In occasione del 50° anniversario della indizione da parte di Giovanni XXIII del Concilio Vaticano II (1959-2009), il mensile Jesus ha lanciato una interessante collana, “Per leggere il Vaticano II”. La collana, coordinata dal redattore di Jesus, Marco Ronconi, si compone di agili volumetti (2009-2010), che propongono integralmente i principali documenti del Concilio Vaticano II, introdotti con la storia del dibattito conciliare, con la storia della recezione, e con medaglioni sui principali teologi conciliari. Proponiamo questo articolo apparso nel volumetto 3, “In principio era la parola. Introduzione alla DeiVerbum”, a cura di Stella Morra e Marco Ronconi. Il ventennio, che coincide nella chiesa cattolica con il pontificato di Giovanni XXIII (1958-1963) e di Paolo VI (1963-1978) e con la stagione del concilio e dell’immediato post-concilio, rappresenta un tempo di vivace e intensa attività teologica, dove, innanzitutto, vengono a maturazione i fermenti di rinnovamento maturati a partire dagli anni Trenta soprattutto nell’area di lingua francese e tedesca, ma si aprono, insieme, nuove prospettive, che risulteranno decisive per la teologia della seconda metà del XX secolo. Scrive Congar nella prefazione alla 2° edizione del 1968 di
Vera e falsa riforma nella Chiesa (un libro, la cui prima edizione cadeva male, essendo stato pubblicato nel novembre del 1950, solo pochi mesi dopo l’enciclica di Pio XII,
Humani Generis, del 12 agosto 1950, che sottoponeva a critica “le nuove tendenze che si agitavano nelle scienze sacre”): «Giovanni XXIII, in meno di qualche settimana, e in seguito il concilio hanno creato un clima ecclesiale nuovo. L’apertura maggiore è venuta dall’alto. Di colpo, delle forze di rinnovamento che stentavano a manifestarsi apertamente potevano svilupparsi»
(1). Nei decenni precedenti, superata la crisi modernista, il dibattito teologico cattolico si era focalizzato su due fronti: il fronte neoscolastico, attestato su una linea difensiva, secondo la quale la teologia scolastica costituisce «lo statuto veramente
scientifico del pensiero cristiano» (M. Labourdette), e un fronte variegato, che esprimeva una «teologia del rinnovamento» (L. Charlier), ma che i neoscolastici squalificavano come “nouvelle théologie”, e che era sostenuta da due idee-guida: il ritorno alle fonti bibliche, patristiche, spirituali e liturgiche, e un rapporto di dialogo, e non di contrapposizione, con il pensiero e con la cultura moderna.
1. Il rinnovamento della trattatistica teologica nella prospettiva della storia della salvezzaQuesti fermenti avevano portato a maturare un progetto di ristrutturazione dei trattati teologici nell’opera
Mysterium Salutis, che ha come sottotitolo
Nuovo corso di dogmatica come teologia della storia della salvezza, che, progettata negli anni 1958-1959, sotto la guida dei teologi svizzeri Johannes Feiner e Magnus Löhrer, impegnò nella sua realizzazione soprattutto i principali rappresentanti della teologia cattolica di lingua tedesca – da K. Rahner a H.U. von Balthasar –, e fu realizzata nel giro di un decennio, dal 1965 al 1976 in fitti 5 volumi (e in 7 tomi), nell’edizione originale tedesca, cui seguirono numerose traduzioni.
Mysterium Salutis rispondeva ad una precisa istanza di rinnovamento della trattatistica teologica, che aveva trovato espressione in un celebre articolo di Karl Rahner, con il quale egli apriva la serie dei suoi
Scritti teologici nel 1954, e nel quale proponeva lo
Schema di una Dogmatica (che aveva discusso con von Balthasar). Scriveva Rahner in quell’articolo, che sta alle origini del progetto di
Mysterium Salutis: «La dogmatica è uno sforzo dell’intelligenza e una scienza che devono servire al proprio tempo [...] perché devono servire alla salvezza e non alla curiosità teoretica»
(2). Ogni teologia deve così essere essenziale ed esistenziale: essenziale, in quanto opera di pensiero; esistenziale, in quanto rapportata alla vita umana. La nuova impostazione di
Mysterium Salutis – nella quale veniva a maturazione un lungo processo di ricerca e di rinnovamento della teologia cattolica perseguito a partire dagli anni Trenta – può essere così caratterizzata:
a) una teologia
biblica, che ricupera i risultati del lavoro esegetico e della scienza biblica, in modo da superare la divaricazione tra esegesi e dogmatica;
b) una teologia
storica, che integra i dati della ricerca storica in sede di studi patristici e di storia dei dogmi, e che non si limita pertanto ad utilizzare un semplice florilegio patristico nell’argomento
ex Patribus, e che supera la cosiddetta “teologia alla
Denzinger” (Y. Congar) nella citazione dei documenti del magistero, nella consapevolezza dello sviluppo e della storia delle dottrine;
c) ed infine, una teologia
sistematica, che approfondisce i temi teologici nell’orizzonte della storia della salvezza, e che non privilegia solo le categorie di una scuola filosofica, ma utilizza invece una vasta gamma di categorie teoretiche (personaliste, attualiste, ontologiche) nel compito di attualizzare il messaggio cristiano e di renderlo significativo e rilevante per la vita dell’uomo.
Mysterium Salutis ha concretamente segnato la via del rinnovamento della teologia-di-scuola nella prospettiva della storia della salvezza e nell’orientamento alla prassi ecclesiale, che in vari modi sarà intrapresa da altre iniziative culturali ed editoriali. Bisogna attendere gli anni Ottanta e Novanta del XX secolo per registrare un’altra ondata di
Manuali, dove, in quelli meglio eseguiti e non semplicemente ripetitivi (come solitamente avviene in questo genere di letteratura teologica), entreranno le nuove istanze ermeneutiche e culturali emerse nei primi decenni del post-concilio.
2. La chiesa sotto la Parola di DioIl teologo italo-tedesco Romano Guardini usciva nel 1920, davanti ad un uditorio giovanile, in quella espressione diagnostica del clima spirituale del secolo, ripresa poi in apertura di un suo libro molto letto,
Il senso della Chiesa (1922): «Un processo di incalcolabile portata è iniziato: il risveglio della Chiesa nelle anime»
(3). La Chiesa nel suo essere
ad intra e nel suo rapportarsi
ad extra sarà il tema del concilio ecumenico Vaticano II, annunciato a sorpresa da Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959, e celebrato in 4 sessioni dall’11 ottobre 1962 all’8 dicembre 1965.
Il Concilio Vaticano II, che è stato l’unico concilio che abbia concentrato la sua attenzione sulla chiesa, ha finito per operare una sorta di «relativizzazione» della chiesa stessa
(4). Nei documenti conciliari, infatti, la chiesa non è vista come grandezza a sé stante, ma è rimandata sia al Cristo, da cui riceve essere e struttura, sia al mondo, nel quale è inviata come segno e strumento di salvezza. Si tratta di una
relativizzazione, che ha posto più espressamente la chiesa
in relazione sia con la sua origine, sia con la sua missione nel mondo. Da questa de-centrazione operata dal concilio derivano rilevanti risultati: centralità della parola di Dio, una mobilitazione di tutte le componenti della comunità ecclesiale sia a livello di direzione della chiesa con la collegialità episcopale sia a livello di laici che sono chiamati ad assumere le loro responsabilità, un senso più acuto della missione in termini di servizio, un rapporto non più antagonistico ma di solidarietà con il mondo nel quale si trova ad operare, un rapporto di dialogo e di attiva ricerca dell’unità con le altre comunità cristiane, un rapporto di dialogo e di collaborazione con le grandi tradizioni religiose dell’umanità.
Il cantiere dell’ecclesiologia lavora a pieno ritmo. Tra le più note trattazioni ecclesiologiche post-conciliari, condotte sul filo dei documenti e della teologia del concilio, si deve ricordare l’opera del teologo belga Gérard Philips,
La Chiesa e il suo mistero, (1967); la raccolta di saggi ecclesiologici del teologo tedesco Joseph Ratzinger,
Il nuovo popolo di Dio (1969). La trattazione ecclesiologica si apre anche alla teologia ecumenica con
La Chiesa di Hans Küng (1967), e alla complessa problematica dei rapporti tra chiesa e mondo con
Sulla teologia del mondo di Johann Baptist Metz (1968).
Nel saggio sintetico
Si può definire la Chiesa? (1961) – scritto alla vigilia del concilio e inserito successivamente in apertura alla raccolta di saggi ecclesiologici
Santa Chiesa (1963) – l’ecclesiologo francese Yves Congar si interroga sul concetto più appropriato per definire la chiesa e per costruirne la teologia. Egli individua quattro nozioni, che non permettono tanto di definire nel senso della logica formale, quanto piuttosto di descrivere la realtà e il mistero della chiesa: la categoria di
popolo di Dio, che sarà ripresa nella costituzione conciliare
Lumen gentium (1964); la categoria di
corpo di Cristo, riscoperta nel decennio 1925-1935 e che è stata recepita nell’enciclica ecclesiologica di Pio XII,
Mystici Corporis Christi (1943); la categoria di
società, che veniva derivata dalla filosofia con il correttivo di «società soprannaturale» e che ha conosciuto un largo impiego nell’ecclesiologia post-tridentina, sia in funzione antiprotestante, sia in funzione antirazionalista; la categoria di
comunione<, riscoperta nel secolo scorso, anche se con scarso influsso, dal teologo tedesco laico Friedrich Pilgram nell’opera Fisiologia della Chiesa (1860), dove la chiesa è vista come una koinonía in forma di politéia, una «comunione» in forma di «società». Nell’articolo del 1961 Congar proponeva una sintesi tra le due categorie di «popolo di Dio» e di «corpo di Cristo», mentre riteneva non viabile una definizione della chiesa focalizzata sulla categoria post-tridentina di «società»: «Se “Popolo di Dio” esprimeva l’idea di una moltitudine sulla quale regna Dio, “Corpo di Cristo” esprime quella di numerose membra dirette da un capo, Gesù Cristo, dall’interno per mezzo di un’influenza vitale, e dall’esterno per mezzo di un’azione che si serve di forme visibili. Vi è un valore essenziale che di per se stesso il concetto di “società” non esprime»(5).
La categoria centrale dell’ecclesiologia di Congar è quella di «popolo di Dio». Ma l’ecclesiologo francese è pure consapevole dei limiti della categoria di popolo di Dio, che deve essere completata con quella di corpo di Cristo: «Sotto la nuova alleanza, quella delle promesse realizzate dall’incarnazione del Figlio e dal dono dello Spirito, il popolo di Dio riceve uno statuto che non si può esprimere se non nella categoria del corpo di Cristo»(6).
Il dibattito dei decenni seguenti, soprattutto a partire dal Sinodo straordinario dei vescovi del 1985 in occasione del 20° anniversario della conclusione del concilio sul tema «La chiesa – sotto la parola di Dio»(7), evidenzia la categoria di «comunione» per descrivere la chiesa. Scrive Walter Kasper, segretario generale del Sinodo con il quale si conclude idealmente il post-concilio (1965-1985), nelle sue Memorie (2008): «Mi convinsi [...] che l’idea di fondo del concilio era la communio (comunione) e la concezione della chiesa come communio. Spesso nel dibattito postconciliare l’immagine del «popolo di Dio» va svincolata dal suo rapporto con il contesto della storia della salvezza; essa non era più intesa nel senso del greco laos (popolo di Dio), ma fatta derivare dal greco demos (popolo). Da qui ad intendere la chiesa come una sorta di democrazia il passo era breve. Il concetto di communio (koinonia) riassume in sé anche le giuste preoccupazioni dell’ecclesiologia del popolo di Dio, ma sottolinea che la chiesa riceve la sua vita non “dal basso”, ma “dall’alto”. Non dal popolo e nemmeno dalla gerarchia, ma dalla parola di Dio e dai sacramenti, soprattutto dall’eucaristia»(8).
In breve. Nei suoi 16 documenti il concilio ha operato una svolta dottrinale e pastorale, da una chiesa che si autodefiniva con i termini giuridico-sociali di società gerarchicamente strutturata, ad una chiesa che, più biblicamente, si autocomprende come popolo di Dio e come comunione. Per l’ecclesiologia di comunione ogni membro è discepolo del Cristo, soggetto davanti a Dio, testimone del vangelo. Il concilio della chiesa sulla chiesa ha posto la chiesa più strettamente in relazione con la sua origine, che è la Parola di Dio, e con la sua missione di evangelizzazione e di solidarietà con «le gioie e le speranze, i lutti e le angosce» dell’umanità. Ne è uscita una chiesa, più evangelica, più dialogica e più solidale. Ma Rahner osservava: «Certo che passerà molto tempo fino a quando la chiesa, che ha ricevuto da Dio la grazia del Concilio Vaticano II, sia la chiesa del Concilio Vaticano»(9).
3. Il metodo della correlazione tra Parola di Dio e esperienza umana
Il metodo della teologia neoscolastica – in auge prima del concilio – aveva i suoi punti deboli, a) nel deduttivismo, che aveva portato la teologia ad essere una teologia delle conclusioni: conclusioni speculative, a-storiche e a-temporali; b) e nel positivismo magisteriale, che aveva portato la teologia ad essere un commento al Denzinger, la raccolta dei testi dei documenti dottrinali del magistero, senza attingere immediatamente alle fonti originarie della Scrittura e della Tradizione.
Durante il concilio appare la raccolta dei principali interventi e scritti dottrinali, che il teologo francese Marie-Dominique Chenu era andato pubblicando in circa quarant’anni di militanza teologica e pastorale. L’opera, che reca il titolo generale La parola di Dio (1964), si articola in due volumi: il primo, La fede nell’intelligenza; il secondo, Il Vangelo nel tempo; ed esprimono entrambi, nel parallelismo del loro titolo, la legge dell’incarnazione della Parola di Dio sia nello spirito dell’uomo, sia nello svolgimento della storia. Se la fede è «una vera incarnazione della luce divina nel mio spirito»(10), la teologia è «la fede in statu scientiae», essa «emana dalla fede», e «non è altro che la fede solidale con il tempo»(11).
Il discorso di Gesù non fa appello alla teologia, ma chiama alla conversione (metánoia) e alla sequela; anche l’annuncio della chiesa chiama alla fede e alla prassi del regno. Da questo semplice rilievo risulta che la teologia non svolge nella chiesa cristiana un ruolo primario, ma solo secondario: prima viene la fede e la confessione della fede, poi segue (si tratta di una sequenza strutturale, non necessariamente cronologica) la teologia come intelligenza della fede (intellectus fidei), come pensiero della fede (cogitatio fidei). La fede non è la teologia, ma non è senza teologia, in quanto la fede ha bisogno della teologia per comunicare. Nei termini della teologia contemporanea si può dire che la fede (e la spiritualità e la pratica che ne derivano) costituiscono l’atto primo, la teologia costituisce l’atto secondo. Ma è un atto ineludibile e necessario, in quanto la fede si fa annuncio e l’annuncio cristiano deve comprendersi e far comprendere, argomentare e convincere, difendersi e confrontarsi, per diffondersi «fino agli estremi confini della terra» (Atti 1,8). È l’universalismo della destinazione del Vangelo che ha indotto e induce la comunità cristiana all’attività teologica: «La teologia è lo strumentario razionale di una religione universale in stato di missione»(12).
Il metodo teologico, che è andato imponendosi sul metodo neoscolastico, caratterizzato dal deduttivismo, è il metodo della correlazione. La riflessione teologica si svolge tra due poli: la verità del messaggio cristiano, e l’interpretazione di questa verità che deve tenere conto dell’ «uditore della Parola» (Rahner), e della «situazione culturale» (Tillich), in cui si trova il destinatario del messaggio stesso.
Per ottenere questo la teologia deve costantemente porre in correlazione la risposta della fede con la domanda umana, che scaturisce dall’esperienza. E questa correlazione la si ottiene, se la domanda umana è configurabile come domanda di senso sulla realtà e sull’esistenza, a cui seguono risposte umane che tentano di articolare un senso, ma che riceve solo dalla risposta cristiana una sovrabbondanza di senso, un senso ultimo e definitivo. La risposta cristiana è, allora, la risposta risolutiva al cercare umano, che si articola in domanda radicale e in risposte parziali. Alla domanda radicale sulla realtà risponde in modo radicale solo la fede, ma la risposta cristiana non cade perpendicolarmente dall’alto, ma si inserisce in un contesto di esperienze in cui acquista senso, donando sovrabbondanza di senso. E questa sovrabbondanza di senso deve dar prova di sé non solo nella teoria, ma deve scendere anche sul terreno della prassi. In questo senso si parla di «ermeneutica dell’esperienza e della prassi».
La teologia che pratica il metodo della correlazione non cerca la contrapposizione e lo scontro con la cultura secolare, ma si fa partecipe della ricerca umana, si rende attenta ai molteplici progetti antropologici, che va elaborando la cultura secolare, i quali, pur nella loro frammentazione, si rivelano come tematizzazione di un’esperienza universale di ricerca di senso, che rimanda ad un orizzonte di pienezza di umanità, che è l’orizzonte della fede(13).
4. Teologia ermeneutica
Ermeneutica (dal greco hermenéia = interpretazione) designa l’arte, la tecnica dell’interpretare (ars interpretandi) e le connesse regole (regulae interpretandi), che fanno da guida all’arte dell’interpretare i testi classici (ermeneutica letteraria), i testi biblici (ermeneutica biblica), i canoni e i testi legislativi (ermeneutica giuridica). Il termine greco «ermeneutica» entra piuttosto tardi, nel Sei-Settecento, a sostituire quello latino di interpretatio, ma la teoria patristica del senso letterale e del senso allegorico della Scrittura, la teoria medioevale dei quattro sensi della Scrittura, la teoria della Riforma della Scriptura sui ipsius interpres (la Scrittura è l’interprete di se stessa) sono vere e proprie teorie ermeneutiche. In campo biblico si va allora affermando la distinzione tra esegesi ed ermeneutica, anche se i due termini semanticamente si equivalgono; per esegesi si intende la prassi dell’interpretazione, l’interpretazione pratica di un testo biblico; per ermeneutica s’intende invece la teoria, l’insieme delle regole che presiedono all’interpretazione del testo biblico: ermeneutica come teoria dell’esegesi. L’ermeneutica era pertanto considerata solo una branca, piuttosto limitata, del sapere teologico; con la nuova ermeneutica essa diventerà una dimensione dell’intero lavoro teologico.
Per il filosofo francese Paul Ricoeur, «c’è sempre stato un problema ermeneutico nel cristianesimo». La prima radice del problema ermeneutico nel cristianesimo è che la parola originaria viene a noi attraverso gli scritti, che devono essere tradotti continuamente in parola vivente. La seconda radice è «l’idea, secondo la quale l’interpretazione del Libro e l’interpretazione della vita si corrispondono». La terza radice è la distanza crescente tra il Libro e noi interpreti nell’era della Modernità, ma la distanza della Modernità svela la distanza originaria, già sempre esistita, tra l’uditore dell’evento fondativo e della predicazione originaria, «secondo la quale, in Gesù Cristo, il regno si è avvicinato a noi in modo decisivo»(14). In sintesi: i testi necessitano di una ri-lettura, capace di interpretare la nostra vita, anche nella distanza di noi moderni dall’evento originario e fondativo.
Rimane esemplare nella teologia del XX secolo il dibattito ermeneutico tra Barth e Bultmann. Barth e Bultmann sono d’accordo nel superare l’interpretazione storicista della Bibbia, dove va perduto il carattere rivelativo del testo biblico (la Bibbia come sacra Scrittura, come parola di Dio), ma differiscono nella interpretazione della parola biblica. L’ermeneutica di Barth – secondo la definizione di Eberhard Jüngel – è una ermeneutica della rivelazione e non una ermeneutica della significazione; l’ermeneutica di Bultmann è una ermeneutica che interroga il testo biblico, perché sveli la sua significazione per l’esistenza umana. L’ermeneutica di Barth è, così, una ermeneutica teologica; l’ermeneutica di Bultmann è una ermeneutica esistenziale in dialogo con l’analitica esistenziale del primo Heidegger.
La nuova ermeneutica (la parola si diffonde a partire dal 1959) è l’ermeneutica praticata dai teologi evangelici Fuchs ed Ebeling, che si costituisce in dialogo con la filosofia del linguaggio del secondo Heidegger. Per Fuchs, il cristianesimo delle origini dev’essere compreso soprattutto come un fenomeno linguistico: nasce il testo del Nuovo Testamento e, con esso, nasce un nuovo linguaggio, in cui viene ad espressione una nuova comprensione dell’esistenza. Il testo del Nuovo Testamento rappresenta quindi per noi un guadagno linguistico: ci fa apprendere un nuovo linguaggio, il linguaggio della fede, che è il linguaggio dell’amore e ci insegna così a risolvere il problema ermeneutico della nostra vita quotidiana: come capirci, che cosa fare, come scoprire la verità della nostra esistenza sfidata dalla morte. Ebeling si pone la domanda: Teologia ermeneutica? La teologia parla di Dio, ma ne parla sempre in modo responsabile? In fondo, questo è il senso del termine «ermeneutico»: «”Ermeneutico” è ciò che sollecita ed aiuta a percepire la responsabilità della parola»(15). Con riferimento alla formula anselmiana che Dio è la realtà della quale non se ne può pensare una più grande (quo maius cogitari nequit), Ebeling presenta la teologia ermeneutica come un parlare di Dio, che sia il più rigoroso e il più esigente possibile. Esigere il massimo di rigore e di responsabilità, quando si parla di Dio: è questo il compito di una teologia ermeneutica.
La teologia ermeneutica ha agito anche sulla teologia cattolica. Le nuove impostazioni ermeneutiche, filosofiche e teologiche, sono criticamente recepite nella teologia biblica cattolica di lingua tedesca, a partire dall’apertura culturale ed ecumenica determinata dal Concilio vaticano II, in particolare dai biblisti Rudolf Schackenburg e da Heinrich Schlier.
Ma la nuova istanza ermeneutica entra anche in teologia sistematica nell’immediato post-concilio. Il teologo di lingua fiamminga Edward Schillebeeckx esprimeva la convinzione nelle sue conferenze americane del 1967 che la teologia cattolica mancasse di una ermeneutica(16). Ciò che era operante nella teologia cattolica, come equivalente ad una teoria ermeneutica, era la teoria dell’evoluzione del dogma, che permette di spiegare il persistere dell’identica verità dogmatica nelle riespressioni della fede in un mutato contesto culturale come sviluppo legittimo e omogeneo dall’implicito all’esplicito. Ma la teoria dell’evoluzione del dogma mirava a risolvere, sul piano storico-dottrinale, il problema del rapporto tra Scrittura e Tradizione, e tra storia e dogma. La teoria ermeneutica, invece, pone il problema della intelligibilità dei testi della rivelazione, della attualizzazione e della rilevanza esperienziale delle formule della fede in un mutato orizzonte culturale. Uno dei fattori maggiori, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, sarà il passaggio, sia in campo cattolico (Metz, Schillebeeckx, Gutiérrez), sia in campo evangelico (Moltmann), da una ermeneutica esistenziale o personalista, dove la teologia si costituisce come teoria dell’esistenza cristiana come esistenza autentica, ad un’ermeneutica sociale e politica del vangelo e del fatto cristiano, dove la teologia riflette nel più ampio contesto della storia del mondo e si costituisce come teoria di una prassi critica e liberatrice.
5. Dislocazioni: la svolta planetaria della teologia
Negli anni 1976-1977 si sono tenuti tre colloqui teologici, a Parigi, Lione e Strasburgo, sul tema delle dislocazioni (déplacements), che stavano avvenendo in teologia(17). È un segno della percezione da parte degli stessi teologi dei cambiamenti che si attuavano in teologia: non soltanto si è verificato, in generale, il passaggio da una teologia neo-scolastica, ben definita nei suoi tesari, ad una “teologia del rinnovamento”, più fedele alle fonti e in dialogo con i problemi del proprio tempo, ma si sono verificate anche delle dislocazioni nei soggetti, nei luoghi e negli interessi del discorso teologico. Dislocazioni nei soggetti, con l’ingresso dei laici, delle donne, delle giovani chiese come agenti di produzione del sapere teologico; dislocazione nei luoghi, con l’aprirsi di nuovi centri di elaborazione teologica al di là dei confini dell’Occidente cristiano (come San Paolo e Petrópolis in Brasile, Lima in Perù, Città del Messico e San Salvador in America Centrale, Kinshasa e Nairobi in Africa, Bangalore e Manila in Asia); dislocazione negli interessi, con l’iscrizione sull’agenda teologica di tematiche, che vanno oltre la sfida della secolarizzazione, con la quale si confronta la più attenta e creativa teologia europea e nordatlantica, e precisamente la liberazione in America Latina, l’inculturazione in Africa, il dialogo inter-religioso in Asia. Ma le dislocazioni avvenute nei soggetti, nei luoghi e negli interessi, non comportano una dislocazione nel tema proprio della teologia cristiana, che è la Parola di Dio che in Cristo si fa presente nella storia umana, bensì una sua concretizzazione storica.
In uno dei saggi di Karl Rahner, raccolti nel vol. 14 degli Scritti teologici, che reca il titolo generale Sollecitudine per la Chiesa (1980), si sostiene la tesi – che sarà ulteriormente sviluppata da Johann Baptist Metz – secondo la quale «nel concilio la chiesa ha cominciato ad agire dottrinalmente come chiesa mondiale almeno in misura germinale. Sotto il fenotipo di una chiesa ancora in larga misura europea e nordatlantica, se così possiamo dire, comincia a farsi notare il genotipo di una chiesa mondiale autentica»(18).
Vorrei anche ricordare il grande discorso di Yves Congar, tenuto a Strasburgo (la città che lo aveva accolto negli anni dell’esilio) in occasione del 20° anniversario dell’indizione del concilio, nel gennaio 1979, in cui affermava che il Vaticano II aveva operato «una sorta di decentramento dell’Urbs sull’Orbis, della Città sul Mondo, per il fatto che l’Orbis prendeva possesso dell’Urbs»(19). Il concilio, con il suo appello alla Parola di Dio, ha dilatato il cuore della chiesa, che ha preso atto più profondamente della sua cattolicità e universalità(20).
Note
1. Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa (1950, 19682), Jaca Book, Milano 1972, 10.
2. Cf. K. Rahner, Saggio di uno Schema di dogmatica, in Saggi teologici, Edizioni Paoline, Roma 1965, 51-111; in particolare, 53-54, 75-77.
3. R. Guardini, Il senso della Chiesa (1922), ora in La realtà della Chiesa, Morcelliana, Brescia 1967, 21.
4. Cf. J. Thomas, Le Concile Vatican II, Cerf, Paris 1989.
5. Y. Congar, Si può definire la Chiesa? (1961), in Santa Chiesa. Saggi ecclesiologici (1963), Morcelliana, Brescia 1967, 38-39.
6. Cf. Y. Congar, La Chiesa come popolo di Dio (1965), in Ecco la Chiesa che amo! (1968), Queriniana, Brescia 1969, 39.
27. Cf. W. Kasper, Il futuro dalla forza del Concilio (1986), Queriniana, Brescia 1986.
8. W. Kasper, Al cuore della fede. Le tappe di una vita (2008), San Paolo, Cinisello Balsamo/Milano 2009, 89.
9. Cf. S. Madrigal, Karl Rahner y Joseph Ratzinger. Tras las huellas del Concilio, Sal Terrae, Santander 2006.
10. M.-D. Chenu, La foi dans l’intelligence, Cerf, Paris 1964, 19.
11. M.-D. Chenu, La foi dans l’intelligence, 245, 250, 251.
12. P. Eicher, Theologie. Eine Einführung in das Studium, Kösel, München 1980, 74.
13. Cf. E. Schillebeeckx, Esperienza umana e fede in Gesù Cristo (1979), Queriniana, Brescia 1985.
14. P. Ricoeur, Prefazione a Bultmann (1968), in Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977, 393-413; qui: 393.
15. G. Ebeling, Hermeneutische Theologie?, in Wort und Glaube 2, Mohr, Tübingen 1969, 106.
16. Cf. E. Schillebeeckx, Dio il futuro dell’uomo (1968), Paoline, Roma 1970.
17. Cf. il fascicolo di Concilium 5/1978.
18. K. Rahner, Sollecitudine per la Chiesa (1980), (Schriften zur Theologie XIV), in Nuovi Saggi VIII, Roma 1982, 351.
19. Y. Congar, Le Concile de Vatican II, Beauchesne, Paris 1984, 54.
20. Per un contesto più ampio cfr. R. Gibellini, La teologia del XX secolo, Brescia 1992, 20076 (aum.).
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