16/01/2003
15. Bisogno di spiritualità Intervista a Anselm Grün
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Il più noto settimanale tedesco, Der Spiegel, nel suo recente numero 2/2003 dedica un servizio alla figura del monaco benedettino Anselm Grün, uno dei più noti scrittori di spiritualità, letto non solo in Germania, ma anche in molte aree linguistiche. Le sue principali opere di spiritualità sono pubblicate in lingua italiana dall’Editrice Queriniana.
Pubblichiamo una sua recente intervista, dove evidenzia l’incontro tra spiritualità e psicologia che è uno dei motivi ricorrenti delle sue opere.



– Nel 1991 Lei ha aperto, nella sua abbazia, una “Casa di raccoglimento” dove opera con un’équipe di tre terapeuti. Vi hanno trovato accoglienza circa 500 preti, religiosi e religiose in difficoltà. Che cosa gli proponete?

Anselm Grün: Le persone che si rivolgono a noi lo fanno nella speranza di crescere tanto umanamente che spiritualmente, di poter di nuovo accettare con gioia il proprio lavoro e la propria vita. Il nostro intervento poggia sulla convinzione che in ognuno di noi scorre la fonte dello Spirito Santo, una fonte di creatività e di energia. E’ nostro dovere consentire a queste persone di ristabilire i contatti con questa fonte interiore. E’ proprio nel luogo in cui sono ferite che le persone possono scavare dentro di sé per ritrovare il getto interiore. In altre parole: è nel luogo della sua ferita che ciascuno può scoprire il suo tesoro, perché proprio in questa ferita ognuno si avvicina di più al suo vero io. Noi accogliamo le persone per cure di tre mesi in cui si combinano il sostegno spirituale e il lavoro psicoterapeutico.


– Di fronte a una domanda crescente, i monasteri dell’Occidente sono chiamati a ispirarsi al Suo esempio?
In realtà molti laici aspirano a beneficiare di un’assistenza spirituale capace di recepire le loro sofferenze profonde. I monasteri dovrebbero prepararsi a rispondere a tale bisogno. Ciò richiede infatti una formazione ad hoc. Una guida spirituale deve essere attenta a discernere quando può accogliere e consigliare da sola una persona e quando deve indirizzarla a una psicoterapia.


– Perché si è interessato alla psicoanalisi?
La rivolta studentesca del 1968 non ha risparmiato la nostra abbazia. In quel tempo eravamo una trentina di giovani monaci in noviziato. Cercavamo di vivere la nostra identità di monaco su basi nuove. Così alcuni fratelli e io stesso abbiamo incontrato il filosofo e terapeuta Graf Dürckeim agli inizi degli anni Settanta. Egli proponeva un lavoro su di sé in cui si combinano la meditazione zen e l’approccio psicoanalitico di Carl Gustav Jung, discepolo dissidente di Freud. Mi affascinava il fatto che questo lavoro fosse in risonanza con la nostra spiritualità monastica. In realtà la mia prima preoccupazione consisteva nel trovare un cammino spirituale che non trascurasse la nostra personalità profonda, nel conciliare l’approccio psicoanalitico e la tradizione monastica. Vicino a Graf Dürckeim ho percepito chiaramente che non dobbiamo cercare Dio unicamente con il nostro intelletto e la nostra volontà, ma anche con tutto il nostro corpo, dato che questo corpo ha un significato profondo nella vita spirituale. In seguito leggendo l’opera di C. G. Jung ho avuto la conferma che non solo il mio cammino spirituale è “giusto” da un punto di vista psicologico, ma che mi conduce anche al mio vero io.


– Come può una psicoterapia aiutarci a liberarci interiormente?
Il lavoro psicoterapeutico ci porta a prendere coscienza delle ferite che hanno segnato la nostra vita e ci dà la possibilità di prendere le distanze dai meccanismi patogeni che abbiamo sviluppato in seguito. E questo ci offre un aiuto prezioso per la nostra fede e la nostra preghiera. A partire da questo momento la preghiera non rappresenta più un’evasione fuori di noi tramite sentimenti pii, ma diventa il luogo in cui ci presentiamo a Dio nella nostra verità profonda e in cui sperimentiamo la forza risanatrice del suo amore.


– La preghiera non può bastare a se stessa?
Possiamo avere fiducia nella forza salvifica della preghiera. Ma non dobbiamo ricorrervi come se fosse un mezzo magico per guarire. Non è tanto importante chiedere la guarigione quanto rimettere a Dio le proprie ferite interiori affinché esse possano essere attraversate dalla Sua Luce, dal Suo Amore. E’ un cammino che porta a conoscersi meglio.


– A rimuginare sulle ferite della propria infanzia, non si rischia forse di chiudersi in se stessi?
L’obiettivo non è di girare attorno a se stessi, ma di cercare la propria vera libertà interiore. La otteniamo quando scopriamo la nostra vocazione profonda. Il confronto con il mio passato deve indicarmi chi sono veramente. Ogni uomo è come una parola unica che Dio pronuncia solo per lui, e per nessun altro. E’ nostro dovere lasciare per l’appunto risuonare nella nostra vita questa parola singolare di Dio. Ed è anche la nostra vocazione. Per questo cerco sempre, come guida spirituale, di condurre le persone a scoprire la traccia, a partire dalla loro esistenza, di una vita più grande presente in esse e a porsi l’interrogativo: “Che vorrei fare della mia vita? Qual è la mia missione in questo mondo?” La riposta la trovo solo se accetto di guardare la mia storia personale e se mi riconcilio con il mio passato. In altre parole: il mio cammino spirituale si approfondisce nella misura in cui, non essendo più prigioniero delle mie nevrosi, mi libero del mio ego. Per questo non posso ignorare il mio vero io, che è “permeabile” a Dio. Tramite questo io, Dio fa sentire la sua voce in modo singolare. Disegna in me la sua immagine.


– Nei Suoi libri Lei parla spesso del silenzio. Come articolare la parola che libera e il silenzio che guarisce?
Alla “Recollectiohaus” (Casa di raccoglimento) consacriamo alcune giornate al silenzio. Inoltre avvio le persone alla pratica di una meditazione silenziosa ereditata dal monachesimo antico. Nel silenzio il Verbo di Dio può entrare nel mio cuore, può guarirlo. Il silenzio ci rivela che la guarigione non dipende sostanzialmente dal nostro agire, ma dalla grazia. Nel silenzio scopriamo la presenza amorosa e santificante di Dio.


– Il periodo di quaresima non è forse un tempo privilegiato per esercitarsi alla libertà interiore?

Certamente sì. Un mezzo importante in tal senso è il digiuno. Digiunare è positivo, non fosse che per il corpo, essendo un buon mezzo per eliminare le tossine. In molte parrocchie si consacra ormai una settimana della quaresima al digiuno di gruppo. Il digiuno ci libera dalle nostre abitudini alimentari, ci rende più svegli interiormente. Ci consente inoltre di pregare più intensamente. Quando si prega per gli altri digiunando, li si porta anima e corpo davanti a Dio con grande intensità. Come uno sportivo che fissa un programma di allenamento, è bene elaborare un “programma” particolare per la quaresima. Dovrebbe essere l’occasione per riflettere su ciò che mi rende “dipendente”, su ciò che contribuisce a rendere inautentica la mia vita e a farmi mancare di stima nei miei confronti. Digiunare significa fare l’esperienza di una certa nudità: si è direttamente confrontati con se stessi senza i diversivi del cibo, delle bevande, della televisione o ancora dell’automobile…


– Che cosa ci priva, fondamentalmente, della nostra libertà interiore?

La paura. La paura di essere giudicati dagli altri, di non piacere a Dio. E’ la fiducia nell’amore incondizionato che Dio mi porta a offrirmi la vera libertà. Allora io ritrovo il cammino della libertà interiore. Gesù ha detto: “La verità vi farà liberi” (Gv 8,32). Se credo intimamente che tutto ciò che esiste in me ha il diritto di essere in quanto circondato dall’amore di Dio, allora posso rimettere a Dio la mia libertà personale.



Preghiera scelta dal padre Anselm Grün:


In piedi, piccolo uomo! Lascia un po’ perdere i tuoi affanni!
Proteggiti dai tuoi pensieri rumorosi!
Getta lontano le preoccupazioni che pesano su di te
e rinuncia a ciò che ti distrugge: prenditi
un po’ di tempo per Dio e riposati in Lui!
Digli: “Signore, io cerco il Tuo volto”(Sal 27,8).
Insegna al mio cuore dove e come
deve cercarTi, dove come può trovarTi

(Anselmo di Canterbury, estratto dal Prologion)


(Intervista raccolta da Jean-Luc Noyé per la rivista Prier)

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