Ricorre il 24 marzo il 20° anniversario dell’uccisione di monsignor Oscar Romero. Nel Salvador la data è stata ora dichiarata “giornata della memoria” del grande vescovo latino-americano. Ma è una data memorabile per tutta la chiesa. Proponiamo un testo del teologo salvadoregno Jon Sobrino, pubblicato recentemente sul numero di “Concilium” 5/2009, con il titolo Padri della Chiesa in America Latina. Durante il funerale all’Università Centroamericana (UCA) di San Salvador (El Salvador) Ignacio Ellacuría disse: «Con monsignor Romero Dio è passato per il Salvador», e alcuni mesi dopo scrisse, molto opportunamente: «È stato un inviato di Dio per salvare il suo popolo»
1. Da questa prospettiva teologale ci accostiamo a monsignor Romero, “Padre della chiesa”.
1/ La conversione di monsignor Romero2L’assassinio di Padre Grande, radice di una “chiesa di poveri e martiri”. – Tutto è avvenuto in tre anni. Cominciò ad Aguilares (El Salvador), il 12 marzo del 1977, quando oligarchi produttori di caffé assassinarono padre Rutilio Grande insieme a due contadini, Manuel, un uomo adulto, e il bambino Nelson: piccolo
universale concreto di ciò che faceva parte del popolo e della sua chiesa. A Monsignore caddero le bende dagli occhi e si convertì. Era stato molto amico di Rutilio e apprezzava molto il suo agire sacerdotale, ma non condivideva la sua nuova pastorale, appresa da Medellín e da monsignor Proaño. Davanti al suo cadavere dovette pensare che se Rutilio Grande era morto come Gesù era perché aveva vissuto come Gesù. Non era Rutilio a essersi sbagliato, bensì lui. Monsignore cambiò e si fece insigne seguace di Gesù, riproducendo il percorso della sua vita dal Giordano sino al Golgota.
Rutilio fu per Monsignore il precursore che Giovanni Battista fu per Gesù. «Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò in Galilea». «Dopo che Rutilio Grande fu assassinato, sorse monsignor Romero». Alcuni anni dopo aggiungiamo: «Assassinato monsignor Romero, sorse Ignacio Ellacuría». Era una chiesa di
tradizione, e tutto ciò che è fondamentale si trasmise di generazione in generazione. Questo aiuta a capire l’impronta
gesuanica del nuovo Monsignore: come Gesù, egli iniziò raccogliendo la fiaccola che aveva lasciato Rutilio.
La “conversione” di Monsignore provocò grande sorpresa, per cui si parlava del “miracolo” di Rutilio. È stata vistosa e istantanea. Egli pretese dal governo un chiarimento sui tre assassinii; promise di non assistere ad alcun atto ufficiale finché non vi fosse stato un chiarimento; e promise di non abbandonare il popolo. E così fece.
“Un corpo ecclesiale”. – È la prima cosa che accadde
3. Monsignore convocò una gran quantità di riunioni di clero, religiosi e religiose, comunità, scuole cattoliche. Tutti insieme si chiedevano cosa fare, senza consultare curie né nunziature. I problemi erano tanti e seri.
Che fare: aiutare le vittime e difendere i sacerdoti minacciati di morte; quindi, appoggiare il Soccorso giuridico, trasformare il seminario in rifugio...
Che dire: nelle omelie e comunicati dell’arcivescovado; quindi, lettere pastorali, preparate in gruppo, sull’ingiustizia, la persecuzione, la violenza, le idolatrie, il dialogo, le organizzazioni popolari, i cui rappresentanti erano invitati alle riunioni del clero...
Come vivere il vangelo, come seguire Gesù, come pregare Dio in mezzo a vittime e martiri. E la cosa più innovativa, quella non negoziabile,
come accompagnare e dare speranza al popolo sofferente.
Monsignore era presente in tutte le riunioni, senza evitare i momenti difficili. Era la svolta da una chiesa piramidale, eccessivamente dipendente dalla gerarchia, a una chiesa
corpo; “Corpo di Cristo nella storia”, intitolò la sua seconda lettera pastorale. Da questa chiesa andarono via gli oppressori e i tiepidi. In essa restarono – e anche entrarono – poveri, contadini, operai, studenti, alcuni professionisti, intellettuali... Fu uno dei suoi grandi risultati. Mi soffermerò ora su quattro cose che avvennero nei primi tre mesi.
“La messa unica” e “la gloria di Dio”. – In segno di protesta per l’assassinio di Rutilio, in una riunione del clero fu proposta la celebrazione di un’unica messa di funerale in tutta l’arcidiocesi, la domenica 20 marzo. Monsignore già aveva approvato altri suggerimenti, ma gli costava accettare questo. «Il sacrificio della messa, come nessun’altra cosa dà gloria a Dio», disse. Ma il p. César Jerez, Provinciale dei gesuiti, ricordò le parole di Ireneo: «
Gloria Dei vivens homo». Ciò tranquillizzò Monsignore, che approvò la messa unica contro il richiamo esplicito e indegno della nunziatura. Tre anni dopo, nell’università di Lovanio riformulò la massima di Ireneo: «
Gloria Dei vivens pauper». Era il suo contributo alla
teo-logia: vedere Dio a partire dal povero e il povero a partire da Dio.
“La messa ad Aguilares” e “il popolo crocifisso”. – L’11 di maggio fu assassinato padre Alfonso Navarro: in seguito, mentre Romero era in vita, sarebbero stati assassinati i padri Ernesto Barrera, Octavio Ortiz, Rafael Palacios e Alirio Macías. Il 19 maggio l’esercito entrò in Aguilares. I tre sacerdoti amici di Rutilio furono arrestati, maltrattati e portati via dal paese clandestinamente, senza alcuna difesa legale. L’esercito occupò la città per un mese, profanò l’eucaristia e assassinò molti contadini.
Il 19 giugno, l’esercito lasciò Aguilares e Monsignore andò a consolare il popolo. Nell’omelia espresse la sua indignazione: «Chi di spada ferisce di spada perisce». Condannò la profanazione dell’eucaristia, e disse ai contadini: «Voi siete il divino Trafitto». Ricordai la distinzione di Agostino: il
corpus mysticum, realtà più simbolica, è l’eucaristia; il
corpus verum, realtà più reale, è la chiesa. Ora il
corpus Christi era ancora più reale: contadini e contadine perseguitati e assassinati. Poco dopo Ellacuría si espresse così. E i due concordarono anche nel chiamare il popolo «servo sofferente di Jahvé». Era il suo contributo alla
cristo-logia.
L’inizio dell’omelia fu pure memorabile: «A me tocca andare a raccogliere feriti e cadaveri», disse Monsignore, come se riscoprisse la sua identità episcopale: essere
ex officio accompagnatore delle vittime. E fu anche memorabile il finale. Durante la processione attorno alla piazza, alcuni soldati presero la mira contro la gente, e tutti, istintivamente, volsero lo sguardo verso Monsignore che era dietro. Ed egli disse: «Avanti». Era il suo contributo alla
ecclesio-logia: essere vescovo a modo di pastore, non di re, né tanto meno di mercenario.
Quel giorno lo vedemmo in tutta chiarezza. Non era Monsignore che aveva bisogno del nostro aiuto, ma noi avevamo bisogno del suo: anche come teologi. Ciò riconobbe Ellacuría nel 1985
4.
“La persecuzione all’interno dell’istituzione” e “Dio più grande della chiesa”. – Con la decisione della messa unica ebbe inizio un altro calvario. Il segretario del nunzio lo riprese apertamente per aver autorizzato la celebrazione di un’unica messa la domenica. È stato l’inizio di gravi problemi con le curie vaticane
5 e con i suoi fratelli vescovi della conferenza episcopale
6; e anche di grandi amicizie. A Roma trovava consolazione parlando col cardinal Pironio e con padre Arrupe. E al suo ritorno da Puebla, ricordò con stima don Helder Camara, Proaño e il cardinal Arns
7.
Nell’aprile del 1977, dopo l’assassinio di Rutilio, fece una visita a Paolo VI, che lo riempì di forza e consolazione: «
Coraggio», gli disse. Con Giovanni Paolo II ebbe un’esperienza difficile. A Roma, nel maggio 1979, dovette mendicare un appuntamento, dal quale, secondo un giornalista, uscì piangendo. Nel diario scrive l’8 maggio: «La mia impressione non fu del tutto soddisfacente». Il papa non comprendeva la situazione del Salvador. Non gli sembrava corretto parlare di persecuzione della chiesa, né l’atteggiamento apertamente critico verso il governo. Nel 1983, morto monsignor Romero, Giovanni Paolo II, senza segnalarlo al governo, visitò a sorpresa la sua tomba nella cattedrale. Lo elogiò come “zelante pastore”.
La nota dominante delle relazioni con le istituzioni ecclesiali fu di seria tensione. Ciò gli richiese di esercitare la virtù, ma anche qualcosa di più profondo: che la sua fede vivesse di linfa nuova, del mistero di un Dio più grande della chiesa. Casaldáliga dice: «Tutto è relativo meno Dio e la fame». Qualcosa del genere visse monsignor Romero. Assoluto è solo Dio e i poveri. Di nuovo
teo-logia.
“Conversione” e forza dell’esempio. – A monsignor Romero non piaceva che si parlasse di lui in termini di conversione, ed è comprensibile. Egli non passò dal
fare il male a
fare il bene. La parola “conversione”, tuttavia, possiede una forza speciale nel comunicare la
radicalità del cambiamento. E nessuno nel paese, né poveri né oligarchi, aveva conosciuto un simile cambiamento.
Era stato devoto e zelante delle anime, di condotta etica irreprensibile e obbediente alla chiesa; ma gli mancava l’accettazione cordiale di Medellín. In termini di
pensiero, Medellín lo spaventò, e più ancora la teologia della liberazione
8. In termini di
prassi non pensava che toccasse a sacerdoti e vescovi opporsi alle strutture di ingiustizia. Di fronte alla violenza, bisognava solo condannarla e prendere le distanze da essa.
Nei suoi ultimi anni come vescovo di Santiago de María già aveva avvertito la crudeltà dell’ingiustizia e la sua dimensione strutturale
9. In ogni caso, fu eletto arcivescovo di San Salvador per pacificare gli animi
liberazionisti di comunità e parrocchie, la Conferenza dei religiosi – CONFRES e la Università Centroamericana (UCA) di El Salvador... . «Non fu eletto perché fosse ciò che è stato; fu eletto piuttosto per il contrario»
10.
Miracolo di Dio, e del popolo fu che monsignor Romero arrivasse a essere praticamente il contrario di ciò per cui fu eletto. Aveva 59 anni, età in cui gli esseri umani hanno consolidato le loro strutture psicologiche e spirituali. Ed era costituito proprio nella massima autorità dell’istituzione, il che inclina alla continuità e ad assicurare il potere. Intuì presto anche quello che si stava attirando: le ire dell’oligarchia e di tutti i potenti, sebbene si attirò anche presto l’affetto dei poveri e il rispetto della gente buona.
La “conversione” è stata esemplare, ma è stata anche determinante per generare una “nuova” chiesa, ed è importante tenerlo presente. A Medellín la conversione ecclesiale avvenne audacemente. A Puebla si mantenne sufficientemente. A Santo Domingo scomparve. E ad Aparecida si frenò soltanto un po’ l’arretramento e si ottenne qualche miglioramento. Se Monsignore arrivò a
generare chiesa di qualità, di peso sociale e di finezza di spirito, ciò è stato dovuto in buona misura alla profondità della sua stessa conversione, non alla sua autorità formale di arcivescovo.
2/ Padre di una chiesa profetica e martiriale al servizio di Dio e della liberazioneIl seguace di Gesù. – Dopo la messa di Aguilares accaddero molte cose: massacri e persecuzioni – per le strade si poteva leggere: «Se ami la patria uccidi un prete» – e anche crescita delle organizzazioni popolari e della chiesa popolare. Ci fu Puebla e, con López Trujillo, prese forza il movimento anti-medellín. Monsignore poteva essersi stancato o poteva aver fatto solo piccoli passi. Ma non fu così. Camminò con maggiore decisione, come seguace di Gesù. La sua vita si può leggere come una cristologia di
testimoni, che aiuta a capire le cristologie di
testi.
Per tre anni ha servito il regno di Dio – sempre con la coscienza di dover lottare contro l’antiRegno – e pose la chiesa al servizio del Regno. Fece un’opzione totale per i poveri. A loro annunziò la buona notizia della liberazione e di un Dio liberatore. In loro vide Cristo crocifisso, in loro ascoltò la voce di Dio e in loro s’incarnò. Fu questo che lo cambiò completamente. «Ciò che era una parola opaca, amorfa e inefficace si trasformò in un torrente di vita, al quale il popolo si avvicinava per appagare la sua sete»
11.
In questo popolo trovò grazia: «Con questo popolo non costa essere buon pastore» (18 novembre 1979). E con grande umiltà disse: «Se mi uccidono risusciterò nel popolo salvadoregno» (marzo 1980). E ricordiamo che Monsignore, come don Hélder Câmara e monsignor Proaño, non solo fu ammirato, ma amato dal suo popolo.
Chiesa di profezia. – Diceva K. Barth che bisognava predicare con la Bibbia in una mano e il giornale nell’altra. Monsignore predicava con la Bibbia in una mano e con la realtà nell’altra, e stando immerso in mezzo a essa. Così lo espresse la vigilia del suo assassinio: «Chiedo al Signore, durante tutta la settimana mentre vado raccogliendo il clamore del popolo e il dolore per tanto crimine, l’ignominia di tanta violenza, che mi dia la parola adatta per consolare, per denunciare, per richiamare al pentimento» (omelia del 23 marzo 1980).
Prendendo sul serio
Dio e la
realtà, la sua parola doveva essere
denuncia. «Questo è il grande male del Salvador: la ricchezza, la proprietà privata, come un assoluto intoccabile. E guai a chi tocca questo filo ad alta tensione! Si brucia» (2 agosto 1979). «Siamo in un mondo di menzogna dove nessuno crede più in niente» (18 marzo 1979). «Si continua a massacrare il settore organizzato del popolo solo per il fatto di sfilare ordinatamente per le strade» (27 gennaio 1980). «La violenza, l’assassinio, la tortura, dove tanti rimangono uccisi, il massacrare e buttare la gente in mare: questo è l’impero dell’inferno» (1° luglio 1979).
Denunciò per nome molte altre aberrazioni. Scrisse al presidente Carter, esigendo che tagliasse gli aiuti militari. Si scagliò contro la Corte Suprema di giustizia perché difendeva abusi, concludendo: «Questa denuncia me la impone il vangelo per il quale sono disposto ad affrontare il processo e il carcere, sebbene con ciò non si faccia altro che aggiungere altra ingiustizia» (14 maggio 1978). La sua ultima omelia in cattedrale terminò con queste parole:
«Io vorrei lanciare un appello in modo speciale agli uomini dell’esercito, e in concreto alle basi della Guardia nazionale, della polizia, delle caserme: Fratelli, che fate parte del nostro stesso popolo, voi uccidete i vostri stessi fratelli contadini mentre, di fronte a un ordine di uccidere dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: “Non uccidere” Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine che va contro la legge di Dio. Una legge immorale, nessuno è tenuto a osservarla. È ormai tempo che recuperiate la vostra coscienza e obbediate alla vostra coscienza piuttosto che alla legge del peccato. La chiesa, sostenitrice dei diritti di Dio, della dignità umana, della persona, non può restarsene silenziosa davanti a tanto abominio. Vogliamo che il governo si convinca che a nulla servono le riforme se sono ottenute con tanto sangue. In nome di Dio, e in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono ogni giorno più tumultuosi fino al cielo, vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: basta con la repressione!» (23 marzo 1980).
Monsignor Romero aveva richiesto la
conversione e aveva avvertito del
castigo che si avvicinava nel non convertirsi: scoppiò la guerra. Ma il suo fu essere profeta di
consolazione, come quello di Isaia del «
consolate, consolate il mio popolo». «Su queste rovine brillerà la gloria del Signore» (7 gennaio 1979).
Nelle lettere pastorali rendeva ragione di ciò che nelle omelie diceva in modo profetico. Argomentava con la Bibbia, con la migliore tradizione della chiesa e del magistero, e con i segni dei tempi, vissuti esistenzialmente e analizzati dalle scienze sociali. I temi li prendeva dalla realtà: il diritto a organizzarsi, la liceità o illiceità della violenza, il dialogo... Prima di scrivere la sua ultima lettera pastorale aveva inviato un questionario alle comunità in cui chiedeva: «Chi è per voi Gesù Cristo?». «Qual è il più grande peccato del paese?». «Che pensate della conferenza episcopale, del nunzio, del vostro arcivescovo?»... E aveva preso sul serio le risposte.
Chiesa di martiri. – Durante i tre anni del suo ministero molti sacerdoti, delegati della Parola, laici e laiche morirono assassinati. Era il
martirio di Gesù nei nostri giorni. E vi furono massacri di contadini. Erano «
il servo sofferente di Jahvé». Nel parlare di un sacerdote assassinato spiegò con chiarezza le ragioni del martirio: «Si uccide chi disturba... come uccisero Cristo» (23 settembre 1979). E disse parole impressionanti, che di solito non si dicono:
«Mi rallegro, fratelli, che la nostra chiesa sia perseguitata» (15 luglio 1979). «Sarebbe triste che in una patria, dove si sta assassinando con tanto orrore, non contassimo tra le vittime anche i sacerdoti. Sono la testimonianza di una chiesa incarnata nei problemi del popolo» (4 luglio 1979).
Monsignore stimolò la chiesa a essere chiesa di Gesù e chiesa salvadoregna, e perciò si rallegrò di una chiesa martiriale. In essa ha vissuto ed è morto. Si è attirato calunnie. «Monsignor Romero vende la sua anima al diavolo», diceva un addetto stampa. Mai rifuggì la persecuzione per coerenza e per non sentire la vergogna di non vivere ciò che predicava e non essere come il suo popolo. «Il pastore non cerca sicurezza, mentre non ha sicurezza il suo gregge» (22 luglio 1979). Morì come il suo popolo e pensando alla liberazione del suo popolo. «Che il mio sangue sia seme di libertà e il segnale che la speranza sarà presto una realtà» (marzo 1980).
Facilmente si dimentica questo, per cui è necessario ricordarlo. Allo stato in cui è
la chiesa, è importante ritornare al Vaticano II, e magari con buone conseguenze. Allo stato in cui è il
nostro mondo dei poveri, bisogna risalire a Giovanni XXIII, Lercaro, Himmer e la chiesa dei poveri, di cui soltanto nel concilio v’è traccia. Ma allo stato in cui è
un mondo di vittime, bisogna andare a monsignor Romero e alla chiesa dei martiri. Non è facile. Monsignor Romero deve continuare a essere riferimento di una chiesa che vuole assomigliare a Gesù, in un mondo che produce tante morti.
La buona notizia della “liberazione” e di “Dio”. – Per Monsignore è stata sempre fondamentale la buona notizia: “la liberazione”, per cui occorre lottare, e la buona notizia di “Dio”, a cui bisogna consacrarsi.
Monsignor Romero ha propiziato una chiesa della “liberazione”, il che presume l’incarnazione storica nelle lotte per la giustizia, per i diritti fondamentali del popolo. Non si poteva essere chiesa dei poveri e abbandonarli alla loro sorte. Il fatto che si trattava di “lotta”, con la sua ambiguità, non lo ha bloccato. E nel caso limite della violenza, ricordò la lunga tradizione dottrinale della sua liceità condizionata.
Inserita tra gli oppressi, la chiesa doveva e poteva essere medicina per sanare i sottoprodotti negativi della lotta. E con lo spirito di Gesù poteva essere lievito che fa crescere e fermentare la massa. La chiesa di Monsignore annunciò la buona notizia che possiamo vivere come fratelli e sorelle. E ha lavorato per questo.
E ha annunciato “la buona notizia di Dio”. Nell’“ospedaletto”, ospedale per donne povere, malate di cancro e senza speranza, ha vissuto “a tu per tu con Dio”. Come Gesù presso il lago o nell’orto, egli pregava Dio che vede nel segreto.
Le mie prime parole pubbliche su Monsignore sono state: «Monsignor Romero ha creduto in Dio»
12. La sua fede era di una profondità che mi sormontava e che, a volte, mi prendeva per mano per incamminarci verso il mistero di Dio. Anche Ignacio Ellacuría è rimasto colpito e contagiato dalla fede in Dio di monsignor Romero. Ellacuría poteva sentirsi più o meno collega di Zubiri in filosofia e di Rahner in teologia. Ma a livello di fede in Dio mai si sentì collega di monsignor Romero. La sua fede era sostenuta, penso io, da quella di Monsignore
13.
Di questo misterioso Dio Monsignore parlò nelle sue omelie. Verso la fine, disse con tutta semplicità: «Nessun uomo si conosce finché non si è incontrato con Dio...! Magari, cari fratelli, il frutto di questa predicazione di oggi fosse che tutti noi c’incontrassimo con Dio e vivessimo la gioia della sua maestà e della nostra piccolezza!» (10 febbraio 1980).
La trascendenza di questo Dio non destoricizzava i processi, ma li storicizzava, come spinta a sradicare tutto ciò che fosse peccato e a rafforzare tutto ciò che fosse grazia. Diceva questo specialmente alle organizzazioni popolari, poiché in esse riponeva maggiore speranza. Vedere Dio così, e stare davanti a Dio con questa disposizione, facile a dirsi ma difficile a farsi, a lui riusciva con assoluta naturalezza.
3/ Padre della chiesa latino-americana e universaleNel Salvador, i poveri e la gente buona «mai avevano sentito Dio così vicino, lo Spirito così operante, il cristianesimo così vero, così pieno di significato, così pieno di grazia e di verità»
14. Monsignore si convertì nel salvadoregno più “santo” e più “universale”.
Don Pedro Casaldáliga così parlo a nome di tanti: «L’America Latina già ti ha posto nella sua gloria del Bernini... San Romero d’America, pastore e martire nostro: nessuno farà tacere la tua ultima omelia». Al centro della facciata dell’abbazia di Westminster, monsignor Romero sta tra Martin Luther King e Dietrich Bonhoeffer. In Africa, l’arcivescovo del Congo, Christophe Munzihirwa, assassinato nel 1996, lo chiamano “il Romero d’Africa”. A Noam Chomsky, al compimento degli 80 anni chiesero: «Cosa la fa continuare nella lotta?». «Immagini come questa», rispose. E indicò un quadro in cui si vede l’arcivescovo Romero e i sei gesuiti dell’UCA.
Sono forme diverse di “canonizzazione”. E qualcosa di simile deve significare dichiarare qualcuno “
Padre della chiesa”. È il
sensus fidei dei poveri del popolo di Dio che coglie,
in chi è passato, Dio per questo mondo, e
che Dio è quello che è passato. In monsignor Romero hanno visto il passaggio del Dio di Gesù di Nazaret.
Note 1. Monseñor Romero un enviado de Dios para salvar a su pueblo,
Sal Terrae 81 (1980) 825-832.
2. Molto di ciò che andrò a dire l’ho potuto vivere da vicino. Si veda il mio libro
Monseñor Romero, San Salvador 1989, soprattutto “Mi recuerdo de monseñor Romero”, 11-64.
3. Non fu qualcosa di totalmente nuovo, poiché dalla settimana pastorale del 1970 nella chiesa salvadoregna già vi erano segnali di novità, profezia e conflitti. Però fu incomparabilmente più grande.
4. «In tutte queste collaborazioni [dell’UCA con monsignor Romero] non v’è dubbio chi era il maestro e chi era il discepolo, chi era il pastore che segnava le direttive e chi era l’esecutore, chi era il profeta che svelava il mistero e chi era il seguace. Chi era l’animatore e chi era l’animato, chi era la voce e chi era l’eco» (La UCA ante el doctorado concedido a monseñor Romero, in
Estudios Centroamericanos 437 (1985) 174).
5. Il cardinale Baggio lo riprese duramente e cercò di farlo ritirare dal suo ministero episcopale o metterlo a riposo. Monsignore si mostrò disponibile a obbedire, ma ad una condizione: «Che mi tolgano con dignità, affinché non ne soffra il mio popolo». Dopo, Baggio si mostrò più cordiale, almeno nelle forme, come scrisse Monsignore nel diario l’8 maggio del 1979.
6. Nel suo ultimo ritiro spirituale, che cominciò il 25 febbraio 1980, approfondì tre problemi col suo direttore: non essere tanto attento nella sua vita spirituale, il suo timore per i rischi della propria vita, la sua situazione conflittuale con i suoi fratelli vescovi.
Cf. El último retiro espiritual de Monseñor Romero, in
Revista Latinoamericana de Teología 13 (1988) 6. Ricordiamo solo un conflitto. Nel 1978 monsignor Romero e monsignor Rivera pubblicarono una lettera pastorale su “La chiesa e le organizzazioni politiche popolari”, che fu considerata come un testo straordinario. Da parte sua, il resto dei vescovi pubblicò sullo stesso tema un messaggio minuscolo, anodino e pregiudizievole per i poveri.
7. Omelia al suo ritorno da Puebla, 16 febbraio 1979.
8. Criticò il libro di Ignacio Ellacuría,
Teología política, San Salvador 1973. Il 6 agosto del 1976, nell’omelia della festa patronale, criticò le cristologie che si producevano nel paese riferendosi alla mia cristologia.
9. I padri passionisti Zacarías Diez e Juan Macho scrissero su monsignor Romero un libro che comincia con questa parole: «Mi mandano poi a Santiago de María e lì torno a scontrarmi con la miseria: con quei bimbi che morivano solo per l’acqua che bevevano, con quei contadini ammazzati nelle piantagioni...».
10. Cf. I. Ellacuría,
Monseñor Romero, cit., 827.
11. Cf. ibid., 829.
12. Cf. Monseñor Romero, cit., 68.
13. Si veda La fe de Ignacio Ellacuría, in J. Sobrino – R. Alvarado,
Ignacio Ellacuría, “Aquella libertad esclarecida”, San Salvador 1999, 11-26.
14. Cf. I. Ellacuría,
op. cit., 830.
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