Da diversi mesi una commissione vaticana sta trattando con i lefebrviani tradizionalisti sulle possibilità di accordo e di unificazione – tutto questo, però, senza pubblicità. Può sì accadere che, con retta intenzione, si debbano intraprendere tentativi riservati di riconciliazione, senza troppe interferenze dall’esterno. Tuttavia, ciò che sorprende è che proprio coloro che rifiutano le conquiste del concilio Vaticano II in ambiti fondamentali tentino, con incessante fuoco di disturbo, di rendere “negoziabile” il loro modo di pensare e di influenzare così i dialoghi teologici. D’altra parte, stupisce che la teologia attuale e i suoi teologi per lo più tacciano. Da questo fronte, stranamente, non si fa proprio nessuna pressione, sebbene da un anno a questa parte sia stato enorme a livello mondiale il disgusto per la revoca incondizionata, da parte del papa, della scomunica dei vescovi della fraternità san Pio X. Perché le capacità intellettuali della scienza teologica sono al momento così mute, mentre nella delegazione vaticana, a quanto sembra, la recente moderna teologia non è rappresentata? Dov’è propriamente il difensore teologico del popolo di Dio, colui che con coraggio rappresenta energicamente la maggioranza contro sparuti gruppi settari?
Non si tratta soltanto di venir incontro a minuscole frazioni di tradizionalisti all’interno del popolo di Dio. Si tratta dell’intero corso della chiesa, di una tendenza crescente a reinterpretare in senso restauratore l’ultimo concilio, proprio richiamandosi allo stesso concilio. Ora, però, un teologo, apprezzato anche nella società secolare, ha osato rompere questo strano silenzio: Eberhard Schockenhoff, di Friburgo, un teologo morale molto prudente, al quale nessuno può seriamente rimproverare di essere ‘critico’ nei confronti della chiesa o di essere un ‘progressista’. Nell’edizione di aprile di Stimmen der Zeit ha pubblicato un saggio sui recenti tentativi magisteriali di interpretazione dell’ultimo concilio, che la dice lunga. Sui dialoghi con la fraternità san Pio X egli afferma: «Dove si tratta della fede della chiesa e della sua testimonianza pubblica, non è richiesta la diplomazia segreta, ma la trasparenza maggiore possibile. Sulla interpretazione autentica del concilio non si può trattare dietro porte chiuse, ma soltanto con la partecipazione di un largo pubblico ecclesiale». Ma qual è propriamente l’oggetto delle trattative, magari per essere eliminato, quali affermazioni del concilio rischiano di essere dolcemente liquidate o addirittura stravolte, di modo che coloro che rifiutano il concilio in punti essenziali possano spacciarsi dialetticamente come vincitori?
Libertà di coscienza e di religione
Schockenhoff mostra perché non sono affatto esagerati i timori che si faccia diventare il concilio Vaticano II qualcosa che esso non è stato. Ci sono tentativi di indebolirlo, tendenze a fiaccare non solo il suo ‘spirito’ progressista, che in alcuni luoghi è già contestato, ma anche il suo effettivo senso letterale, le sue reali intenzioni. Ad esempio, nella dichiarazione sulla libertà di coscienza e sulla libertà religiosa. Qui - così sostiene Schockenhoff nella sua acuta analisi - l’ultimo concilio ha assunto una prospettiva completamente nuova rispetto alla precedente opinione del magistero ecclesiale. Infatti, nella tradizione non era riconosciuto un diritto all’errore, ma soltanto un diritto alla verità. Il decisivo cambiamento di prospettiva del concilio è stato di aver scoperto il “diritto della persona”, come lo chiamò il costituzionalista Ernst Wolfgang Böckenförde.
Joseph Ratzinger, però, sostiene qui anche da papa una concezione platonica. Secondo tale visione la coscienza di ciascun individuo umano è guidata da una specie di coscienza originaria a lui interna, che lo rende capace di riconoscere la verità attraverso la reminiscenza. La verità è una specie di modello archetipo, qualcosa come una idea originaria già data, stabilmente e validamente, in antecedenza, insieme con l’essere. L’uomo, in realtà, non può fare altro che accogliere, tramite il ricordo, ciò che già c’è: il prodotto verità già pronto. Nel mondo rappresentativo platonico-agostiniano, che – così si esprime Schockenhoff - «prende forma dalla anamnesi del Creatore nello spirito umano, ad ogni essere umano può essere concessa libertà di coscienza e di religione perché egli comunque già di per sé, sulla base di una interiore tendenza ontica della sua natura, è orientato alla verità che incontra nel vangelo e nel magistero della chiesa. Agli uomini che cercano e adorano Dio in altre religioni al di fuori del cristianesimo la chiesa può perciò concedere libertà religiosa soltanto perché essa crede di comprendere questi uomini meglio di quanto essi possano comprender se stessi e nel messaggio del cristianesimo annuncia loro la verità di cui essi segretamente già sono in attesa». In modo analogo si espresse il papa nella sua interpretazione, che suscitò indignazione, secondo la quale la popolazione sudamericana originaria non ha propriamente atteso altro che conoscere Cristo. Tutto ciò che gli uomini credono, pensano e ritengono di conoscere al di fuori del cristianesimo, può essere da questo punto di vista considerato soltanto come deficitario, come umbratile.
Questa prospettiva, però, non è stata fatta propria dall’ultimo concilio, come spiega Schockenhoff. Il concilio comprende la libertà di coscienza e di religione piuttosto «come un diritto, che scaturisce direttamente dalla dignità che spetta ad ogni essere umano e che dalla chiesa viene riconosciuto incondizionatamente, senza che essa cerchi in qualche modo di giudicarne la via di ricerca della verità a partire dalla pretesa di verità della propria fede… La dichiarazione conciliare riconosce… la libertà di religione come un diritto umano che è ancorato nel comune punto di partenza, che unisce le religioni e tutti gli uomini tra di loro: ossia nello sforzo libero, responsabile, anche sempre esposto all’errore, di tendere alla verità». A questo proposito va rigorosamente mantenuto fermo, benché la concezione platonica – come Schockenhoff ammette – possa all’interno del cristianesimo assolutamente integrare e in tal senso arricchire la religiosità personale, che tutti gli uomini sono in qualche modo chiamati a Cristo come verità.
Il cambiamento di prospettiva del concilio ha un’importanza pubblica e sociale nel mondo plurale: «Secondo la dottrina tradizionale soltanto la verità o la vera religione rivelata del cristianesimo (cattolico) poteva pretendere riconoscimento giuridico, mentre alle altre comunità religiose si doveva in ogni caso dimostrare tolleranza civile per amore della pace interna ad uno stato. Ora, invece, il concilio attribuisce alla persona umana un diritto alla libertà religiosa fondato nella sua dignità. Questo diritto non protegge più soltanto la verità riconosciuta della fede, sulla quale questa fede giudica a partire dalla prospettiva interna, ma il cammino verso la verità che ogni uomo, in base alla sua dignità di persona, deve compiere sentendosi personalmente responsabile davanti alla propria coscienza».
Con ciò il concilio va contro un radicato atteggiamento di diffidenza, presente nel magistero ecclesiastico, secondo cui la cultura moderna e postmoderna non ha interesse alcuno per la verità. Nella rivista Zur Debatte, dell’Accademia cattolica di Baviera (1/2010), il teologo Karlheinz Ruhstorfer, che insegna a Landau, richiama l’attenzione sul fatto che il pluralismo del nostro tempo non inclina proprio al relativismo di un “va bene tutto”, come spesso si suppone. «I pensatori postmoderni sono piuttosto sempre preoccupati della verità, ma essi vogliono prendere sul serio la particolarità dei molti e la possibilità dell’altro. Entra così in gioco… lo spazio intermedio. La verità si fa evento tra Dio e uomo, tra uomo e uomo, tra idea e fenomeno. La verità assoluta è per gli uomini - in cammino - impossibile da possedere. E tuttavia l’uomo resta qui determinato dalla relazione con o dal riferimento all’assoluto, che rimane impossibile».
Riconoscono i lefebvriani questa prospettiva, oppure no? Questo è il problema. E il Vaticano continua a riconoscere come pienamente valido il cambiamento conciliare di prospettiva? Con questo sta e cade anche il concilio Vaticano II. Non si tratta dunque di inezie, quando al presente si discute e si decide con i tradizionalisti.
Caso problematico: “Dominus Jesus”
La preoccupazione per una interpretazione deviante del concilio anche per questo non è ingiustificata, poiché, come documenta Schockenhoff, ci sono già stati massicci interventi del genere, per esempio con il documento Dominus Jesus, del 2000. Esso ha provocato grande turbamento, in quanto ha rifiutato alle chiese evangeliche la qualifica di chiesa di Gesù Cristo in senso proprio. In sostanza è qui in causa la formulazione “subsistit in”, quale si trova nella costituzione dogmatica sulla chiesa, Lumen gentium. Secondo questo documento l’unica chiesa di Gesù Cristo ‘sussiste’ nella chiesa cattolica. Non è facile tradurre questo subsistit. Esso significa, in una certa indeterminatezza così voluta proprio dai padri conciliari, all’incirca: la chiesa di Gesù Cristo ‘esiste’ o ‘è realizzata’ nella chiesa cattolica. Questa formulazione, presuntamente elastica, fu però scelta non per sciatteria, ma consapevolmente: al posto del precedente ‘est’ (= è) . Come dimostra il corso del dibattito conciliare, non si voleva più confermare la identificazione totale di un tempo, secondo cui la chiesa di Gesù Cristo ‘è’ semplicemente la chiesa cattolica.
Se si legge attentamente il testo nel cap. 8 di Lumen gentium, si conosce anche perché: i padri conciliari vollero, da una parte, mantenere sì fermo che nella chiesa cattolica si manifesta in modo pienamente valido la chiesa di Gesù Cristo; ma, d’altra parte, non vollero affatto più escludere un essere-chiesa, ad esempio, degli evangelici. Perciò nella stessa formulazione del testo, subito dopo, si dice: «Ciò non esclude che al di fuori del suo organismo visibile [si pensa alla chiesa cattolica] si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri della chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica» (LG 8) .
Schockenhoff vede in questo chiarissimamente espressa la volontà «di creare spazio per il riconoscimento degli elementi ecclesiali che esistono anche al di fuori della chiesa cattolica». Il concilio, dunque, ha scelto, e non per mancanza di precisione ma intenzionalmente, lo spazio aperto per l’ulteriore sviluppo teologico. «La dichiarazione Dominus Jesus, invece, legge il ‘subsistit in’ nella linea dell’affermazione di identità esclusiva (‘est’), rifiutata dal concilio, per dedurne la conseguenza che le chiese della Riforma non sono chiese in senso proprio. In questo modo l’intenzione dell’affermazione conciliare viene falsata: non si tratta più di indicare positivamente il nesso tra la chiesa di Gesù Cristo e la sua concreta forma di realizzazione storica nella chiesa romano-cattolica; piuttosto si deve, negativamente, rifiutare alle chiese della Riforma la qualità ecclesiologica dell’essere-chiesa».
Tirando le conseguenze ciò significherebbe: Dominus Jesus non contravviene soltanto allo spirito del concilio, aperto e intenzionato a una riforma, che vuole un ulteriore sviluppo magisteriale, ma va anche contro il genuino senso letterale e contro l’intenzione del concilio e perciò contro la grande maggioranza dei padri conciliari che, insieme al papa, avevano dato il loro assenso a quel testo. Ciò significherebbe che una parte sostanziale del concilio Vaticano II – riguardante l’ecumenismo - sarebbe scardinata.
Interpretazioni fuorvianti analoghe Eberhard Schockenhoff constata nella relazione tra chiesa universale e chiesa particolare-locale. Sull’onda della ecclesiologia della communio, dunque di una comprensione della chiesa che sottolinea la comunione dei credenti e la collegialità dei vescovi nel vivere insieme la testimonianza a Cristo, la costituzione sulla chiesa afferma: «L’unione collegiale appare anche nelle mutue relazioni dei singoli vescovi con le chiese particolari come con la chiesa universale» (LG 23). Sulle chiese particolari – in un altro passo il concilio parla anche di chiese locali - si dice, di nuovo, significativamente: «In esse e a partire da esse esiste la sola e unica chiesa cattolica» (ibid.).
Caso problematico ‘chiesa locale’
Anche qui Schockenhoff vede un successivo travisamento dei fatti. Da un lato, in riferimento alle chiese locali, in Vaticano, nel frattempo, si parla quasi unicamente di chiese particolari, come se esse siano soltanto una parte della chiesa cattolica universale. Dall’altro lato, il reciproco rapporto tra chiesa universale e chiese locali fu ed è – ad esempio, in un duro confronto tra l’allora cardinale Joseph Ratzinger e il cardinale Walter Kasper - di nuovo risolto a favore di un primato esclusivo della chiesa universale che indirettamente viene, in certo qual modo, identificata con ‘Roma’. Questa unilateralità il concilio non l’ha proprio voluta, sottolinea Schockenhoff in accordo con Kasper. Per questo sarebbe stata introdotta l’espressione, alquanto fluida, «nelle e a partire dalle chiese locali». Vale a dire: anche nella chiesa locale è «veramente presente» tutta la chiesa di Gesù Cristo come chiesa universale (LG 26). Invece, la Congregazione per la dottrina della fede, con il suo documento “Su alcuni aspetti della chiesa intesa come comunione”, del 1992, ha ripreso la vecchia visione riduttiva. Schockenhoff vede in questo una chiara alterazione arbitraria del testo conciliare con un grave spostamento di senso. Infatti, di colpo si afferma che la chiesa universale «nel suo essenziale mistero, è una realtà ontologicamente e temporalmente previa ad ogni singola Chiesa particolare» (n. 9). Anche qui affiora la predilezione di Ratzinger per il modo platonico di pensare, che afferma una specie di “chiesa preesistente” che precede tutte le chiese storiche concrete.
Rispetto a ciò Eberhard Schockenhoff si attiene al fatto che il concilio sottolinea innegabilmente un nesso reciproco tra chiese locali e chiesa universale: «La chiesa universale non è soltanto una successiva associazione di chiese locali autonome, alla maniera delle Nazioni Unite, né le chiese locali sono soltanto distretti amministrativi o reparti subordinati della chiesa universale. Tra la chiesa universale e le chiese locali o particolari regna una logica di reciproca rappresentazione: le singole chiese particolari portano in sé l’immagine della chiesa universale, mentre questa, viceversa, esiste soltanto nelle e a partire dalle chiese particolari». Il magistero pontificio postconciliare ha abbandonato questa visione del concilio, giustificando di nuovo un «rapporto unilaterale di partecipazione». Di conseguenza «l’autentica essenza della chiesa è realizzata in modo originario nella chiesa globale», mentre le singole chiese locali partecipano a questa essenza soltanto come derivazioni della chiesa globale.
Questi sono sviluppi dell’interpretazione che, anche per quanto riguarda l’accondiscendenza, finora generosa, di Roma nei confronti dei settari tradizionalisti, ci danno però molto da pensare. Schockenhoff mette il dito sulla piaga: «Con una esegesi reinterpretativa e un riaggiustamento del significato del testo, che si spaccia come sua necessaria protezione nei confronti di sviluppi erronei e fraintendimenti postconciliari, si deve strappare ad un antimoderno movimento di protesta, che si presenta nelle vesti del cattolicesimo preconciliare, il riconoscimento almeno verbale della libertà di coscienza e di religione, che costituisce il cuore del mondo moderno e della sua cultura della libertà. Sul piano teologico, tuttavia, un simile salvataggio ermeneutico [di comprensione scientifica], che cerca di ottenere la quadratura del cerchio, è un giocare con il fuoco…. Lo sforzo per una interpretazione autentica si inserisce in una più lunga serie di tentativi romani di influenzare la storia della ricezione [storia degli effetti] del concilio nel senso dell’allora minoranza conciliare. Le esigenze di tale minoranza trovano nei documenti dottrinali postconciliari risonanza più forte delle stesse affermazioni conciliari. Con il supporto di una interpretazione ufficiale, a centrali testi conciliari viene attribuito un senso diverso da quello che loro spetta secondo la volontà della maggioranza conciliare».
Se di fatto le cose dovessero stare così – e i riferimenti citati da Schockenhoff sono per questo appigli importanti - si tratterebbe, nei campi menzionati, di un pesante stravolgimento se non addirittura di una falsificazione del concilio Vaticano II, al quale i papi di allora e la stragrande maggioranza dell’episcopato mondiale di quel tempo avevano dato il loro assenso. Un tale sviluppo dovrebbe propriamente suscitare un ampio dibattito.
© 2010 by Christ in der Gegenwart (4 aprile 2010), Herder, Freiburg, Germania
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Traduzione dal tedesco di Gianni Francesconi
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)