiesa di Gesù Cristo in una forma storicamente limitata. Questa pretesa deve essere avanzata da qualsiasi chiesa, qualora essa non voglia dichiararsi illegittima. Ma da qui nel concilio non viene più dedotto che non possono eventualmente darsi anche altre sussistenze di chiesa. Ciò non viene certo direttamente formulato in questo passo, ma non viene neppure escluso. Altrimenti si sarebbe potuto lasciar stare tranquillamente l’est. Con questo spostamento dall’ “est” al “subsistit in”, quasi impercettibile nella traduzione, e con le possibilità di interpretazione lasciate intenzionalmente aperte, è «diventato possibile uno sviluppo dalla portata imprevedibile». In effetti, il concilio non ha parlato solo di chiese ortodosse orientali, in cui parimenti sussiste la chiesa di Cristo, bensì ha parlato anche di “chiese e comunità ecclesiali” occidentali, senza indicare con maggior precisione a chi spetti una simile qualifica. Esso ha in ogni caso dischiuso la possibilità di concepire come chiese anche comunità nate dalla Riforma e di riconoscere così in esse ciò che, secondo la concezione cattolica, rende la chiesa tale.

Nel cattolicesimo postconciliare furono posti importanti segni ecumenici. Di particolare importanza è l’enciclica Ut unum sint (1995) [trad. it., in Enchiridion Vaticanum 14, Dehoniane, Bologna 1997, 1556s.] di Giovanni Paolo II, che sancisce chiaramente la doverosità dell’ecumenismo e apre anche lo stesso papato a una nuova riflessione ecumenica. Nei tre direttori ecumenici sono raccolte e di volta in volta attualizzate le norme, che erano state emanate per la realizzazione e la promozione dell’ecumenismo. La chiesa cattolica intavola dialoghi bilaterali più di tutte le altre confessioni cristiane. Tra di essi una particolare attenzione meritano i dialoghi con l’Ortodossia, con la comunità anglicana e con il luteranesimo. Essi hanno condotto a conoscersi reciprocamente in una maniera sostanzialmente migliore e a consensi di larga portata. Sul punto, che più interessa le comunità, cioè sulla questione della comunione nella cena del Signore, non si è tuttavia giunti a un’intesa. Mentre le chiese nate dalla Riforma hanno tutte quante, benché in diversa misura, aperto la porta all’ammissione alla cena del Signore, le chiese ortodosse e la chiesa cattolica non si considerano autorizzate ad ammettere una comunione eucaristica senza una vera comunione ecclesiale. Le regole eccezionali, che finora la chiesa cattolica ha stabilito, riguardano un ambito molto ristretto. L’Ortodossia lega la cena del Signore così strettamente alla comunione di fede e alla comunione ecclesiale da non conoscere alcuna regola eccezionale. Lo scopo è appunto, e questo vale in ogni caso in linea di principio per tutte le grandi tradizioni cristiane, non l’intercomunione, ma la communio, la comunione ecclesiale, all’interno della quale ha poi il suo posto la comunione nella cena del Signore.


VI. Pietre miliari dell’avvicinamento ecumenico e il loro metodo teologico

In un ultimo paragrafo ricordiamo alcuni eventi, che risultarono importanti soprattutto per il loro metodo. In primo luogo dobbiamo menzionare la Konkordie reformatorischer Kirchen in Europa (Concordia delle chiese riformate in Europa) di Leuenberg. Almeno dalla fine del XIX secolo in poi le chiese luterane e quelle riformate si erano molto avvicinate e avevano concluso varie unioni malgrado le reciproche scomuniche presenti nei loro documenti dottrinali ufficiali. Un nuovo impulso per una comunità ecclesiale riformata si ebbe allorché si distinse tra ciò che è necessario e sufficiente per la vera unità della chiesa e le tradizioni ecclesiali. Secondo la Confessione di Augusta sufficienti (satis est) per la vera comunione ecclesiale sono la retta predicazione del vangelo e la celebrazione dei sacramenti in conformità alla loro istituzione. Ci voleva perciò un’intesa circa la parola e circa il sacramento, mentre in tutte le altre questioni era possibile tollerare differenze permanenti. Per una comunione ufficiale era cosa sufficiente se si poteva stabilire che le scomuniche ufficiali non riguardavano l’odierno stato della dottrina dell’altra chiesa. Di più non si deve, secondo la convinzione riformata, esigere per la comunione delle chiese. In particolare, non furono considerate necessarie strutture ecclesiali e ministeriali unitarie, per cui non si auspicarono neppure.

Stabiliti questi limiti, divenne possibile arrivare nel 1973 a Leuenberg a una Concordia delle chiese riformate in Europa. Una prima parte di questo testo descrive l’orizzonte, all’interno del quale la comunità delle chiese riformate divenne possibile, cioè la comune nascita dalla Riforma, i mutati presupposti nel corso della storia e le comuni sfide odierne. In una seconda parte viene illustrato il consenso nel modo di intendere il vangelo, quindi il consenso nella dottrina della giustificazione nonché nella celebrazione dei sacramenti, vale a dire del battesimo e della cena del Signore. Una terza parte affronta i punti controversi risalenti al tempo della Riforma e chiarisce che le scomuniche allora pronunciate non riguardano «l’attuale stato della dottrina delle chiese consenzienti» (n 32). Differenze permanenti in questo campo non possono giustificare la divisione delle chiese. Perciò le chiese entrate a far parte di questa Concordia, «concedono le une alle altre la comunione del pulpito e della cena del Signore. Ciò include il reciproco riconoscimento dell’ordinazione e la possibilità dell’intercelebrazione».

Il modello della Concordia di Leuenberg è di grande importanza ecumenica. Non si sono cambiate le professioni di fede e non si sono revocate le scomuniche dottrinali. Nelle scomuniche si distinse piuttosto tra l’affermazione positiva di fede, che esse contengono, e il “damnamus” pronunciato di volta in volta contro l’altra parte. Si constatò semplicemente che le scomuniche non riguardano – o non riguardano più – lo stato attuale della dottrina delle chiese consenzienti, per cui non hanno più la forza di legittimare oggi la divisione delle chiese. Con questo la Concordia di Leuenberg non è un consenso minimale. Se le scomuniche non sono sorrette da motivi innegabili di verità, diventano obsolete e non possono più impedire la comunione dei cristiani.

L’ecumenismo del consenso o della convergenza, che raggiunse il suo punto culminante nella dichiarazione di Lima, ha condotto a una molteplicità di testi. I due grossi volumi Dokumente wachsender Übereinstimmung [Documenti di un crescente consenso] ne sono una prova. Dal punto di vista del contenuto al centro stanno i problemi del ministero, della successione, ivi inclusi i problemi della successione episcopale, l’autorità nella chiesa, eventualmente il papato e la questione della cena del Signore: la presenza reale, il carattere di sacrificio, l’intercomunione, nonché il battesimo e la dottrina della giustificazione. Naturalmente i temi sollevati dipendono dalle chiese partecipanti. A proposito dei temi menzionati è stato possibile formulare di volta in volta degli ampi consensi. Così “Faith and Order” – Fede e costituzione – ha trasmesso il documento di Lima alle chiese non solo con la preghiera di prendere posizione nei suoi riguardi, bensì di recepirlo. Le chiese furono invitate a verificare la loro prassi e la loro dottrina della cena del Signore e del ministero sulla scorta di questo testo e eventualmente a modificarle.

Ma a questo punto viene alla luce la grande difficoltà dell’ecumenismo del consenso. Anche se le commissioni, che avevano elaborato questi testi, erano state ufficialmente istituite dalle chiese, di regola poi i loro testi non furono recepiti. Le prese di posizione delle chiese furono per lo più molto cordiali, ma nei punti decisivi esse misurarono sempre il risultato con il criterio della propria dottrina e prassi tradizionali. Poi dissero che qui bisognava ancora fare delle formulazioni più precise, il più delle volte con lo scopo di veder confermata la propria posizione. Nessuno verificò la propria prassi e dottrina in base ai risultati dei testi di convergenza di Lima. Conseguenze ufficiali non ne furono tratte. Così Lima rappresentò, da un lato, un punto culminante del lavoro ecumenico e costituì un passo in avanti nel processo di avvicinamento teologico e di superamento delle controversie dividenti le chiese. Ma, d’altro lato, il documento rappresentò anche una certa conclusione dell’ecumenismo del consenso e della convergenza, perché da esso non fu tratta alcuna conseguenza ecclesiale. La stentata o anche del tutto mancante ricezione da parte delle chiese ufficiali fece capire che, procedendo soltanto sulla via della formazione del consenso, anche se essa arriva a dei risultati, non è possibile arrivare all’unificazione delle chiese.

Seguendo il metodo della Concordia di Leuenberg fu stilato, su incarico della Conferenza episcopale tedesca e del Consiglio delle chiese evangeliche tedesche, il Lehrverwerfungsstudie (Studio sulle condanne dottrinali). In tale studio si esaminò se le reciproche condanne del XVI secolo riguardano i partner odierni e se esse devono di conseguenza ancora separare le chiese le une dalle altre. Se questo non è o non è più il caso, allora dovrebbe valere la regola ecumenica così formulata dal cardinal Ratzinger: «Non l’unità ha bisogno di essere giustificata, ma la divisione», e questo «in ogni singolo caso». La divisione, se non può più essere mantenuta per motivi ineludibili di fede, è illegittima e quindi obsoleta. Si sono quindi prese seriamente le reciproche condanne. Proprio per questo esse vanno superate, perché non sono compatibili con la comunione ecclesiale.

L’Ökumenischer Arbeitskreis evangelischer und katholischer Theologen (Gruppo di lavoro ecumenico composto da teologi evangelici e cattolici), che portò a termine questo studio, esaminò con molta attenzione sotto la direzione di W. Pannenberg e K. Lehmann, successivamente di Th. Schneider, le singole condanne dottrinali. Quanto al contenuto, tali condanne riguardano la dottrina della giustificazione, dei sacramenti e del ministero ecclesiastico. Una cosa è risultata chiara: l’idea popolare, secondo la quale nel XVI secolo ci sarebbero stati solo dei malintesi e le parti avrebbero parlato senza capirsi a vicenda, non è del tutto sostenibile. Ci furono certamente dei malintesi, e questi non possono continuare a dividere le chiese. Spesso si usò un linguaggio o un modo di pensare diverso, che indusse a ritenere che la diversità riguardasse anche la sostanza delle cose in discussione. Accanto a ciò ci furono condanne di posizioni estremistiche, che nel XVI secolo furono sostenute come opinioni di determinate scuole o ufficialmente tollerate da parte della chiesa, ma che già allora non rappresentavano la dottrina ufficiale e che oggi non svolgono più alcun ruolo. Su alcuni punti, così si dovette anche constatare, ci si capì invece molto bene, si colsero con precisione le opinioni dottrinali contrarie e le si condannò. Su questi punti occorre chiarire quale qualità tali condanne hanno e se esse possono reggere anche oggi il peso delle reciproche scomuniche. Di fronte allo sviluppo dottrinale che ambedue le chiese hanno compiuto la gravità di una condanna può benissimo cambiare.

Con un lavoro pluriennale la commissione è arrivata alla conclusione che, quanto ai problemi della giustificazione, dei sacramenti e del ministero, «la dottrina odierna non è più caratterizzata dall’errore, che la precedente condanna voleva respingere». Di conseguenza, le scomuniche del XVI secolo sarebbero adesso prive di oggetto nel loro aspetto negativo. Le autorità ecclesiali della Germania, che avevano commissionato il lavoro, si sono in larga misura unite a questo giudizio. Una risposta vincolante in maniera ultima poteva tuttavia essere data solo a livello di chiesa universale. Nella cornice di questo processo di ricezione i temi furono distinti e fu formulato un testo sintetico sulla dottrina della giustificazione, il quale stabiliva che qui le condanne del XVI secolo non riguardano più il partner ecumenico. Non fu cioè formulata una nuova professione di fede comune, né furono cancellate tutte le differenze. Fu piuttosto messo a punto un “consenso differenziato”, in cui si afferma che esiste un «consenso su verità fondamentali della dottrina della giustificazione». Inoltre, viene detto: «L’insegnamento delle chiese luterane presentato in questa dichiarazione non cade sotto le condanne del concilio di Trento. Le condanne delle confessioni luterane non colpiscono l’insegnamento della chiesa cattolica romana così come esso è presentato in questa dichiarazione» (GER, 41). Ciò significa: le residue differenze sono accettabili, esse non distruggono le convinzioni fondamentali comuni e non legittimano più alcuna divisione delle chiese.

La Gemeinsame Erklärung zur Rechtfertigungslehre (GER) (Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione) fu sottoscritta il 31 ottobre 1999 dalle due chiese ed è così diventata vincolante. Questo non significa la piena ripresa della comunione ecclesiale. Pertanto l’accordo non è un Leuenberg II. A proposito della dottrina dei sacramenti, e in particolare della problematica del ministero, ivi inclusa la dottrina sul papato, non esiste ancora un simile consenso ufficialmente confermato. Le complicazioni insorte in occasione della sottoscrizione della GER lasciano presagire che l’ulteriore cammino su questi temi non sarà sicuramente facile. Tuttavia, si è raggiunto qualcosa di più che una semplice unificazione su una questione di dettaglio o, come anche si afferma, su una controversia del XVI secolo nel frattempo divenuta da lungo tempo irrilevante. La dottrina della giustificazione è infatti, come afferma la GER, «un criterio irrinunciabile che orienta continuamente a Cristo tutta la dottrina e la prassi della chiesa» (n. 18). L’accordo sulla giustificazione, solennemente sottoscritto nelle ultime settimane del XX secolo, rappresenta perciò un punto di partenza da cui occorre adesso muovere per arrivare a un accordo anche circa i problemi ancora controversi. In merito occorre compiere un lavoro teologico, lavoro che condurrà però al traguardo della comunione ecclesiale solo se sarà accompagnato anche da un avvicinamento nella vita delle confessioni interessate. I due aspetti devono camminare insieme, come dimostra il cammino dell’ecumenismo nel XX secolo.





Tratto dall’opera


Prospettive teologiche per il XXI secolo

Queriniana, Brescia 2003, 20062
Collaboratori: Michael Amaladoss, Edmund Arens, Claude Geffré, Elizabeth Green, Gustavo Gutiérrez, Werner Jeanrond, Sylvain Kalamba Nsapo, Johann Baptist Metz, Dietmar Mieth, Jürgen Moltmann, Peter Neuner, Robert Schreiter, Giuseppe Segalla, Yannis Spiteris, David Tracy, Marciano Vidal, Hans Waldenfels.











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Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
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