(In risposta a “Un sinodo sulla donna” di Liliana Cavani e Emma Fattorini
Il Sole24Ore 10 gennaio 2010)
L’articolo Cavani-Fattorini pubblicato il 10 gennaio su Il Sole24Ore suscita ammirazione e solidarietà, anche per la sua natura impegnativa e implicitamente militante: non si può che concordare con il rilievo al centro del discorso, cioè la latitanza del femminile in ogni ambito della vita della chiesa; ed è vero che di questo fatto le ragioni sono molte e «come sempre quasi tutte dettate da paura». Ma la stessa partecipe solidarietà spinge ad avanzare alcune osservazioni.
Concordiamo sull’esigenza di «entrare in contatto con il Signore anche con il corpo, con le emozioni, con tutta la propria persona e non solo con la testa, non solo con il pensiero», l’esigenza cioè di una riflessione teologica più incarnata ed esperienziale, che consideri l’essere umano concreto maschio-e-femmina nell’integrità delle sue componenti; le Autrici ricordano con rimpianto le interessanti riflessioni sul corpo proposte da Giovanni Paolo II nei suoi discorsi del mercoledì. Forse però vi è un rischio quando l’indiscutibile necessità di considerare la dimensione corporea viene fuori in parallelo, anzi viene quasi identificata con l’esigenza di prestare maggiore attenzione alla ‘donna’. Gli uomini di chiesa hanno già troppo la tendenza a identificare la donna con la corporeità (anzi con il corpo, realtà diversa, più limitata e biologica), con le emozioni e con la pura relazionalità; di conseguenza, almeno implicitamente, l’uomo-maschio con il pensiero, la ragione e il potere. Sappiamo che la vita di ogni essere umano, uomo o donna, si esplica nella relazione, per la relazione, con Dio, con gli altri e con l’Altro, con la natura, con il proprio essere profondo. E’ questa relazione che consente di diventare compiutamente umani. Nel momento però in cui la donna - e solo lei - viene di fatto identificata con la relazionalità, il suo autonomo valore di persona diviene sfuggente. Nessun essere umano può realizzare la propria vocazione integralmente umana e contribuire all’umanizzazione del mondo se viene letto a senso unico, come logos o come pathos.
L’articolo si conclude prima con una domanda cruciale: «Che fare perché ai pur autorevoli riconoscimenti del Magistero seguano finalmente atti di grande portata e concretezza?», poi con un suggestivo (anzi ‘suggerente’) «è troppo ingenuo pensare all’urgenza addirittura di un Sinodo sulla donna?».
E questo suscita qualche perplessità: la proposta di un Sinodo sulla donna, tanto più in questo momento, non ci sembra infatti la più adatta a concretizzare gli auspicati atti di grande portata e concretezza. Si auspica giustamente qualcosa di trasformativo: «non … l’ennesimo riconoscimento retorico di una idealizzata e disincarnata essenza femminile, ma la sua concreta promozione nella società senza svisarne la sua intima identità».
Ci sembra che gli uomini di chiesa abbiano fin troppo la tendenza a parlare della ‘donna’ anziché considerare e ascoltare le ‘donne’ più individuate, storiche e concrete. La donna come tale è un’astrazione teorica. E riflettere su ‘la donna’ espone proprio al rischio di un «ennesimo riconoscimento retorico di una idealizzata e disincarnata essenza femminile», per usare le stesse parole delle Autrici, al rischio di ribadire in modo acritico o difensivo gli antichi stereotipi, gli antichi ruoli.
E forse sarebbe opportuno non parlare più di promozione della donna, quantomeno da parte di chi detiene un potere a qualunque titolo. Idea e immagine connessa vengono ormai giustamente percepite come inadeguate e paternalistiche, fanno pensare a qualche benevola concessione. Le donne non vogliono venir ‘promosse’ da qualsivoglia autorità - maschile s’intende - ma avere accesso alla pienezza delle possibilità e delle responsabilità, secondo le inclinazioni personali e le diverse situazioni di vita.
Riconoscimenti positivi nei confronti delle donne, cortesi e benintenzionati e anche lirici, esistono già da tempo: basti ricordare la lettera apostolica Mulieris Dignitatem di Giovanni Paolo II (1988), ricordata con favore dalle Autrici, che è certamente un testo di notevole importanza storico-culturale, se non di grande influenza nella prassi: spazza via ufficialmente, almeno in linea di principio, secoli di misoginia ecclesiastica. Ma non va dimenticato che esiste anche la misoginia latente, di cui le strutture della chiesa e in parte anche della teologia, del linguaggio, sono tuttora impregnate nel profondo; e smentirla non è altrettanto facile, perché non è facile riconoscerla, e così può esercitare il suo influsso anche su uomini seriamente aperti e disponibili nei confronti dell’universo femminile. E anche su tante donne: tante infatti hanno interiorizzato un modo maschile di pensare e di dire se stesse.
Nella Mulieris Dignitatem il papa giungeva ad affidare alla donna l’essere umano (n.30). Idea suggestiva certo, tuttavia anche eccessiva se presa sul serio: dell’essere umano e dell’umanità, lo crediamo fermamente, donne e uomini sono responsabili in solido. In compenso accentua la contraddizione tra questa straordinaria importanza e positività della donna (tra parentesi, è ovvio che nessuno sentirebbe il bisogno di soffermarsi sulla straordinaria importanza e positività dell’uomo di sesso maschile: essere donna costituisce comunque sempre l’anomalia rispetto al modello umano!) e le limitatissime possibilità che alle donne concrete sono aperte in una chiesa ufficiale declinata e visibile solo al maschile.
Ormai hanno avuto luogo diversi Sinodi, di cui conosciamo bene quasi solo i documenti iniziali e conclusivi; certo all’esterno non giunge tutto ciò che viene dibattuto nell’aula sinodale, ed è ben possibile che le cose più interessanti siano quelle che non si vengono a sapere, ma abbiamo ormai un’idea abbastanza chiara sul loro svolgimento, sulle indicazioni di lavoro, sulle conseguenze che possono sperarsi. Non sembra che i Sinodi già avvenuti – ora penso soprattutto a quelli riguardanti la famiglia, i laici ecc. - abbiano fatto molto avanzare la riflessione o determinato qualche deciso mutamento di prassi nei rispettivi ambiti; e le conclusioni pubblicate presentano spesso una sconcertante somiglianza con i Lineamenta dell’inizio.
Non si vede che cosa potrebbe dire di nuovo oggi un Sinodo sulla donna in cui il ruolo attivo sarebbe solo dei vescovi, uomini e chierici quindi, e sarebbe chiaramente fissato in partenza di che cosa si può parlare (la pari dignità, il «genio della donna», la missione, la promozione ecc.) e su che cosa, tassativamente, si deve tacere.
E qui viene l’altra ragione di perplessità.
Le Autrici scrivono: «Non c’entra nulla la rivendicazione del sacerdozio femminile. Non è questo che le donne chiedono». Un momento. Non si tratta qui di aspirazioni personali, nemmeno di pure e semplici rivendicazioni (anche se è giusto, anzi doveroso rivendicare con dignità e fermezza ciò che viene ingiustamente negato). Si tratta di qualcosa di assai più fondamentale: di coerenza nell’annuncio e nella prassi.
Visto che l’Ordine sacro è condizione imprescindibile per l’accesso a qualsiasi funzione di governo e di magistero nella chiesa, escluderne le donne unicamente in base al loro sesso significa inchiodarle in un destino ecclesiale di esclusione e subordinazione, in un’incapacità di rappresentanza a cui ogni coscienza cristiana adulta, non solo femminile, non può non ribellarsi.
E’ probabile che le donne possano andare avanti benissimo senza il sacramento dell’Ordine; ma la chiesa dell’Ordine sacro forse non può andare avanti continuando a escludere le donne. (E qui occorre riferirsi a entrambe le forme di questa esclusione, distinte nelle manifestazioni, ma congiunte alla radice: divieto per le donne di accedere al ministero ordinato, divieto per i ministri ordinati di unirsi a donne).
Non temiamo di affermare che il persistere dell’esclusione delle donne - per la sua natura di indice di autenticità – può influire negativamente sul futuro della chiesa cattolica, in misura assai maggiore di quanto possa sembrare a prima vista: non si tratta di un problema circoscritto. Finché sussisterà questa contraddizione di fondo, ‘scandalosa’ oggi (nel senso etimologico) come certo non era in altre epoche, i pur positivi e convinti, ma generici e indolori riconoscimenti in ordine alla pari dignità, al genio e alla missione della donna non possono che suonare alquanto evasivi.
E, per tornare alla proposta Cavani-Fattorini, non possiamo aspettarci molto di nuovo a questo riguardo da un eventuale Sinodo di vescovi, visto che comunque vi sarebbe in partenza anche il divieto di parlarne.
Del resto è noto che tra i requisiti per i candidati all’episcopato vi è quello di non essersi mai mostrati troppo ‘aperti’, almeno in pubblico, in ordine al ruolo ecclesiale delle donne.
© 2010 by Adista, Roma (31.01.2010)
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Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)