Il Motu Proprio di Benedetto XVI Summorum Pontificum entrerà in vigore il prossimo 14 settembre. In linea con la tradizione di formazione liturgica e di sensibilità pastorale che la Comunità Monastica di Camaldoli, l'Istituto di Liturgia Pastorale dell’Abbazia di S. Giustina di Padova e l’Associazione Professori e Cultori di liturgia hanno coltivato e alimentato da quarant’anni, si ritiene utile promuovere l’avvio di una serena ed equilibrata riflessione su alcuni punti dell’intervento papale, rinviando ad altri luoghi e competenze ulteriori precisazioni ed approfondimenti. Lo scopo del nostro intervento vorrebbe essere quello di offrire un contributo alle delicate mediazioni che saranno necessarie per evitare che l’impatto della nuova disciplina possa generare nella realtà ecclesiale divisioni e contrapposizioni, e non comunione e riconciliazione, come è nelle sue intenzioni.
Premessa
Vi sono nella Chiesa e tra gli uomini due forme del risentimento che devono essere superate: quella verso il passato, che è il radicalismo, e quella verso il futuro, che è il compromesso. La riconciliazione cui mira il Motu Proprio dovrebbe tradursi in una prassi liturgica lontana tanto dal radicalismo senza passato, quanto dal compromesso senza futuro.
Alla radice delle questioni pastorali e liturgiche che possono essere sollevate intorno al Motu Proprio si trova una interpretazione del Concilio Vaticano II e del suo influsso sulla prassi liturgica, che può essere tratteggiata in questo modo.
La Riforma Liturgica viene da lontano: essa nasce dalle istanze del Movimento Liturgico, che già nella prima metà del 1800 avvertiva difficoltà e disagi nella prassi celebrativa del tempo e che poi iniziò ufficialmente ai primi del Novecento, sulla scia delle sollecitazioni di S. Pio X. Il percorso che ha condotto alla riforma liturgica, su indicazione autorevole del Concilio Vaticano II, non deve essere interpretato come rottura e discontinuità, ma neppure come semplice continuità aproblematica rispetto ad una prassi irreformabile. Non a caso, nel noto Discorso alla Curia Romana del dicembre 2005, Benedetto XVI ha criticato l'interpretazione del Concilio Vaticano II in termini di pura discontinuità e rottura, per affermare, tuttavia, la logica non della semplice continuità, ma quella della “riforma”. Assicurare la continuità della tradizione implica pur sempre, nel rinnovamento, un certo grado di discontinuità. La tradizione liturgica, data la sua peculiare indole pastorale, non vive nonostante le riforme, ma fiorisce grazie ad esse.
1. Tre affermazioni centrali
L’intervento di Benedetto XVI, per una adeguata interpretazione, ha già, al suo interno, alcuni criteri di lettura pastorale e spirituale, contenuti prevalentemente nella Lettera ai Vescovi, che debbono essere valorizzati come parte integrante della nuova disciplina.
Sulla base di questa lettura unitaria del Motu Proprio e della Lettera ai Vescovi, pensiamo di poter individuare tre idee guida:
1.1. La Riforma liturgica non è e non deve essere “messa in dubbio”
Questa affermazione, ripetuta due volte nella Lettera ai Vescovi da Benedetto XVI, ha come riscontro la differenza sostanziale tra un “rito romano in forma ordinaria” e un “rito romano in forma extra-ordinaria”. Entrambe le “forme” appaiono come l'esercizio di un “diritto”, ma quella ordinaria non ha alcun bisogno di specifiche condizioni, mentre quella extraordinaria può essere celebrata solo in presenza di determinate condizioni. La dottrina conciliare, i documenti e i libri liturgici riformati, il magistero dei vescovi postconciliare, e soprattutto gli esiti positivi dovuti alla riforma non solo restano validi, ma continuano a costituire la criteriologia ordinaria (vale a dire quella per tutti i giorni, per tutti i fedeli, per tutti i ministri) a cui ispirare la pastorale e l'impegno formativo verso tutti.
1.2. Non si vuole e non si deve creare divisione
Alcuni commentatori hanno letto il documento come una “liberalizzazione” del rito preconciliare. In realtà il Motu Proprio configura una duplice forma del rito romano: una incondizionata (ordinaria) e una condizionata (extra-ordinaria). E’ precisamente la “diversa rilevanza delle condizioni” ad assicurare nello stesso tempo sia la possibile riconciliazione ecclesiale, sia quel principio di “certezza del rito” che risulta criterio indispensabile per l'ordinato svolgimento della vita liturgica ed ecclesiale. Diversamente si correrebbe il rischio di favorire divisioni, che sovvertirebbero - con conseguenze non facilmente controllabili sul lungo periodo - il fine per cui l’autorità pontificia ha assunto questo provvedimento.
1.3. La partecipazione attiva deve essere salvaguardata
Le preoccupazioni pastorali espresse da Benedetto XVI mostrano che la “actuosa participatio” viene considerata un criterio di discernimento per l’ammissibilità del “rito preconciliare” in un contesto liturgico comunitario. Questo criterio di discernimento fondamentale, che risulta evidente dalle condizioni elencate dal Papa per la celebrazione liturgica in forma extraordinaria, risulterà senz’altro utile per orientare la decisione di fronte alle richieste di alcuni membri del popolo di Dio.
2. Le condizioni per la celebrazione liturgica in “forma extraordinaria”
Dalla lettura congiunta del Motu Proprio e della Lettera ai Vescovi è facile desumere una “disciplina delle condizioni” necessarie per individuare i casi in cui è possibile celebrare la liturgia eucaristica (o sacramentale) nella “forma preconciliare” con partecipazione del popolo. Tali condizioni – di carattere pastorale – riguardano due soggetti: i fedeli richiedenti e i ministri che presiedono il rito.
2.1. Sui “soggetti che richiedono il rito extraordinario” Circa i soggetti richiedenti il Motu Proprio e la Lettera ai Vescovi distinguono tra condizioni oggettive e condizioni soggettive.
- 2.1.1. Condizioni oggettive: il “gruppo stabile” e la salvaguardia della comunione
Il Motu Proprio definisce accuratamente le condizioni oggettive in cui poter procedere alla celebrazione liturgica secondo l’“uso extraordinario”: essa è limitata alle “parrocchie in cui esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica” (Art. 5 §. 1). Cogliamo in questa precisazione del documento come non sia sufficiente la presenza di un gruppo di fedeli, per quanto cospicuo, ma occorre che si tratti di un gruppo con la caratteristica della “stabilità” e che risulti “aderente” alla tradizione liturgica antica. Da questa affermazione si può comprendere ciò che risulta escluso: si esclude un gruppo pur numeroso, ma occasionale (ad esempio un elenco di firme non costituisce di per sé un “gruppo stabile” e “motivato”); si esclude una richiesta pur stabile, ma di un singolo; si esclude un gruppo di persone, pur cospicuo e stabile, i cui membri non siano appartenenti alla medesima parrocchia al cui parroco viene rivolta la domanda; si esclude anche una richiesta dell’“uso extraordinario” dovuta non ad una “aderenza strutturale” alla precedente tradizione, ma ad un caso o ad una circostanza particolari. Collegata alla condizione del gruppo stabile il papa invita a porre una particolare attenzione alla salvaguardia della comunione: il parroco “provveda a che il bene di questi fedeli si armonizzi con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, sotto la guida del Vescovo a norma del can. 392, evitando la discordia e favorendo l’unità di tutta la Chiesa” (Art. 5 §. 1).
- 2.1.2. Condizioni soggettive: formazione liturgica e accesso alla lingua latina Accanto alla condizione oggettiva appena esaminata, i richiedenti debbono possedere anche una duplice condizione soggettiva, legata alla propria formazione. Nella Lettera ai Vescovi Benedetto XVI afferma: “L’uso del Messale antico presuppone una certa misura di formazione liturgica e un accesso alla lingua latina; sia l’una che l’altra non si trovano tanto di frequente”. Questa proposizione merita una duplice considerazione
- Quanto alla formazione liturgica
Il requisito di una adeguata “formazione liturgica” comporta una buona conoscenza e una provata confidenza con un rito che non appartiene più al cammino di formazione ecclesiale di laici e ministri ordinati. Pertanto una tale formazione non può essere data per scontata. Questa esigenza è rilevante perché l’atto liturgico non rimanga un segno puramente esteriore.
- Quanto all’accesso alla lingua latina
Allo stesso modo la richiesta di celebrazione in forma “extraordinaria” presuppone la capacità dei membri del quando il gruppo stabile richiedente di entrare adeguatamente nella comunicazione verbale latina che struttura il testo rituale. La presenza di questo requisito è importante per non cadere nel pericolo di un formalismo liturgico privo di interiore maturazione, con conseguenze negative sulla qualità della pastorale parrocchiale e della spiritualità individuale.
Sul piano della efficacia pastorale, queste condizioni (oggettive e soggettive) richiedono di essere tutte contemporaneamente presenti.
2.2. Sui “ministri che presiedono il rito preconciliare”
I ministri ordinati, chiamati a rispondere alle domande di celebrazione secondo un duplice Ordo Missae, sono invitati dal provvedimento a tener conto di una triplice condizione per poter effettivamente servire il proprio gregge:
- 2.2.1. “Familiarità” con il rito preconciliare
Il documento ha la finalità di venire incontro a quei fedeli che dopo la riforma “rimanevano fortemente legati all’uso del rito romano che, fin dall’infanzia, era per loro diventato familiare” (Lettera ai Vescovi). Un buon numero di fedeli e in particolar modo di presbiteri hanno ricevuto la loro formazione e hanno vissuto una esperienza celebrativa a partire dalla riforma liturgica. Costoro dovrebbero perciò celebrare in un rito che non solo non conoscono, ma che non fa parte dell’ordinario panorama ecclesiale, pastorale e spirituale in cui sono nati e nel quale sono cresciuti. A questo divario generazionale si potrà rimediare soltanto in tempi molto lunghi e non certo mediante ausili editoriali o “audio-video”, che necessariamente darebbero luogo a un “addestramento” superficiale e improvvisato rispetto alla serietà del Mistero celebrato. Ogni celebrazione infatti, e pertanto anche quella secondo la forma extraordinaria del rito Romano, esige una adeguata competenza rituale che non può essere improvvisata.
- 2.2.2. Esperienza ecclesiale e stile spirituale
Il modo di celebrare, come afferma la sapienza teologica, dice molto del modo di credere, di vivere la Chiesa, di crescere nello Spirito. L’attuale cammino formativo dischiude i presbiteri ad una esperienza ecclesiale, testimoniale e spirituale che non può essere facilmente tradotta nelle categorie del “rito preconciliare”. Un principio sapienziale e prudenziale richiede che nessuno debba celebrare in un rito (o secondo un uso) che non conosce per esperienza diretta, per formazione sedimentata e al quale non sente di poter “aderire”.
- 2.2.3. L’accettazione del Vaticano II e dei nuovi libri liturgici
Ai ministri che chiedono l’uso del Messale del 1962 la Lettera ai Vescovi presenta inoltre la necessità del riferimento ai nuovi libri liturgici usciti dalla riforma del Vaticano II. Infatti Benedetto XVI afferma: “per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazioni secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso”.
2.3. La distinzione tra “Messa senza popolo” e “Messa con il popolo”
- 2.3.1. La celebrazione con il popolo come “forma tipica”
Il Motu Proprio riprende la distinzione tra Messa “senza popolo” e Messa “ con il popolo”. Da ciò non si può immediatamente dedurre che per il singolo presbitero l’uso “extraordinario” della Messa “senza il popolo” non si distingua in nulla dall’“uso ordinario”. Infatti tra le due forme sussiste una differenza anche nell’“uso privato”, dal momento che sul piano pastorale, anche se non su quello strettamente giuridico, occorre riconoscere che la Messa con il popolo è da considerarsi come “forma tipica” della celebrazione eucaristica. Questo principio emerge chiaramente anche dall’Institutio Generalis Missali Romani (III ed.) nel quale alla Messa presieduta dal vescovo con la partecipazione del presbiterio, dei diaconi e dei fedeli deve essere dato “il primo posto” (n. 112).
- 2.3.2. Una possibile forzatura: l’ interpretazione estensiva dell'art. 4
Un sostanziale aggiramento della logica pastorale e liturgica del documento potrebbe verificarsi nel caso si operasse una interpretazione estesa dell'art. 4, che prevede la possibilità per ogni fedele che lo desideri di assistere alla “Messa senza il popolo” celebrata privatamente da un ministro secondo il rito preconciliare. L’inopportuna estensione della applicazione di tale articolo renderebbe di fatto vana la serie di condizioni necessarie alla celebrazione “con il popolo” secondo il rito preconciliare. In realtà, anche in questo caso, il criterio dovrebbe essere quello della “partecipazione attiva”. La presenza di fedeli come “estranei o muti spettatori” creerebbe una discontinuità con il dettato del concilio Vaticano II, che in SC 48 afferma: “la Chiesa volge attente premure affinché i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede”.
3. Conclusioni
Una forma rituale, anche se a precise condizioni viene dichiarata “non proibita”, va considerata “extra-ordinem”, in quanto non viene necessariamente ritenuta per principio né consigliabile né raccomandabile. Le deliberazioni e le raccomandazioni che la Chiesa ha assunto, prima a partire dal Concilio Vaticano II e poi attraverso la Riforma Liturgica, hanno riguardato solo ed esclusivamente la “forma ordinaria” del rito. Negli ultimi 45 anni nessun aggiornamento del calendario, del santorale, del lezionario o dell’eucologia ha riguardato la “forma extraordinaria”, che per questo risulta incomparabilmente più povera del Novus Ordo. Dunque la forma ordinaria del rito romano rimane la via principe della pastorale, della cura d'anime, della spiritualità e della formazione. La presenza di una “forma extraordinaria” può essere compresa senza conflitto e in una logica di autentica riconciliazione soltanto nella misura in cui essa rimane strettamente limitata a condizioni oggettive e soggettive “non ordinarie”: condizioni che - come dice lo stesso Benedetto XVI - “non si trovano tanto di frequente”. Solo un accurato discernimento di queste condizioni potrà permettere al cammino liturgico delle comunità ecclesiali di trarre profitto pastorale e spirituale da questo passaggio disciplinare, recuperando l’uso della partecipazione attiva di tutto il popolo di Dio al mistero celebrato, e così purificando – grazie a questo nuovo uso – le proprie celebrazioni da ogni possibile abuso. Ci auguriamo che questo iniziale tentativo di lettura congiunta del Motu Proprio e della Lettera ai Vescovi possa costituire un contributo idoneo a realizzare le intenzioni di pacificazione e di riconciliazione del provvedimento.
Camaldoli - Padova, 1 settembre 2007
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