Il professor Jürgen Moltmann ha plasmato la teologia come pochi altri. Anche a cinquantacinque dalla comparsa della Teologia della speranza il novantaduenne tedesco si mostra fiducioso. A seguire, riportiamo ampi stralci di una recente intervista concessa al quotidiano Die Zeit,
per la rubrica Christ & Welt:
un colloquio su coraggio, liberazione, profezia e… una macchina da scrivere portatile.
L’ingresso in casa Moltmann fa da salotto. Da qui si vedono tutte le camere del pianoterra: il soggiorno con la vista sulla valle del Neckar, la cucina, lo studio. Sono già pronte due ottomane – come se l’intervista fosse una faccenda consueta in vista della quale si scelgono i mobili. Moltmann parla lentamente, ma in modo preciso. Si è stabilito un’ora di colloquio, dopo un’ora precisa ci lasciamo. Il sospetto che il veloce congedo potrebbe dipendere dall’energia limitata di un anziano signore ultranovantenne lo rompe il teologo: sta già progettando di andare nuovamente in Corea.
D: Professor Moltmann, il suo libro di successo, la Teologia della speranza, è apparso nel 1964. Da allora il suo nome è legato irrevocabilmente alla fiducia. Ci sono stati momenti nella sua vita in cui lei è stato colto dallo sconforto o dalla rassegnazione?
R: Certo! Nel 1945, in un campo di prigionia in Belgio, mi sentivo così male che desideravo morire. Un sergente mi ha trasportato in infermeria. Sono sopravvissuto.
D: Nel campo di prigionia lei è giunto alla fede.
R: Avevo imparato le poesie di Schiller e di Goethe. Ma nel fango del campo non mi dicevano più niente. E allora ricevetti in regalo una Bibbia. Ho letto per primi alcuni salmi di lamentazione; mi diedero parole per esprimere il mio senso di abbandono da parte di Dio. E il Gesù abbandonato da Dio sulla croce mi ha persuaso dell’amore di Dio.
D: I salmi di lamentazione non hanno un tono particolarmente fiducioso.
R: Eppure mi hanno dato le parole per esprimere il dolore.
D: Dunque la speranza è posta nella rassegnazione?
R: No, i salmi di lamentazione esprimono il lamento, non la rassegnazione. È stato difficile avere speranza anche dopo la morte di mia moglie due anni fa. Il dolore per la perdita e la felicità che ho vissuto con lei, e che continuo a provare, mi hanno aiutato a superare la rassegnazione. Finché si ha da lamentarsi e si hanno parole per il dolore, non ci si rassegna.
D: Lei ha 92 anni, io ne ho 32. Che consiglierebbe a una persona della mia età per non amareggiarsi?
R: Perché dovrebbe amareggiarsi? Lei non ha attraversato la guerra e la prigionia. Abbia coraggio!
D: A molti della mia generazione il futuro appare alquanto incerto.
R: La gioventù ha perso lo spirito dell’avventura. (ride) Se noi avessimo la vostra età vorremmo cambiare il mondo. La speranza si è fatta mogia mogia.
D: Da cosa dipende?
R: Gli allarmisti vanno in giro seminando il panico e promettendo sicurezza dove sicurezza non c’è. Vengo dal movimento che dette avvio a qualcosa di nuovo negli anni Sessanta e Settanta. Abbiamo avuto il concilio Vaticano II nella chiesa cattolica e il movimento per i diritti umani – ricorda I have a dream di Martin Luther King? Abbiamo discusso sulla secolarizzazione, la demitologizzazione, la teologia femminista e quella della liberazione. Io spero nei giovani, in un nuovo movimento di risveglio nella chiesa.
D: Che cosa glielo fa sperare?
R: Sono stato sorpreso e grato che il giubileo della Riforma nel 2017 sia stato celebrato ecumenicamente. Spero che una nuova ondata ecumenica tocchi le chiese.
D: Le chiedo: il benessere è forse di ostacolo alla speranza?
R: Gesù era di quest’opinione. Per questo, in uno dei racconti del vangelo, il giovane ricco se ne va via triste.
D: Significherebbe che la fede in Germania non ha alcuna possibilità se la situazione tedesca rimane buona?
R: No, la fede non dipende dalle circostanze. Ma le circostanze determinano le chiese: esse sono ancora privilegiate. Dalla svolta costantiniana le chiese in vaste regioni del mondo occidentale sono diventate chiese di stato – da cui io come pensionato traggo profitto. Ma la chiesa perderà questi privilegi.
D: Ciò che lei ha scritto sul futuro della chiesa suscita qua e là l’impressione che lei si auguri una chiesa organizzata in modo libero.
R: No, dò valore alle comunità autonome. Nel mio libro descrivo il buon funzionamento della Jakobusgemeinde qui a Tubinga. La comunità ha venti riunioni domestiche, ogni domenica piene. Bisogna andarci un quarto d’ora prima se si vuole trovar posto. È la mia immagine ideale. Le superstrutture sono certamente belle, ma devono essere a servizio delle comunità autonome. A Sud del mondo si sta formando una nuova cristianità! La chiesa di qui può imparare molto. Sono chiese che non sono mai state statali o religioni nazionali cristiane. Sono chiese che rappresentano delle minoranze in paesi buddhisti o shintoisti, islamici o socialisti. In Cina le chiese domestiche hanno un’attrazione e crescono, qui lei appartiene a una circoscrizione ecclesiastica, anche se non frequenta mai la comunità.
D: Ciò significa che lei ritiene per esempio la tassa che va alle chiese un modello destinato a essere superato?
R: La speranza non sta nel negare, ma nelle cose positive. La comunità viva – e tra queste accanto alla Jakobusgemeinde di Tubinga ce ne sono migliaia in Germania – regola le faccende che la riguardano da sola. Celebra e plasma il servizio liturgico da sé, se manca il pastore. E chi ricopre una carica – non amo questo modo di dire perché è centrato sul ministero – fa da sé il servizio liturgico. Ci sono persone sufficientemente sagge che possono tenere il sermone e interpretare la Bibbia.
D: Quale concezione le è più cara?
R: Quella della comunità riunita. Tutti portano i loro talenti. Il sacerdozio universale di tutti i credenti dovrebbe essere utilizzato più evangelicamente – anche da parte cattolica.
D: Lei ha dedicato il suo ultimo libro ad Heinrich Bedford-Strohm, presidente della Chiesa evangelica in Germania (EKD), esponente della cosiddetta teologia pubblica, che si interroga sulla rilevanza della teologia per la società e che non si sottrae al confronto. È un’adeguata succedanea della teologia della liberazione?
R: No, la teologia della liberazione prende partito nelle lotte sociali. La teologia pubblica sarebbero le prese di posizione della chiesa in ambito pubblico. A volte le due cose si sovrappongono, ma non necessariamente. La teologia politica e la teologia della liberazione erano profetiche. Solo raramente lo è l’impegno della chiesa nell’ambito pubblico.
D: Lei si augurerebbe a volte che la chiesa alzasse la voce?
R: Sì.
D: Lei scrive che le manca il no chiaro, come fece per esempio la Chiesa confessante nella Dichiarazione teologica di Barmen contro l’appropriazione di Gesù voluta dai nazisti. La chiesa non dovrebbe restare in dialogo, contribuendo all’unità?
R: Se la chiesa vuole edificare l’unità deve restare in dialogo, certo. Ma tra i Cristiano-tedeschi e la Chiesa confessante non esisteva unità di sorta. L’unità non era neppure desiderata, né dall’una né dall’altra parte.
D: E – trasposto ad oggi – lei direbbe lo stesso riguardo a ciò che attualmente viene spesso richiesto: cioè che bisogna parlare con la destra?
R: Sì e no: dipende. La discriminante la pongo là dove si fa del populismo, dove viene evocato il popolo dei tedeschi, perché mi ricorda la giovinezza e il nazionalsocialismo. Questo lo detesto profondamente.
D: E la chiesa deve avere limiti chiari?
R: La chiesa evangelica nell’estate del 1945 al Sinodo di Treysa ha cambiato il suo nome. Prima si chiamava Chiesa evangelica tedesca, da quel momento è la Chiesa evangelica in Germania (EKD): e con ciò si sono marcati i confini. Non sono un cristiano-tedesco, ma un cristiano in Germania. La Germania è il luogo dove vivo, e non il contrassegno della mia fede. La chiesa mondiale esiste in Germania ed esiste in Corea, in Brasile, in Nicaragua e in Gran Bretagna. E i legami ecumenici sono più forti di quelli nazionali.
D: Ora facciamo un po’ di teologia politica e parliamo di un paio di questioni controverse di questi tempi: Cosa pensa Jürgen Moltmann del limite di velocità sulle autostrade?
R: Dopo un incidente lo scorso anno ho venduto l’automobile e non guido più. Sono molto favorevole al limite di velocità in autostrada.
D: Sarebbe una limitazione della libertà?
R: No, il rispetto per gli altri fa parte della libertà.
D: Cosa pensa Jürgen Moltmann della dieta vegetariana?
R: Ho quattro nipoti, due vegani e due cacciatori. Due vanno a caccia, due rinunciano alla carne.
D: E Lei?
R: Io mangio carne. Il mio corpo non riesce più a sopportare cambiamenti. Sono cresciuto negli anni della fame durante la guerra e il dopoguerra e mangio tutto quello che trovo nel piatto. Come concessione ai miei discendenti vegani limito il consumo di carne e di venerdì mangio vegetariano.
D: Cosa pensa Jürgen Moltmann del linguaggio paritario tra i sessi?
R: Mi sono sforzato, ho ascoltato mia moglie ed ho evitato il linguaggio maschilista. A volte per esempio diciamo: «Tutti gli uomini diventano fratelli» – questa limitazione fu messa in dubbio già durante la Rivoluzione francese. Dunque, tutti gli uomini diventano fratelli, tranne le sorelle. Invece: Libertà, uguaglianza, sororità (anziché fratellanza) è il titolo di un libro di mia moglie – l’ho inventato io.
D: Che cosa nei prossimi anni lascerà un segno più forte nella chiesa evangelica o nelle chiese in Germania: il movimento pentecostale a livello mondiale o la digitalizzazione?
R: Nessuno dei due. Saranno il vangelo e la fede a segnare le chiese.
D: Sa che lei è presente su Twitter?
R: Il mio vicino di casa, che è anche mio amico, mi ha fatto vedere le frasette che un farmacista di Pforzheim pubblica ogni giorno.
D: Sa chi c’è dietro! Lo ha mai incontrato?
R: No.
D: E come giudica quanto fa costui?
R: Non posso impedirglielo. (ride).
D: Ma lei non vuole cominciare a usare Twitter?
R: Con la mia macchina da scrivere portatile ho fatto a sufficienza.
D: Lei crede che il progresso tecnologico avrà un ruolo per la chiesa?
R: Quello che ha un ruolo per gli esseri umani, ha un ruolo anche per la chiesa.
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