29/01/2010
155. Cento anni di ecumenismo 1. (1910-2010) di Peter Neuner
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La Conferenza missionaria mondiale svoltasi a Edimburgo (Scozia) nel 1910 è generalmente considerata come la data di nascita del movimento ecumenico, di cui ricorre pertanto quest’anno, 2010, il centenario, che sarà caratterizzato da varie pubblicazioni e incontri commemorativi. In particolare la capitale scozzese ospiterà dal 2 al 6 giugno 2010 una grande conferenza missionaria ed ecumenica. Presentiamo questo testo di Peter Neuner, docente di teologia dogmatica presso l’Università di Monaco di Baviera, e noto in campo internazionale per i suoi studi sull’ecumenismo.


Il cammino della teologia ecumenica è difficile. Essa procede il più delle volte per strade ripide ricche di serpentine, ove le svolte racchiudono posizioni estremistiche e unilateralità e precisamente in questo modo conducono alla meta. Perciò il cammino dell’ecumenismo non è semplice e non è andato avanti per una strada diritta, ma ha oscillato tra punti estremi, con unilateralità spesso affiancate le une alle altre. Le controversie e le spesso aspre polemiche furono la regola più che l’eccezione. E tuttavia per questa via ci siamo avvicinati alla comunione delle chiese cristiane, abbiamo superato reciproche condanne o ne abbiamo sminuito la plausibilità. Il XX secolo fece registrare un insospettato progresso ecumenico, senza però raggiungere ancora il traguardo. Vale la pena riandare i successi ottenuti e trarre da essi degli insegnamenti per un ulteriore sviluppo nel XXI secolo.


I. Sulla preistoria

Il lavoro per l’unificazione delle chiese è antico quanto la cristianità. Già nel Nuovo Testamento troviamo delle esortazioni commoventi a conservare l’unità dello spirito e a superare eventuali divisioni. Nelle chiese antiche l’unità della chiesa fu annoverata tra le “notae ecclesiae”, tra i distintivi essenziali della chiesa. La chiesa è l”una sancta”, e solo nella misura in cui è tale essa è anche la “catholica et apostolica ecclesia” confessata dal Credo. A questa unità devono servire il ministero ecclesiale, in particolare il ministero episcopale, i sinodi e i concili, il canone dei libri biblici, il principio della Scrittura e non da ultimo anche il ministero papale. Eppure proprio a proposito di queste strutture dell’unificazione le chiese hanno percorso vie diverse. L’unità della fede fu favorita da attività politiche, allorché sovrani civili la imposero per amore dell’unità del loro impero, ma fu anche minacciata o distrutta da contrasti politici e sociali. Essa si ruppe allorché, ad esempio in occasione del concilio di Calcedonia, le chiese che non appartenevano più politicamente all’impero andarono per proprie strade. Motivi culturali, teologici e di potere politico influenzarono gli eventi del 1054, allorché i più alti rappresentanti delle chiese dell’Oriente e dell’Occidente si scomunicarono a vicenda, nonché gli eventi del 1204, allorché l’esercito dei crociati distrusse l’antica città imperiale di Costantinopoli. La divisione tra Oriente e Occidente fu sentita da ambedue le parti come una spina piantata nel corpo di Cristo. Tentativi di superarla rimasero troppo spesso prigionieri dei rispettivi modi di pensare o furono legati a interessi e influenze politiche in misura tale da non poter riportare alcun successo. Una nuova qualità la divisione della chiesa assunse con gli eventi della Riforma. Inizialmente i credenti alla vecchia maniera e i credenti alla nuova maniera pensavano di vivere ancora tutti quanti all’interno dell’unica chiesa, le reciproche accuse sembravano separare solo momentaneamente i “partiti religiosi”. Ma passo dopo passo essi dovettero riconoscere di essere diventati delle chiese escludentisi l’un l’altra, chiese che negavano di volta in volta all’altra parte di essere la chiesa di Gesù Cristo. Si era elevato altare contro altare e pulpito contro pulpito.

Le reazioni più importanti a questa situazione furono l’irenismo e la polemica. Gli irenici cercarono di sottolineare gli elementi comuni e di minimizzare le differenze teologiche e nel modo di organizzare la chiesa. Misero l’accento sui comuni punti di partenza, in base ai quali erano stati strutturati il messaggio cristiano e la vita ecclesiale, e che erano indipendenti dalle divergenti affermazioni di fede: misero ad esempio l’accento sull’esperienza della conversione, sull’esperienza interiore, sui doveri sociali, sull’educazione del popolo, mentre fecero passare in secondo piano le differenze teoretiche, con la conseguenza che i confini tra le chiese diedero l’impressione di diventare permeabili. Georg Calixt propose un piano all’interno del quale solo le affermazioni di fede della Sacra Scrittura e della cristianità antica e indivisa, quindi dei primi concili, erano considerate come vincolanti, mentre le successive affermazioni dottrinali apparivano come non fondamentali e quindi come non capaci di dividere la chiesa. Leibniz collaborò a un piano di unione, al cui centro stava una revisione del concilio di Trento. Questo concilio sarebbe stato un sinodo occidentale particolare, non un concilio ecumenico e non avrebbe di conseguenza potuto parlare in modo dogmaticamente vincolante.

Ma ci furono anche correnti in senso opposto, le quali sottolinearono in modo particolare le differenze. Esse videro in ciò che divideva le confessioni l’essenza del cattolicesimo o l’essenza del protestantesimo, sostennero che la rispettiva identità ecclesiale imponeva la separazione e fondarono e ribadirono di volta in volta le proprie rivendicazioni con il metodo della controversia. La polemica non ebbe criticamente per oggetto solo le altre posizioni, ma ebbe per oggetto anche i loro sostenitori, cui rimproverò di essere degli eretici colpevoli e di aver colpevolmente diviso la chiesa, e che cercò non solo di confutare, bensì anche di combattere e di annientare il più possibile personalmente. Essa scavò anche delle fosse e inferse pure ferite personali.

Nel XIX secolo le controversie assunsero un carattere più scientifico grazie alla nuova disciplina teologica della simbolica, che metteva a confronto le confessioni cristiane sulla base delle loro affermazioni dottrinali ufficiali, dei loro simboli di fede. Si cercò di capire l’altro. Le differenze non furono taciute, come nell’irenismo, ma non furono neppure considerate isolatamente in se stesse, bensì furono valutate in base alla loro connessione con il centro della fede. Il rappresentante dell’altra confessione non fece più qui la figura dello stupido o del malvagio, bensì si riconobbe che egli argomentava e agiva in maniera logica e onesta all’interno della sua propria concezione. Egli fu preso sul serio e accettato con la sua istanza e con la sua estraneità. Polemica, irenismo e simbolica furono le forme principali in cui le chiese e la teologia affrontarono nel XIX secolo la pluralità delle chiese cristiane.


II. Il nascente movimento ecumenico

Il movimento ecumenico come organizzazione e struttura è una creatura del XX secolo, e la Conferenza missionaria mondiale svoltasi a Edimburgo nel 1910 è generalmente considerata come la sua data di nascita. Tale conferenza era guidata dall’idea che le chiese, le quali svolgono una attività missionaria le une contro le altre e si contendono eventualmente addirittura i membri, non possono proporre una immagine convincente, dall’idea cioè che la divisione della cristianità nuoce profondamente alla credibilità del messaggio cristiano. Bisognerebbe perlomeno separare gli uni dagli altri i territori di missione, suddividere cioè il mondo missionariamente. La chiesa anglicana fu indotta a partecipare a questa conferenza solo perché le si garantì che ci si sarebbe occupati esclusivamente di questi problemi pratici. Invece, le «questioni, che riguardano le differenze nella dottrina e nella costituzione della chiesa [...] non sarebbero state fatte ivi oggetto di discussione o di risoluzioni». Quale ideale del lavoro missionario fu proposto quello di lasciar crescere in ogni paese non cristiano un’unica chiesa indivisa di Gesù Cristo. L’idea dell’unità di tutti i cristiani in ogni luogo, come sarebbe suonata più tardi la formula ecumenica, fu lanciata qui.

I suggerimenti di questa conferenza caddero su un terreno fertile. Nel 1920 fu fondata a Ginevra la Società delle Nazioni. Già nel gennaio di quell’anno il patriarcato ecumenico di Costantinopoli pubblicò un’enciclica indirizzata «a tutte le chiese di Cristo, dovunque esse siano», con l’invito a collaborare, secondo questo esempio, ad una Società delle chiese. Quali punti da trattare esso propose l’adozione di un calendario comune, una regolamentazione della questione dei matrimoni confessionalmente misti e la convocazione di conferenze pancristiane. Nel medesimo anno i vescovi anglicani pubblicarono nella Conferenza di Lambeth 1’“Appeal to All Christian People” [Appello a tutti i cristiani], in cui lamentavano la divisione del popolo cristiano, esprimevano la speranza nella unificazione e raccomandavano il ministero episcopale come strumento per arrivarvi.

Il terreno per una Società delle chiese era così preparato. La decisione più importante della Conferenza di Edimburgo fu la fondazione di una commissione per la prosecuzione del suo lavoro, da cui scaturì il Consiglio internazionale per le missioni (Internationaler Missionsrat, IMR), che grazie alla sua collaborazione sovraconfessionale e alle strutture organizzative messe in piedi divenne una delle radici del Consiglio ecumenico delle chiese. Dopo che nel 1910 a Edimburgo i problemi di fede erano stati accantonati, si impose presto l’idea che proprio i problemi di fede e di costituzione della chiesa non potevano essere ignorati, se si voleva arrivare a una comunione della cristianità. In fondo erano stati problemi di fede quelli che avevano portato alla divisione della chiesa e che continuavano a separare le confessioni. Le chiese, come ebbe a dire il vescovo anglicano Charles Brent, dovrebbero «discutere quelle questioni dogmatiche ed ecclesiologiche, nelle quali divergono fra loro» e arrivare «così ad una forma di comprensione mutua e di mutua intesa». Egli propose di convocare una conferenza che, «frequentata da rappresentanti di tutte le comunità cristiane del mondo intero, che confessano il nostro Signore Gesù come Dio e Salvatore, deve avere il compito di esaminare le questioni che rientrano nell’ambito della fede e della costituzione della chiesa di Cristo». Tale conferenza doveva quindi occuparsi della fede e della costituzione della chiesa. Nel 1927 si radunò a Losanna la prima Conferenza mondiale di “Faith and Order” [Fede e costituzione], come il movimento si denominò. Erano rappresentate tutte le confessioni al di fuori di quella romano-cattolica. Il lavoro doveva anzitutto servire a imparare a conoscersi a vicenda. Si stabilì come programma di studiare scientificamente la vita, la dottrina e la costituzione delle varie chiese, e di arrivare così a una conoscenza più precisa degli elementi comuni e delle diversità. In questo modo fu fondato un nuovo ramo della teologia: la confessionologia o l’ecclesiologia comparata. In essa si riprese la simbolica tradizionale, ma la si estese alla vita delle chiese nel suo complesso. Bisognava esaminare non solo la dottrina ufficiale, bensì anche la prassi religiosa, il culto, la costituzione della chiesa e la vita comune. Si trattava di imparare a conoscersi a vicenda e di stabilire una base di fiducia.

Nathan Söderblom, dal 1914 arcivescovo luterano di Uppsala, era stato molto colpito dal fatto che la confessione cristiana non era stata capace di superare i contrasti nazionali, anzi che le chiese si erano lasciate porre, al momento dello scoppio della prima guerra mondiale, al servizio della propaganda di guerra. Subito dopo la guerra egli propose di fondare un Consiglio ecumenico delle chiese. Su suo invito nel 1925 si radunò a Stoccolma la Conferenza mondiale per il cristianesimo pratico. Al “Life and Work” [Vita e lavoro] come il movimento fu denominato, presero parte delegati ufficiali delle chiese. Da allora l’ecumenismo divenne una faccenda delle chiese “ufficiali”, non solo di singoli. Le assemblee stavano sotto il motto: «Fare quel che unisce», ed erano animate dalla convinzione: «La dottrina divide, ma il servizio unisce». Le chiese si vedevano chiamate a solidarizzare con gli svantaggiati e con gli oppressi, al fine di superare le cause sociali e strutturali della miseria. La Conferenza di Stoccolma ebbe una notevole eco, e la sua volontà di collaborare al di là di tutti i confini nazionali e sociali fu addirittura salutata con entusiasmo. Ma non mancarono voci critiche, che rimproverarono alle chiese una politicizzazione o una messa in discussione della confessione.

Una cosa rimane assodata: l’idea della missione, il Movimento per il cristianesimo pratico, Fede e costituzione furono le radici che dovevano portare alla fondazione del Consiglio ecumenico delle chiese.


III. Il Consiglio ecumenico delle chiese e la molteplicità delle sue vie

Si sarebbe dovuto aspettare fino al 1948 prima che il Movimento per il cristianesimo pratico e Fede e costituzione confluissero ad Amsterdam nel Consiglio ecumenico delle chiese. L’autointelligenza di questa istituzione è descritta dalla formula di base: «Il Consiglio ecumenico delle chiese è una comunione di chiese che riconoscono (accept) nostro Signore Gesù Cristo come Dio e Salvatore». Nel Consiglio furono riposte in vario modo attese esagerate, che finirono per preoccupare le chiese e far loro temere che esso volesse essere l’una sancta ecclesia della professione di fede e prendere il posto delle chiese tradizionali. Occorreva fugare simili speranze e preoccupazioni. Il Consiglio si concepisce come uno strumento, di cui le chiese possono servirsi per prendere contatto fra di loro e compiere dei passi verso l’unità. Non è il movimento ecumenico, ma una sua parte. Nel 1950 esso pubblicò a Toronto una dichiarazione su La chiesa, le chiese e il Consiglio ecumenico delle chiese, dove leggiamo: «Il Consiglio ecumenico delle chiese non è una “super-chiesa” e non lo potrà mai diventare» (n. 3). «Il fatto che una chiesa sia membro del Consiglio ecumenico delle chiese non significa che essa relativizzi la propria concezione della chiesa» (n. 4). Il Consiglio non rivendica alcun potere decisionale sulle chiese. «Il ruolo del Consiglio in quanto tale è solo quello di uno strumento. Esso deve diminuire, affinché l’Una Sancta cresca».

Un passo iniziale per superare la confessionologia fu compiuto dalla Conferenza mondiale di Fede e costituzione tenutasi a Lund nel 1952, in cui anche la chiesa cattolica era rappresentata da quattro osservatori ufficiali. Là si impose l’idea che non bastava allineare comparativamente, le une accanto alle altre, le varie ecclesiologie. Dalle pretese fra loro rivaleggianti scaturisce necessariamente la domanda, la quale si chiede qual è la vera chiesa. A tale domanda è possibile rispondere solo partendo dalla cristologia; solo la cristologia può costituire un criterio dell’ecclesiologia. «Abbiamo chiaramente riconosciuto di non poter compiere alcun passo reale verso l’unità, se ci limitiamo a confrontare fra di loro le nostre diverse concezioni dell’essenza della chiesa e le tradizioni, in cui esse sono inserite. Ancora una volta è risultato che ci avviciniamo gli uni agli altri nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo». Succede come nel caso dei raggi di una ruota: quanto più essi si avvicinano al centro, tanto più si avvicinano anche fra di loro. A Lund si è «per così dire cambiata la direzione dello sguardo. Mentre fino ad allora le chiese si erano poste le une di fronte alle altre, adesso si era raggiunto un punto di vista comune, che conferiva al loro dialogo il necessario orientamento. L’unità data in Cristo non è adesso solo oggetto di una dichiarazione solenne emanata in comune, ma è piuttosto diventata il punto di partenza della riflessione comune». Bisognava considerare la dottrina dei sacramenti, la dottrina dei ministeri, il culto e superare le differenze partendo dalla cristologia. Questo fu detto il “metodo cristologico” della teoria ecumenica. Per la loro prassi le chiese si proposero come fine di «agire in comune in tutte le cose, eccezion fatta di quelle in cui profonde convinzioni divergenti le costringevano ad agire da sole». Lund 1952 divenne, con la “svolta copernicana” verso la cristologia e con il suo nuovo orientamento per una comunità universale nella prassi, una pietra miliare nella storia del movimento ecumenico. Tra le assemblee generali del Consiglio ecumenico delle chiese più importante di tutte fu quella di Nuova Delhi del 1961. L’Internationaler Missionsrat (IMR), una delle radici del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC), fu integrato nel Consiglio come Commissione per la missione mondiale. Le chiese ortodosse di Russia, Romania, Bulgaria e Polonia entrarono nel Consiglio, cosicché esso perse l’immagine di una organizzazione protestante. Inoltre a Nuova Delhi la formula basilare fu trinitariamente ampliata e suona da allora: «Il Consiglio ecumenico delle chiese è una comunione di chiese che, conformemente alla Sacra Scrittura, confessano (confess)) Gesù Cristo come Dio e Salvatore e che cercano perciò di adempiere insieme quello a cui sono chiamate, a onore di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo». Inoltre a Nuova Delhi si riuscì per la prima volta a definire con maggior precisione il fine ecumenico. «Crediamo che l’unità, che è contemporaneamente volontà di Dio e dono di Dio alla sua chiesa, viene resa visibile quando tutti coloro che sono battezzati in Gesù Cristo e lo confessano come Signore e Salvatore sono condotti in ogni luogo, mediante lo Spirito Santo, in una comunità pienamente vincolata, che confessa l’unica fede apostolica, annuncia l’unico vangelo, spezza l’unico pane, si unisce nella preghiera comune e conduce una vita comune che si dedica, nella testimonianza e nel servizio, a tutti».

Quasi contemporaneamente a Nuova Delhi si verificò in maniera del tutto inattesa un altro evento: Giovanni XXIII aveva annunciato la convocazione di un concilio, che aveva suscitato speranze e attese proprio per quanto riguardava l’ecumenismo. Il Segretariato per l’unità mandò dei segnali che facevano sperare in un orientamento completamente nuovo. In vari modi si fece strada l’idea che, con l’ingresso di altre chiese, soprattutto della chiesa romana, il Consiglio ecumenico avrebbe presto rappresentato tutta la cristianità e, con l’ampliamento della formula basilare fino a trasformarla in una autentica professione di fede, sarebbe diventato la chiesa universale. Ma tale attesa doveva andare delusa. Si constatò che non era così facile compiere ulteriori progressi teologici. Di conseguenza, si incentrò l’attenzione su questioni pratiche della responsabilità dei cristiani verso il mondo. L’unità doveva essere realizzata anzitutto per mezzo di un’azione comune. In particolare, le sempre più numerose chiese del Terzo mondo dimostrarono di essere più interessate al superamento o perlomeno alla condanna di strutture economiche sfruttatrici che ai tradizionali temi controversistici. II Consiglio era “ecumenico” nel senso che era diventato un consiglio universale e abbracciante tutto il mondo. Esso si identificò sempre più con i diseredati, i poveri e gli oppressi, e promosse la giustizia sociale e economica. Fu dato fiato a una critica sociale pungente soprattutto in dichiarazioni antiamericane. Sembrava che la “teologia della rivoluzione” dovesse risolvere tutti i problemi sociali. La predicazione del regno di Dio fu non di rado interpretata nel senso di utopie intramondane.

La quarta Assemblea generale del Consiglio ecumenico, svoltasi nel 1968 a Uppsala in Svezia, fu in larga misura influenzata da un cambiamento sociale, che ebbe inizio in maniera esplosiva con le manifestazioni studentesche del 1968. Il movimento ecumenico si divise in “orizzontalisti” e “verticalisti”, in coloro che concepivano l’ecumenismo primariamente come un impegno su scala mondiale per una società giusta, e in coloro che aspiravano segnatamente in maniera teologica all’unità della chiesa e vedevano tale unità ancorata nel piano salvifico divino. Con l’espressione “ecumenismo sociale” fu descritto il tentativo di mitigare la miseria, la povertà e l’oppressione, di fare delle chiese le portavoci di coloro che non erano altrimenti in grado di farsi sentire, e di favorire in questo modo l’unificazione della cristianità. Le accuse contro il mondo occidentale dominarono la scena, molte dichiarazioni furono caratterizzate da una critica di strutture economiche e sociali. Il dovere universale e su scala mondiale della cristianità fu espresso a Uppsala con il concetto di “cattolicità”, un termine che andava liberato dalla sua riduzione confessionale. Con la propria cattolicità la chiesa serve all’unità dell’umanità, con la propria unità essa deve anticipare e testimoniare la comunione dell’umanità. «La chiesa osa parlare di sé come del segno della futura unità dell’umanità».

La riscoperta della cattolicità e dell’universalità della chiesa e della sua responsabilità per tutto il mondo condusse a far sì che ad Uppsala si riflettesse di nuovo anche sulla formula unitaria di Nuova Delhi. L’«unità di tutti in ogni luogo» fu completata con l’idea di una «unità dei cristiani in tutti i luoghi». L’idea dell’universalità fu concretizzata con l’idea della conciliarità. «Le chiese facenti parte del Consiglio ecumenico delle chiese, legate fra di loro, dovrebbero lavorare per l’avvento di un tempo in cui un concilio realmente universale potrà di nuovo parlare a nome di tutti i cristiani e indicare il cammino verso il futuro». Lo spettacolo del concilio svoltosi a Roma indusse l’ecumenismo a riflettere sull’istituzione ecclesiale antica del concilio ecumenico e, quindi, collegante tutti i cristiani.

Nel periodo successivo a Uppsala l’ecumenismo secolare continuò a mantenere il sopravvento. Le controversie che ne seguirono, soprattutto con le chiese evangeliche e sempre più anche con l’Ortodossia, raggiunsero il loro apice allorché nel 1969 fu adottato il “programma per combattere il razzismo”. Tale programma non escludeva la possibilità di appoggiare anche quei movimenti di liberazione che non rifiutavano l’uso della violenza. Le tensioni tra un ecumenismo, che si dedica primariamente, nel senso di “Faith and Order”, al superamento di controversie teologiche, e un ecumenismo che, nella tradizione di “Life and Work”, punta su un’azione comune a motivo della responsabilità verso il mondo e la società e che trova ivi la propria unità, caratterizzarono da allora in poi il movimento ecumenico e tutte le sue assemblee generali: nel 1975 a Nairobi, nel 1983 a Vancouver, nel 1991 a Canberra, nel 1998 a Harare. Da un lato, si pongono il più delle volte le chiese del Terzo mondo, che in larga misura non sono disposte a prolungare le divisioni ricevute come un’eredità straniera, e che si incontrano con le chiese, che dal messaggio del regno di Dio vogliono dedurre soprattutto conseguenze per l’organizzazione del mondo e trovano ivi l’unità. D’altro lato stanno quelle chiese che lavorano per il superamento teologico di controversie, per la formulazione di testi capaci di riscuotere il consenso comune e per la revoca di condanne. Grazie al superamento di rivendicazioni rivaleggianti in fatto di verità ci si attende qui una crescente unificazione della cristianità e, infine, l’adozione di una comunione nella parola, nel sacramento e nel ministero ecclesiastico.


IV. Ecumenismo del consenso, ecumenismo secolare e posizioni intermedie

Le due tendenze hanno avuto la possibilità di dimostrare la loro importanza. Ecco un esempio particolarmente eloquente in un senso e nell’altro.

La Commissione “Fede e costituzione” riuscì a pubblicare a Lima nel 1982 la dichiarazione convergente su Battesimo, eucaristia e ministero, in cui l’ecumenismo del consenso pervenne a una certa conclusione. Questo testo ha una preistoria cinquantennale. Già nel corso della prima Conferenza mondiale di Fede e costituzione del 1927 a Losanna stavano all’ordine del giorno i temi del battesimo, della cena del Signore e del ministero. Fin dall’inizio fu chiaro che una unificazione delle chiese cristiane non sarebbe stata possibile se non si fosse raggiunto un consenso nelle questioni fondamentali della fede. Questa convergenza nelle questioni del battesimo, dell’eucaristia e del ministero fu adesso formulata nel documento di Lima e fu indirizzata alle chiese con la richiesta che fosse recepita. Di fronte al fatto che qui era rappresentato tutto il caleidoscopio del Consiglio ecumenico e del cattolicesimo essa fu indicata come il “miracolo di Lima”. Walter Kasper, uno dei coautori cattolici di Lima, affermò: «Le tre dichiarazioni rappresentano tutt’altro che una unità in base al minimo denominatore comune, frutto di un compromesso; si tratta di una unità nelle cose fondamentali e radicali, su cui è possibile continuare a costruire». Fede e costituzione acquisì con questa dichiarazione una nuova importanza. A Lima, oltre al testo di convergenza, fu delineata anche la “liturgia di Lima” per la celebrazione della cena del Signore, liturgia che traspone tale cena nella prassi cultuale. Così divenne possibile manifestare anche nella celebrazione liturgica la formulata comunione. La liturgia di Lima dischiuse la possibilità di celebrare per la prima volta, in occasione dell’Assemblea generale del CEC a Vancouver nel 1983, una cena del Signore insieme.

La corrente, orientata prevalentemente in senso socioetico all’interno del movimento ecumenico, si espresse nella proposta dell’Assemblea generale di Vancouver (1983) di «coinvolgere le chiese membro in un processo conciliare reciprocamente vincolante (alleanza) in favore della giustizia, della pace e della conservazione di tutto il creato». I cristiani dovrebbero imprimere insieme un impulso in favore della vita, della giustizia e della pace al di là di tutti i confini confessionali, politici e regionali, e farlo con la massima autorità stante a loro disposizione, cioè mediante un concilio, di cui non dovrebbe essere possibile ignorare la parola. Per prima cosa si cominciò a discutere del concetto di concilio. Per non far fallire l’iniziativa a motivo del termine, ma d’altra parte anche per non tendere a una conferenza non vincolante o insignificante, si trovò un’intesa sull’espressione “processo conciliare”, processo che cominciò a livello regionale. Di particolare importanza furono le istituzioni presenti nell’ex DDR (Repubblica democratica tedesca). La Arbeitsgemeinschaft Christlicher Kirchen (Associazione dei lavoratori delle chiese cristiane) della DDR invitò nella primavera del 1989 a comunicare, attraverso cartoline postali, che cosa sembrava essere urgentemente più necessario in fatto di giustizia, di pace e di conservazione del creato. Dalle circa 10.000 cartoline furono compilati dei testi, che delineavano un quadro drammatico della situazione del paese. Tale quadro fu teologicamente interpretato come un richiamo alla conversione, alla metanoia. Il fatto che dei cristiani potessero parlare insieme e pubblicamente al di là dei limiti confessionali sulla loro situazione sociale e propagandare la conversione costituì un impulso decisivo per funzioni liturgiche in favore della pace, che molto in fretta si trasformarono in dimostrazioni di massa. Naturalmente allora nessuno si attendeva che sei mesi dopo la DDR si sarebbe dissolta. Ma il processo conciliare, che aveva incoraggiato a esprimere pubblicamente critiche e proposte e che aveva così dato il via a un processo di presa di coscienza dell’ingiustizia, ebbe una parte importante in quegli eventi.

Dal 15 al 21 maggio 1989 si svolse a Basilea, all’insegna del motto “Pace nella giustizia”, la “Prima Assemblea ecumenica europea”, che costituì il punto culminante del processo conciliare. Il dinamismo di questa istituzione fu soprattutto frutto dei voti espressi dai delegati dei paesi a regime comunista. La meglio preparata era la delegazione della DDR. Il documento conclusivo, che descrive brevemente i pericoli che oggi minacciano la pace, la giustizia, l’ambiente e che ne illustra le cause, è una confessione di colpa da parte delle chiese, un riconoscimento del fatto di non essere state all’altezza del loro messaggio, nonché una confessione della loro fede comune nel Dio della giustizia, della pace e della creazione. I passi concreti richiesti sono la cancellazione del debito per i paesi più poveri in via di sviluppo, l’attuazione di tutti i trattati internazionali sui diritti dell’uomo, la creazione di strutture cooperative per la sicurezza, il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza, una legislazione e un controllo rigoroso della ricerca genetica, nonché una drastica limitazione del consumo di energia.

Con questo testo rappresentanti delle diverse chiese cristiane di tutti i paesi europei – eccezion fatta della sola Albania – fecero per la prima volta, a partire dal tempo della Riforma, alcune dichiarazioni congiunte sul cammino futuro e sulla responsabilità speciale dei cristiani su questo continente. Il cardinal Martini di Milano, uno dei due presidenti dell’assemblea di Basilea, dichiarò a conclusione che nel corso dei lavori non erano sì stati trattati i temi classici del dialogo ecumenico, ma che la conferenza sarebbe stata ugualmente un importante evento ecumenico. Proprio perché nelle questioni strettamente teologiche l’avvicinamento fra le chiese a livello ufficiale andava avanti solo trascinandosi, le affermazioni congiunte in merito a questioni socioetiche potevano imprimere un nuovo dinamismo. L’ecumenismo potrebbe e dovrebbe ricevere nuovi impulsi dal lavoro comune.

Le successive iniziative prese nella cornice del processo conciliare non riuscirono a eguagliare quanto era stato fatto a Basilea. Ciò vale sia per l’assemblea mondiale per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato, svoltasi dal 5 al 12 marzo 1990 a Seoul, e sia anche per la “Seconda Assemblea ecumenica europea” svoltasi a Graz (23-29 giugno 1997) e dedicata al tema della riconciliazione. Né a Seoul né a Graz fu possibile fare delle affermazioni chiare come quelle che erano state fatte a Dresda e a Basilea. La prassi, così si dovette constatare, non unisce poi in maniera tanto ovvia come spesso si postula, ma può a volte addirittura separare e dare vita a delle “confessioni etiche”.

La dichiarazione di Lima e anche il processo conciliare, pur sottolineando alcuni punti, evitarono accuratamente di assolutizzare le loro posizioni. Ciononostante il collegamento tra le due correnti, qui da essi paradigmaticamente rappresentate, non riuscì sempre in egual misura. A Vancouver si cercò di arrivare a una visuale complessiva sotto il motto di una “eucharistic vision”, di una prospettiva sacramentale-eucaristica complessiva, in cui si tenesse insieme conto dello spirituale e del profano, della spiritualità e dell’impegno, del culto e del servizio degli uomini, della pratica religiosa e della responsabilità verso il mondo. Da tale visione furono tratte delle conseguenze per l’unità delle chiese e per il loro culto, per l’unità degli uomini nella lotta contro la fame, la miseria, lo sfruttamento e la guerra, conseguenze per il dialogo con gli uomini delle altre religioni e per un comportamento rispettoso verso la creazione buona di Dio. Da Canberra in poi, cioè dal 1991, l’idea specifica della koin nía, della communio, tiene insieme le diverse correnti dell’ecumenismo. In questo modo si riuscì a formulare un modello dell’unità nel contesto della terminologia teologica classica. Per una corrente, koin nía significa primariamente la comunione nella fede, nei sacramenti e nel ministero. In essa si insiste sulla necessità di continuare a lavorare per una intesa sulle questioni teologiche centrali e per avvicinarsi così al traguardo di una unità visibile delle chiese. L’altra corrente concepisce la koin nía anzitutto come convivenza e comunione dei cristiani in loco, malgrado le diverse professioni di fede e le divergenti strutture ecclesiali; poi anche come comunione con tutti gli uomini affranti, sofferenti e oppressi e con tutte le creature. Essa esorta a non limitare l’ecumenismo ai temi controversistici classici, a non elevare la visuale occidentale a criterio universale, e a non attendersi l’unificazione delle chiese primariamente dal lavoro teologico teoretico. L’ecumenismo del consenso avrebbe dimostrato di non esser capace di conseguire dei risultati. Ciò che adesso occorre è vivere la comunione malgrado le divergenti concezioni nel campo della fede. La vita comune, la convivenza, sono qui considerate più importanti del consenso teologico.

Questa diversa accentuazione riguarda anche il traguardo che il lavoro ecumenico deve prefiggersi di raggiungere. L’ecumenismo mira da un lato primariamente all’unità nella fede, nella professione di fede, nel sacramento e nell’ordinamento fondamentale della chiesa, mentre dall’altro mira a stabilire l’unica casa comune, l’unica abitazione, in cui tutti trovano il loro posto e dove scompare qualsiasi emarginazione. L’ecumenismo mira qui alla comunione tra tutte le chiese, le religioni e le culture, tra donne e uomini, lavora per la giustizia e per la pace, impegna a conservare la creazione, deve includere anche l’ecologia e l’economia. Con questo esso non persegue un sincretismo e lo sviluppo di una religione unitaria. Tutt’al contrario chiede addirittura che l’ecumenismo non debba lavorare per l’unità, perché ciò porterebbe solo ad appropriarsi degli altri. Bisognerebbe piuttosto lasciare che l’altro sia diverso e che lo straniero sia straniero e non spingerli a entrare in un sistema ad essi estraneo. (segue seconda parte)





Tratto dall’opera


Prospettive teologiche per il XXI secolo


Queriniana, Brescia 2003, 20062











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