19/06/2008
116. «Le possibilità non sono esaurite» Un colloquio con Otto Hermann Pesch sulla situazione ecumenica di Ulrich Ruh
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Otto Hermann Pesch è uno tra i più valenti e dotti ecumenisti della chiesa cattolica, particolarmente versato nel dialogo tra chiesa cattolica e protestantesimo. Tra le sue opere maggiori, pubblicate dalla Queriniana, sono da ricordare: la monografia su Tommaso d’Aquino, e la monografia su Martin Lutero. Ha in preparazione una vasta opera, “Dogmatica cattolica in prospettiva ecumenica”. Pubblichiamo questa puntuale intervista sulla situazione ecumenica, rilasciata al teologo Ulrich Ruh, caporedattore della rivista “Herder Korrespondenz”.


Herder Korrespondenz (HK): Professor Pesch, da decenni ormai osservate e accompagnate lo sviluppo dell’ecumenismo evangelico-cattolico. Come giudicate sulla base di questo l’attuale situazione ecumenica che spesso è descritta alle voci stagnazione o addirittura crisi?

Pesch: Non parlerei proprio di stagnazione e tanto meno di crisi. La coscienza della comunione nella stessa fede, che è cresciuta negli scorsi decenni a livello di comunità, non è in nessun caso da eliminare. Non è semplicemente più immaginabile che si ricada nelle animosità o addirittura nella inimicizia che si incontrava ancora negli anni Cinquanta del XX secolo. Se tuttavia si ha l’impressione di una stagnazione ciò dipende in primo luogo dalle comunità che si chiedono con una lecita impazienza perché a livello ecclesiastico ministeriale non si vada avanti più speditamente. In secondo luogo ci si domanda nella cerchia dei teologi competenti quanti argomenti devono essere ancora addotti per muovere finalmente qualcosa nella conduzione delle chiese. In terzo luogo poi ci sono quanti criticano l’ecumenismo, ai quali non sta bene l’intero corso delle cose e che adesso quasi affermano trionfanti di essere giunti a un punto morto.


HK: E malgrado questo si continua a lavorare teologicamente dal punto di vista ecumenico. Esiste la speranza che la goccia continua scavi la roccia?

Pesch: Sì naturalmente! Nel Gruppo di lavoro ecumenico di teologi evangelici e cattolici, di cui faccio parte dal 1983, stiamo terminando il progetto del “Ministero ecclesiale nella successione apostolica”. Il terzo ed ultimo volume che fa parte del progetto si chiude con un esplicito «auspicio di un consenso differenziato contenuto in una “Dichiarazione congiunta sul ministero ecclesiale”» – come proseguimento della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione firmata nel 1999 ad Augusta (Germania). Dopo aver preso in esame gli argomenti della scienza biblica, della storia della liturgia e della teologia, e infine della teologia sistematica siamo giunti alla convinzione che esistono tutte le premesse per una simile dichiarazione e, legato a questo, per un reciproco riconoscimento del ministero. Possiamo dunque farlo – basta semplicemente volerlo, da entrambe la parti!


1. «Della critica all’ecumenismo di consenso se ne è fatto uno spauracchio»


HK: Le esperienze in merito alla Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione non sembrano essere promettenti. Allora c’è stata una resistenza da parte di molti accademici evangelici in Germania e delle riserve da entrambe le parti. Merita la fatica fatta con simili documenti di convergenza se essi poi non vengono recepiti?

Pesch: La raccolta di firme contro la Dichiarazione congiunta a suo tempo si è svolta in parte in circostanze equivoche e da ultimo ha coinvolto solo una minoranza dei professori e delle professoresse evangeliche di teologia in Germania, dove la maggioranza non era costituita da esperti di ecumenismo. Decisivo è stato invece quanto è stato raggiunto di fatto: chi prima della firma della Dichiarazione del 31 ottobre 1999 era stato dell’opinione che nella dottrina della giustificazione le chiese luterana e cattolica non fossero più gravate da una contrapposizione tale da dividerle, portava avanti le proprie convinzioni personali anche senza la solidarietà di molti compagni. Dopo questa data ci si può riferire al fatto di rappresentare la posizione ufficiale congiuntamente testimoniata di entrambe le chiese – mentre questa volta sono gli oppositori a portare avanti personalmente le proprie convinzioni. Già è sufficiente questo perché la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione sia un successo sulla cui base ora bisogna continuare a lavorare. E allora sì che la goccia continua scava la roccia!


HK: Proprio oggi e soprattutto da parte evangelica si sostiene l’idea che con l’“ecumenismo di consenso” non si proceda oltre e che sia necessario un altro modello per sviluppare una futura convivenza delle chiese. Da dove viene questo scetticismo nei confronti della ricerca di un consenso dottrinale?

Pesch:Della critica all’ecumenismo di consenso, che attualmente è diventata una moda, se ne è fatto uno spauracchio. Si crede che con l’ecumenismo di consenso le persone, attraverso le trattative, cercherebbero un minimo comun denominatore per giungere a un’unità al di là delle chiese esistenti e che professano confessioni diverse. Le persone che qui svolgono una forte critica dovrebbero poter essere delle mosche presenti a una seduta del Gruppo di lavoro ecumenico per accorgersi che lì non si regala niente, neppure tra i rappresentanti delle varie confessioni. Certo, se non si vuole più bloccare un’intesa c’è anche da togliere dalla mente certe idee stereotipe e delle incomprensioni dure da smontare che sono state abbondantemente fornite e continuano a essere presenti. Allora si può giungere veramente a un “consenso”. Per il resto dipende, da un lato, dall’arricchimento vicendevole che viene dalle tradizioni diverse sorte in teologia e nella pratica della pietà e, d’altro lato, dall’interrogarsi criticamente. Così facendo però non si tenderà mai a una teologia uniforme dell’unità o a una chiesa unitaria.


HK: Neppure da parte cattolica?

Pesch: Ci sono naturalmente persone, e non solo a Roma, anche sul versante cattolico che in ultima analisi concepiscono l’ecumenismo unicamente come un “ecumenismo del ritorno”. Ma a livello ufficiale Roma in questi ultimi anni ha sempre spiegato che non si pensa più a una soluzione del genere. Joseph Ratzinger ha del resto già nel 1964 coniato la formula che coglie precisamente le cose: «Le chiese rimangono e diventano nello stesso tempo la chiesa una» [trad. it., Joseph Ratzinger, Concilio in cammino. Sguardo retrospettivo sulla seconda sessione, Paoline, Roma 1965, 79].


HK: In primo piano all’ordine del giorno ecumenico accanto alla questione sul ministero dovrebbe esserci un consenso vincolante sull’eucaristia. Qui dal punto di vista teologico molto è stato raggiunto negli ultimi decenni. Non sarebbe il momento in cui condividere questo tra le chiese anche a livello ufficiale?

Pesch: A partire dal documento internazionale luterano-cattolico L’eucaristia del 1978 [Enchiridion Œcumenicum 1, Dehoniane, Bologna 1986, nn. 1207s.] si può da entrambe le parti affermare che nelle questioni riguardanti la comprensione teologica dell’eucaristia, anche in riferimento ai complessi temi della “presenza reale del corpo e del sangue di Cristo” e dell’eucaristia come “sacrificio”, saremmo così avanti nell’unità che niente più può impedire una comunione di mensa. Rimane solo il problema della “validità”, cioè il senso dell’istituzione della celebrazione eucaristica che è legata all’ordinazione “valida” del titolare del ministero che la presiede. Se si giungesse a una “Dichiarazione congiunta sul ministero ecclesiastico” ecco che allora sul cammino sarebbe rimossa anche questa pietra d’inciampo. Il consenso nella dottrina dell’eucaristia non significa naturalmente che si dovrebbe accogliere del tutto ogni forma di prassi liturgica con l’esclusione dei punti in cui questo genere di pratica provoca da una parte o dall’altra delle incomprensioni. Sul versante evangelico ciò riguarda ad esempio il rapporto con la parte che avanza degli elementi della cena; su quello cattolico, alcune forme eccesive del culto eucaristico.


2. «Ciò che è già stato raggiunto non può essere dimenticato»


HK: Bisognerebbe andare cauti con le attribuzioni di colpa. Eppure chi dei due partner nel rapporto evangelico-cattolico è alla fin fine colpevole di essersi mosso così poco nelle questioni decisive riguardanti le chiese?

Pesch: È difficile dirlo. Io mi sono fatto l’idea che, anche se è impossibile vedere questo in chiave oggettiva, da parte di Roma non si vuole dire di sì a un accordo con le chiese della Riforma che renderebbe più difficile il dialogo con l’Ortodossia. In ogni caso non si può utilizzare questo per ricattarsi reciprocamente direttamente o indirettamente. D’altro lato Roma non è pronta a riconoscere alle chiese evangeliche lo statuto di una vera chiesa; lo hanno mostrato del resto anche le più recenti dichiarazioni le cui cause restano sempre nell’ombra. La controparte evangelica ha reagito a ciò con la parola d’ordine dell’“ecumenismo dei profili” 1 , di cui a sua volta si può abusare. Contrariamente alla sua intenzione originaria esso ha una valenza negativa.


HK: Quale conclusione si può trarre da tutto questo?

Pesch: Che, come si comprende dall’ecumenismo dei profili, si dovrebbero ricavare nel modo più nitido possibile le contraddizioni, e rallegrarsi di questo più che lavorare ad un loro superamento. In un certo senso si oppone spigolo a spigolo e per il resto si desidera essere lasciati reciprocamente in pace. E questo lo si chiama anche “diversità riconciliata”. Di un simile atteggiamento ci si può solo rammaricare. Summa summarum: entrambe le parti hanno contribuito a far sì che la stagnazione – per me comunque solo apparente – sia intervenuta nel dialogo ecumenico.


HK: In una situazione del genere è fondamentale che la rete dei contatti in atto non si strappi. Come vede professor Pesch le opportunità che si profilano in Germania che ha una specifica tradizione di ecumenismo evangelico-cattolico?

Pesch: Abbiamo la grossa fortuna di possedere una gran quantità di istituti ecumenici e di cattedre legate a questo sia nelle università come al di fuori di esse. Disponiamo inoltre di numerose riviste ecumeniche specializzate. Tutto questo potenziale potrebbe essere sfruttato ancor meglio. Poiché nella teologia ecumenica come nella teologia in generale siamo di fronte a un cambio generazionale, si potrebbe fare molto perché quanto è già stato raggiunto non venga dimenticato. Quale parroco conosce anche solo ciò che è scritto nelle dichiarazioni ecumeniche – pure se è impossibile che le abbia lette? Provate a chiedere cos’è il Rapporto di Malta (1968) [della Commissione preparatoria anglicana - cattolica romana, in Enchiridion Œcumenicum 1, Dehoniane, Bologna 1986, nn. 137s.] o cos’è il documento di Lima del 1982 [della Commissione Fede e costituzione del Consiglio ecumenico delle chiese: Battesimo, eucaristia, ministero, in Enchiridion Œcumenicum 1, Dehoniane, Bologna 1986, nn. 3032s.]! C’è molto da sottrarre all’oblio. Per questo è felicemente da salutare il fatto che a Roma si è chiaramente molto vicini a una elaborazione fatta in comune con la parte evangelica delle intese ecumeniche fin qui raggiunte e ad un bilancio intermedio perché ogni generazione non debba ricominciare da Adamo ed Eva quando si parla di temi ecumenici.


HK: Tra i punti di conflitto relativamente recenti dell’ecumenismo evangelico-cattolico c’è quello dell’ordinazione delle donne, pratica del tutto ovvia nelle chiese evangeliche, ma bloccata nella chiesa cattolica dai vincoli romani. Come si può andare avanti in questo punto scabroso per la discussione ecumenica sul ministero?

Pesch: Non esiste secondo l’opinione di teologi esperti in materia nessuna base in senso stretto, dogmatica o “ontologica”, per escludere le donne dal sacramento del’ordinazione; ci sono però argomenti desunti dalla tradizione e – in ogni caso – dei “fondamenti di convenienza”. Pertanto la questione è teologicamente aperta, malgrado le note decisioni di papa Giovanni Paolo II. Solo che qui in tempi prevedibili non c’è da attendersi alcun cambiamento. Oltre a ciò ci si chiede se in questo caso sia lecito aspettarsi un secondo passo in avanti se la guida della chiesa romana nonostante il bisogno crescente delle comunità non vuole (farsi) cambiare la norma sul celibato. Nello stesso tempo i luterani dovrebbero presentarsi un po’ meno orgogliosi su questo tema perché qui in nessun caso si può porre una tradizione riformata. È durato anche troppo – cioè fino agli anni Settanta del secolo scorso – fino a quando nelle chiese luterane sono cadute le ultime restrizioni contro le donne impegnate nel ministero parrocchiale. A tale riguardo ci si può irritare se nel documento della Chiesa evangelica in Germania (EKD) sulla “Comunione delle chiese nella comprensione evangelica” si legge che questo è un punto sul quale si dovrebbero sollevare delle obiezioni contro la chiesa cattolica. Per prima cosa ci si dovrebbe battere il proprio petto!


HK: Nel documento citato della Chiesa evangelica sulla comunione viene dato rilievo al significato dei sinodi come ulteriore segno della realtà evangelica accanto all’ordinazione delle donne, e in particolare la guida della chiesa attraverso persone ordinate e non. Non può esserne fiera la chiesa evangelica nel delimitare la propria identità rispetto a quella cattolica?

Pesch: Certamente nella chiesa evangelica i sinodi non sono solo consultivi, ma sono anche istituzioni autorizzate a prendere delle decisioni. Ma pure un sinodo evangelico non potrebbe decidere su questioni di fede contro il ministero spirituale. Oltre a ciò si mostra sempre più nei dibattiti evangelici che per un mero risentimento anticattolico nella chiesa evangelica si è finito per ammettere che un ministero di guida della chiesa, che sta sopra le comunità, non solo serva a vantaggio della chiesa (ad bene esse), ma appartenga alla sua natura (ad esse) a causa della sua cattolicità. E non è così importante come si chiama: questo ministero ha in ogni caso le competenze dell’ordinazione e della sorveglianza dottrinale. Questo è precisamente quanto anche un vescovo cattolico fa. Il concilio Vaticano secondo ha descritto parimenti i compiti del vescovo e del prete: la guida della comunità attraverso l’annuncio del vangelo e l’amministrazione dei sacramenti e, seguendo questa successione, ciò è precisamente anche luterano. Non vedo perciò nessuna distinzione che divida le chiese nel modo di dire la funzione di guida all’interno della chiesa.


HK: Dietro il documento sulla comunione tra le chiese in prospettiva evangelica c’è il modello della Concordia di Leuenberg [(1973); Accordo tra le chiese della Riforma in Europa (luterane, riformate, unite, valdesi, dei Fratelli boemi), in Enchiridion Œcumenicum 2, Dehoniane, Bologna 1988, n. 319s.] firmando la quale le chiese riformate in Europa di comune accordo hanno accettato la comunione tra le chiese. Ora questa, secondo il modello “Leuenberg”, non è la stessa cosa dell’unità della chiesa secondo il punto di vista cattolico. Esiste un ponte tra le due concezioni?

Pesch: Leuenberg fu il primo tentativo delle chiese della Riforma di esaminare per una volta le vecchie – e rigidamente escludenti! – diversità tra le confessioni per vedere se fossero ancora di impedimento alla comunione delle chiese. E precisamente questo fu anche l’idea di modello secondo il quale noi nel Gruppo di lavoro ecumenico a suo tempo abbiamo steso il documento su “Condanne dottrinali - divisione delle chiese?” del 1985. Fece da guida la domanda se potevano rimanere le tradizioni che si erano sviluppate diventando anche vincolanti all’interno delle chiese e se, ciò malgrado, si poteva dare comunione con un’altra chiesa. Se si mette in evidenza che le diverse tradizioni riguardano solo lo sviluppo dottrinale, ma non il rapporto fondamentale tra fede e vangelo, allora diventa possibile ciò che in una fase successiva è stato indicato come “consenso differenziato”.


HK: Così “Leuenberg” potrebbe essere anche un concetto solido per l’ecumenismo evangelico-cattolico?

Pesch: Per me “Leuenberg” è come prima un modello secondo il quale – naturalmente con opportuni cambiamenti – è concepibile una comunione tra le chiese anche fra chiesa cattolica e chiese della Riforma. Ciò presupporrebbe ovviamente che in precedenza si sia chiarito il fatto che le differenze esistenti in nessun caso vadano “sino alle radici” per dirla con Giovanni Paolo II. La parte cattolica del dialogo deve inoltre rendersi anche conto che non può mai raggiungere un “consenso” a spese della Concordia di Leuenberg con i luterani e di fatto anche con i riformati. Se ciò viene garantito, allora potrebbe anche darsi qualcosa come un “consenso differenziato” a livello della istituzionalità ecclesiale: altrettanto poco si deve unificare tuttavia la prassi ministeriale, incluse le modalità previste per la nomina dei titolari del ministero, quanto la precisa formulazione della dottrina della giustificazione. La comunione delle chiese non può significare anche per la parte cattolica che tutto vada a finire in una chiesa uniforme, certamente non con un’ampia giurisdizione papale.


3. «Non ci si può far sconcertare dai contraccolpi»


HK: Al concilio Vaticano secondo la chiesa cattolica ha descritto ampiamente se stessa come chiesa ed è entrata contemporaneamente nel movimento ecumenico. Ora è in atto da un po’ di tempo un conflitto sul concilio, proprio come esiste sul suo cambiamento di posizione riguardo all’ecumene. Lo si è visto anche dalle Risposte [Risposte a quesiti circa la dottrina sulla Chiesa, in Il Regno - Documenti 15/2007, 468s.] della Congregazione per la dottrina della fede dello scorso anno…

Pesch: Le Risposte della Congregazione le classifico fiduciosamente nella categoria degli “incidenti di percorso”. Di fatto non contengono nulla di nuovo rispetto alla dichiarazione della medesima Congregazione Dominus Iesus del 2000 [Enchiridion Vaticanum 19, Dehoniane, Bologna 2004, nn. 1142 s.], così che il dibattito non è stato condotto. S tratta senza dubbio di un contraccolpo ecumenico come all’occasione ce ne sono anche da parte evangelica. Pensi ad esempio al documento della Chiesa evangelico-luterana unita di Germania (VELKD) “Chiamati propriamente secondo l’ordine” sull’ordinazione e gli incarichi legati a questa, che giustamente è stato massicciamente criticato anche dai teologi e dalle teologhe evangeliche. Non ci si può lasciar sconcertare da simili contraccolpi. È in ogni caso sbagliato parlare di una ritrattazione mirata del concilio.


HK: Ma i suoi documenti non si possono interpretare in un modo più aperto o in senso restrittivo?

Pesch: Il Decreto sull’ecumenismo fu un inizio. Prima di allora la chiesa cattolica aveva sempre respinto con forza il movimento ecumenico, fino alle motivazioni quasi offensive di una sua partecipazione negata da parte di papa Pio XI e gli stretti divieti ancora sotto papa Pio XII. Sarebbe pertanto vile comprendere il Decreto sull’ecumenismo come fosse un’ultima parola. L’esempio qui più rimarchevole a questo proposito è il malinteso dell’articolo 22, dove si parla del famigerato Ordinis defectus, la mancanza del sacramento dell’ordine (UR n. 567) presso le chiese della Riforma. L’espressione è parte di una frase avversativa con valenza limitativa, prima che venga descritta in modo ampiamente positivo la posizione evangelica sulla cena. Ma se si tralascia, come sempre avviene, la frase principale e si cita solo la subordinata, allora si ha tra le mani un giudizio che preclude il lavoro futuro partendo da una indicazione problematica. Le possibilità ecumeniche del concilio non sono assolutamente esaurite.


HK: Oggi l’ecumenismo tra la chiesa cattolica ed evangelica in Germania appare gravato soprattutto da differenze nelle questioni etiche. Un esempio di questo è la valutazione della ricerca con le cellule staminali dell’embrione, dove a tratti sono emerse contrapposizioni confessionali. Qui c’è un nuovo potenziale di rottura?

Pesch: Esistono senza dubbio attraverso le differenze sulle questioni etiche dei pesi per il dialogo ecumenico, ma non vedo nessuna vera minaccia. La trappola, in cui facilmente si può finire, consiste nel fatto che secondo la visione cattolica la ricerca della risposta giusta alle sfide etiche è identica alle questioni sul comandamento di Dio. Infatti chi consapevolmente fa una cosa sbagliata mette in pericolo allo stesso modo il rapporto con Dio. La controparte evangelica intuisce qui una ricaduta nella giustizia cattolica delle opere. In questo errore non si può finire.


HK: Come si potrebbe evitare questo?

Pesch: Mettendo subito in chiaro che per ogni accentuazione riformistica del sola fide, cioè la giustificazione “per la sola fede”, si pone successivamente in modo automatico la questione della volontà di Dio come conseguenza per l’esistenza cristiana. Per questo nel rapporto con le differenze etiche tra le confessioni difendo la calma e un lavoro impegnato solo sull’argomento specifico affrontando i difficili temi che ci stanno davanti. Ciò rende la materia così esplosiva da muoverci su terreni etici non sperimentati, dove non disponiamo di alcun vantaggio chiaro che derivi dalla tradizione. Non è poi una cosa sensazionale il fatto di non poter raggiungere subito un consenso di fronte a queste difficoltà e dimostra anche il fatto che i giudizi diversi spesso sono trasversali rispetto alle confessioni.


4. «La via per Wittenberg passa per Costantinopoli»


HK: Ciò non è forse un peso per la comune testimonianza delle chiese attesa dall’opinione pubblica?

Pesch: Se le chiese nelle questioni etiche controverse procedono argomentando in vario modo e a prima vista non sanno come dovrebbe essere una testimonianza comune, si fa subito chiaro il fatto che non sono a priori più sagge degli altri testimoni. Ed è una questione di onestà riconoscerlo. È problematico là dove si lavora con il reciproco sospetto, ad esempio accusando la chiesa evangelica di non prendere sul serio la protezione della vita – come direbbe la posizione evangelica sulla ricerca staminale o sull’interruzione della gravidanza. Ciò non significa che le argomentazioni di parte della teologia e della chiesa evangelica sarebbero in grado di far chiarezza sulla ricerca senza limiti intorno alle cellule staminali. Il problema è così serio e ha delle conseguenze tanto penetranti per la nostra idea dell’essere umano che c’è bisogno da tutte le parti della massima attenzione.


HK: Una comunione di chiese tra la chiesa cattolica e le chiese della Riforma oggi non è realisticamente visibile all’orizzonte. Per tale motivo si pone necessariamente la questione dei passi intermedi, proprio in rapporto alla cena o all’eucaristia. Che cosa sarebbe qui possibile o addirittura proibito?

Pesch: Mi augurerei che la chiesa cattolica come primo passo seguisse la decisione della chiesa evangelica e consentisse la reciproca ammissione dei cristiani e delle cristiane della chiesa sorella. Questo, si noti, non sarebbe ancora la comunione di mensa di una chiesa con l’altra, perché per la “grande soluzione” c’è bisogno di ulteriori chiarimenti e intese. Questa cosiddetta “comunione aperta” per i singoli sarebbe teologicamente legittima dopo tutto quello che è stato raggiunto nel dialogo ecumenico. Essa presuppone un’intesa della chiesa cattolica che riconosce nella cena evangelica celebrata secondo la sua istituzione la cena di Gesù Cristo, e viceversa. Quello che impedisce a Roma di compiere questo passo è in parte la considerazione dell’Ortodossia. Nel frattempo si potrebbe dare l’indicazione pastorale di partecipare alla cena celebrata nelle altre chiese nel segno di una certa “obbedienza precorritrice”, premesso il fatto che si è consapevoli del problema e non si sta agendo secondo il motto del “tutto va bene”.


HK: Attualmente c’è la speranza autorizzata nei progressi decisivi del dialogo cattolico-ortodosso che deve affrontare per prima cosa la pietra d’inciampo del primato. Cosa significa ciò per l’ecumenismo evangelico-cattolico?

Pesch: Io spero che con l’Ortodossia si proceda sul serio. Roma non può presumere che gli ortodossi riconoscano anche solo la forma più moderata del primato di giurisdizione e l’infallibile primato di dottrina del vescovo di Roma. In altre parole, se Roma ritiene possibile malgrado questo la comunione ecclesiale con le chiese ortodosse, significa che questa comunione può aversi anche se nelle chiesa partner non viene recepita la dottrina che per la chiesa di Roma ha il valore di un dogma solennemente proclamato. E poi anche sulla lunga distanza non si potranno evitare i passi corrispondenti verso le chiese riformate. Perciò affermo volentieri che nella questione del papato la via per Wittenberg passa per Costantinopoli.



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Note

1) [Letteralmente Ökumene der Profile. Il termine descrive la tendenza di tutte le chiese impegnate nel dialogo a sottolineare più di prima la loro identità].





© Herder Korrespondenz (Freiburg i. Br. 6/2008)
© 2008 by Teologi@Internet
Traduzione dal tedesco a cura della Redazione Queriniana
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)
Teologi@Internet: giornale telematico fondato da Rosino Gibellini