05/11/2004
36. Alidilà e globalizzazione: dove va la teologia? a cura di Roberto Righetto
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Roberto Righetto, giornalista dell’Avvenire e coordinatore della redazione di “Vita e Pensiero” (bimestrale di cultura e di dibattito dell’Università Cattolica), ha organizzato sul numero 5/2004 di “Vita e Pensiero” un Forum teologico, cui partecipano Piero Coda, Rosino Gibellini, Elio Guerriero, Paolo Ricca e Vladimir Zelinskij. Proponiamo le domande di Roberto Righetto e le risposte di Rosino Gibellini, nel contesto del Forum segnalato.


RIGHETTO – Partirei da una frase di Horkheimer: “La teologia è la coscienza che il mondo non è la realtà ultima; la speranza che nonostante l’ingiustizia che caratterizza il mondo, non avvenga che l’ingiustizia sia l’ultima parola”. Una frase che apre due orizzonti: quello del totalmente altro e quello del rapporto fra Chiesa e mondo. Come valuta l’apporto oggi della teologia rispetto a queste due tematiche?

GIBELLINI – Questo pensiero del filosofo Horkheimer rimanda innanzitutto a Dio: Dio è Dio, e non è il mondo, ma è la realtà, di cui si sente nostalgia, per dare senso al mondo e alla sua drammatica storia. La teologia del XX secolo si è misurata su questo tema, anche sotto la pressione della “morte di Dio”, annunciata da Nietzsche nell’aforisma 125 de La gaia scienza (1882), che ha portato la teologia cristiana a un discorso più esigente e più rigoroso su Dio. La teologia evangelica, nella linea di Karl Barth e di Eberhard Jüngel, propone una esclusiva teologia della rivelazione, per dire il Dio di Gesù Cristo come mistero del mondo. La linea perseguita dalla teologia cattolica, invece, tiene aperto il discorso cristiano su Dio al discorso filosofico (metafisico) su Dio, per un dialogo che punti ad un’alleanza tra ragione filosofica e fede nella rivelazione. Ma, sia pure con modalità diverse, il discorso teologico su Dio tiene aperto il discorso umano ad una ulteriorità e trascendenza, che aiuta la comprensione del mondo e della drammaticità della storia umana. Un teologo come Karl Rahner sintetizza il lavoro teologico in una “reductio in mysterium”, in una riconduzione di tutti gli asserti teologici alla realtà del mistero, che non è solo “tremendum et fascinans”, nella sua sublimità e nella sua attrattività, secondo le analisi della filosofia della religione (Otto), ma che è “santo”, in quanto si è fatto vicino all’uomo e alla sua storia, donando grazia, accettazione e salvezza. Il pensiero di Dio non coarta la ragione, ma la dilata e tiene il cielo aperto sopra di noi. È il compito della teologia, di una conoscenza, secondo l’espressione del teologo evangelico Jüngel, \che dà da pensare".
Per il rapporto tra Chiesa e mondo, dalla frase di Horkheimer deriva, appunto, che senza il pensiero (e la realtà) di Dio, è tenebra fitta sul dolore del mondo, di cui il grande filosofo ebraico aveva una acuta percezione. La teologia del XX secolo, inoltre, ha scritto pagine stupende sul rapporto tra Chiesa e mondo, che ha trovato espressione anche in due documenti ecclesiali, come la costituzione Gaudium et spes (1965) e l’enciclica Populorum progressio (1968): i documenti ecclesiali, che esprimono quasi programmaticamente la solidarietà della Chiesa con il mondo. In questo senso si potrebbe ricordare la definizione che il teologo francese Marie-Dominique Chenu ha dato della teologia: «La teologia è la fede che si fa solidale con il proprio tempo».


RIGHETTO – Si dà spesso per scontato che la teologia della liberazione – o almeno l’uso politico di essa – sia terminata. Lei pensa che possa trovare ancora un suo spazio una teologia che dia voce agli ultimi, ai poveri, agli emarginati? A chi vive nelle zone più dimenticate del globo?

GIBELLINI – La teologia della liberazione ha rappresentato un vasto movimento teologico e pastorale, che ha il suo testo fondamentale in Teologia della liberazione (1971) del teologo cattolico peruviano Gustavo Gutiérrez, e che ha conosciuto una grande notorietà soprattutto negli Anni ’70 e ’80, e che è diventato una dimensione di quella realtà che va sotto il nome di “Teologia del Terzo Mondo”. Basterebbe consultare il recente Dizionario delle teologie del Terzo Mondo (2000). Si deve anche ricordare che è già stato indetto per l’inizio del prossimo anno 2005 un “Forum mondiale su teologia e liberazione” (FMTL), che prevede la partecipazione di 200 teologi/teologhe da tutti i continenti, per ri-pensare il tema della liberazione nel nuovo contesto della mondializzazione.
Certo, come bene osserva, si tratta di un movimento teologico e pastorale che dev’essere storicizzato e contestualizzato, ma che persiste, perché persiste la sfida della “disumana povertà” di popoli e di intere realtà continentali, e persiste la lettura che di questa realtà viene fatta alla luce della fede. Ha scritto recentemente Gustavo Gutiérrez nel saggio Situazioni e compiti della teologia della liberazione (in Prospettive teologiche per il XXI secolo, 2003): «La povertà rappresenta un campo ermeneutico che ci conduce a una rilettura del messaggio biblico e del cammino da intraprendere come discepoli di Gesù». È una teologia che ha donato alla Chiesa la categoria della “opzione preferenziale per i poveri”, che deve essere ora coniugata nei nuovi contesti della mondializzazione. In questo ultimo decennio la teologia della liberazione ha analizzato soprattutto la complessità del mondo della povertà, non solo sotto il profilo economico e sociale, ma anche sotto il profilo culturale, e sono così emerse in America Latina e nel Caraibico le istanze degli indios, dei neri, degli ispanici, e di vasti settori del mondo femminile.


RIGHETTO – Negli ultimi tempi sembra riaffacciarsi peraltro una riflessione sull’aldilà e sulle cose ultime, dopo decenni di dimenticanza anche nella predicazione. Ritiene che possa essere una via per i teologi del XXI secolo? Ci potrà essere un nuovo Dante che costruisca una teologia dell’aldilà adatta ai tempi postmoderni?

GIBELLINI – Il tema dei “novissimi”, o delle realtà ultime, è un tema affascinante della teologia; è il tema non del destino, ma della destinazione dell’essere umano (e del mondo). Al punto in cui eravamo arrivati era necessario un lavoro di ricostruzione e un supplemento di attività. Constatava il teologo von Balthasar in un saggio memorabile del 1960: «Nonostante le tendine ancora abbassate e l’insegna: “Chiuso provvisoriamente per lavori di restauro”, c’è nell’ufficio escatologico una intensa attività in sviluppo». In tema escatologico fino a prima del concilio c’era una fuorviante eccedenza di descrizioni sull’aldilà, spaziale e temporale, ed era ancora in atto quella che lo storico Delumeau ha chiamato “la pastorale della paura”, di cui, ancora, la Chiesa sta pagando il prezzo. Von Balthasar aveva icasticamente osservato: «Il posto del Maranatha [la parola finale della Bibbia: “Vieni, Signore Gesù”] era stato preso dal Dies irae". È una posizione che perdura nel fondamentalismo cristiano, che si esprime in termini di sinistrismo e di catastrofismo, e c’è ancora molta pseudo-letteratura in circolazione.
La grande teologia del XX secolo ha operato una molteplice svolta. Innanzitutto ha de-cosmologizzato i novissimi, rigorizzando il discorso escatologico; nelle parole di von Balthasar, che raccoglie gli impulsi di altri teologi: «È Dio il fine ultimo della creature. Egli è il cielo per chi Lo guadagna, l’inferno per chi Lo perde, il giudizio per chi da Lui è esaminato, il purgatorio per chi da Lui è purificato». Inoltre sul tema che fa tremare le vene e i polsi, dell’inferno, alla tesi, ancora diffusa nei manuali degli Anni ’50: «È certo che ci sono dei dannati», von Balthasar, utilizzando tutta la teologia del XX secolo, da Barth a Rahner, ma anche la dottrina spirituale di mistiche come Teresa di Lisieux e Adrienne von Speyer, ha potuto inferire un colpo mortale alla tesi di quelli che chiama “infernalisti”, che anticipano il giudizio di Dio, – che annovera, sotto questo aspetto, grandi teologi del passato da Agostino a Lutero e Calvino – formulando l’assioma del “dovere di sperare per tutti”, lasciando il giudizio a Dio, “ricco in misericordia”, come si esprime un’enciclica di Giovanni Paolo II, e dilatando così gli orizzonti della speranza. Infine la teologia del XX secolo, in particolare la teologia politica e la teologia della liberazione, ha ricordato che «Il grido di Gesù, “Seguimi!”, e quello dei cristiani, “Vieni, Signore Gesù”, sono inseparabili». Il tempo dell’attesa è il tempo della sequela nelle azioni della speranza. I novissimi, dunque, non più come tema angosciante, ma come tema di speranza.


RIGHETTO – Come le nuove frontiere delle neuroscienze e della filosofia della mente interrogano i teologi e pongono nuove domande all’antropologia cristiana? Non crede che debba esservi un maggior sforzo speculativo dei teologi per definire nuovamente la persona, fatta di anima e corpo?

GIBELLINI – C’è tutto un lavoro da svolgere di correlazione tra teologia e scienza: è una problematica a cui hanno dato il loro contributo teologi come Teilhard de Chardin, Polkinghorn, Ganoczy, Pannenberg e lo stesso Rahner, ma che richiede un impegno maggiore, anche se arduo perché comporta conoscenze molto specializzate.
Per quanto concerne le scienze neurobiologiche, basterà citare la tesi, suffragata da esperimenti e studi, del massimo studioso del cervello umano, il neurofisiologo Eccles, secondo il quale «Il cervello non spiega la mente». È vero, quindi, che le neuroscienze ripropongono il tema della mente, o, in termini più classici, dell’anima. Si deve però osservare che la teologia cattolica negli ultimi decenni è stata piuttosto reticente a parlare di anima, per almeno due motivi: innanzitutto il “composto” corpo-anima era inteso non di origine biblica, ma riproducente, anche se con le opportune correzioni introdotte dalla Scolastica, lo schema del dualismo greco-platonico; inoltre, si è diffusa la tesi della letalità della morte, secondo la quale la morte è morte di tutto l’essere umano, per evidenziare la novità della “risurrezione in Cristo” come nuova creazione. In breve si può dire: la teologia evangelica non accetta l’immortalità dell’anima, reputandola una tesi platonica; nella teologia cattolica si possono individuare due tendenze: una tendenza che recupera la realtà dell’anima non però sostanzialisticamente, ma come capacità dialogica con Dio e con gli uomini e conseguentemente parla di immortalità dell’anima come immortalità dialogica (come fa il teologo Ratzinger nella sua Escatologia, 1977); e una tendenza che considera la persona umana nella sua unità e la risurrezione nella sua novità di nuova creazione, dove la tesi dell’anima non svolge un ruolo particolare.
Il recupero dell’anima, pertanto, deve essere inserito nel contesto di una antropologia, dove non è tanto il “composto” in quanto composto, la problematica centrale, ma la dignità della persona umana nella sua unità e integrità, che in termini religiosi e teologici si esprime nell’ “essere creati ad immagine di Dio”: è questo il punto di fondamentale importanza anche per portare un decisivo contributo nel complesso e controverso dibattito della bioetica. La teologia del futuro dovrà saper accogliere le sollecitazioni sia della neuroscienza, sia della scienza “forte” della biomedicina.


RIGHETTO – Nella seconda metà del secolo XX ha preso piede la cosiddetta “teologia narrativa”; crede che possa darsi una teologia che sappia riflettere anche sugli sforzi della letteratura e dell’arte e che apra la via alla bellezza?

GIBELLINI – La teologia non è solo argomentativa, ma anche narrativa: Agostino, Bonaventura, Pascal, Kierkegaard, Newman, Bonhoeffer, Guardini, Buber (per la teologia ebraica) lo stanno a dimostrare. Nella discussione si argomenta, ma le esperienze si raccontano. Ricordo bene il memorabile fascicolo della rivista internazionale di teologia Concilium 5/1973, Sulla crisi del linguaggio religioso, che ha rappresentato quasi il manifesto del rilancio della teologia narrativa come integrazione di una teologia prevalentemente argomentativa ed ermeneutica. Ma sono pienamente d’accordo che ci sono altri campi da esplorare, come quelli indicati, di una teologia estetica e di una teologia letteraria. Nella Postmodernità, che si manifesta anche nel pluralismo della conversazione umana, la teologia (lo ha recentemente teorizzato il teologo francese Christian Duquoc) si esprime anche nel genere letterario, modesto e dialogico, dello échange, tramite scambi con modalità diverse del discorso e dell’espressività umana.
Nel campo della letteratura Guardini ha fatto scuola: ha analizzato grandi opere della letteratura mondiale, confrontando il senso della vita da esse espresso con la “visione cattolica”. È un compito che trova continuazione nell’opera del teologo francese domenicano Jean-Pierre Jossua, che in questo senso parla di “teologia letteraria”. Si sta imponendo il discorso di una “teologia estetica”, non nel senso vonbalthasariano di “estetica teologica”, ma nel senso di analisi della opere d’arte per captare il senso della vita che esprimono. Il teologo gesuita Christoph Theobald inoltre tiene un corso frequentatissimo, anche da non credenti, al Centre Sèvres di Parigi (che rappresenta la facoltà teologica dei Gesuiti francesi) su “musica e teologia”, durante il quale, previa audizione di pezzi musicali particolari, seguono interpretazioni in chiave teologica. In questi casi il teologo deve coniugare più competenze. Una decina d’anni fa arrivarono da Tubinga all’Arena di Verona tre illustri teologi: Küng, Jüngel, Moltmann, con i loro assistenti; erano in cartellone tre opere di Verdi e questi ospiti, con i quali mi sono intrattenuto in quei giorni, mi hanno chiesto quale fosse lo studio italiano più importante su Verdi e la teologia, che io non ho saputo indicare, ma insieme abbiamo ricordato il bel saggio di Barth su Mozart (1956).


RIGHETTO – Un’ultima domanda per una risposta breve: chi sono il filosofo e il teologo che meglio possono aiutarci a capire il tempo presente?

GIBELLINI – Per molti secoli la Chiesa ha avuto come punto di riferimento Agostino e l’agostinismo, e poi Tommaso e la Scolastica; oggi le cose sono cambiate, e non credo sia possibile dare una risposta breve. Se si guarda alla teologia del XX secolo si può notare, ad esempio, l’ispirazione del “Principio speranza” di Bloch sulla teologia della speranza; della filosofia ermeneutica di Gadamer e Ricoeur sulla teologia ermeneutica; della teoria critica della società (Adorno, Horkheimer) sulla prima teologia politica, e della teoria dell’agire comunicativo di Habermas sulla seconda fase della teologia politica; del “Principio responsabilità” di Jonas sulla teologia ecologica, e così via. È stato von Balthasar a notare che la Modernità (a differenza del Medioevo, figurabile come un cono dal cui vertice si ha la visione di tutta la superficie del cono: è il tempo che ci ha dato la Divina Commedia e le Somme) è figurabile come una sfera, e da nessun punto è possibile avere la vista di tutta la superficie della sfera. E concludeva: «Bisogna muoversi; la terra della verità si può esplorare solo mutando i punti di osservazione. È un’esperienza esclusivamente moderna». È una esplorazione più complessa, ma che si fa anche più interessante. Con la nuova tematica, poi, della teologia delle religioni e del dialogo interreligioso la biblioteca del teologo si arricchisce ancora di più.



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