30/10/2009
145. Ars moriendi e ars Deo vivendi di Rosino Gibellini
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Karl Rahner in un celebre articolo, con il quale apriva la serie delle sue Schriften zur Theologie nel 1954, e nel quale proponeva lo Schema di una Dogmatica (che aveva ampiamente discusso con von Balthasar), e che sta alla base del rinnovamento della trattatistica cattolica, notava la mancanza di una «teologia della morte». E scriveva: «Poeti e filosofi vi pensano. Nella teologia di oggi si insegna freddamente una volta, in un contesto qualunque, che la morte è pena dovuta al peccato originale». Qui Rahner denunciava una trattazione arida, scarna e scolorita del discorso teologico sul morire e sulla morte. In trattazioni ulteriori darà un suo contributo alla comprensione cristiana del morire e della morte.

Innanzitutto un trattato, dal titolo Sulla teologia della morte (Quaestiones Disputatae 2, Freiburg 1958); e successivamente una più essenziale e breve trattazione, dal titolo Il morire cristiano (Einsiedeln 1976), inserita nel «Nuovo corso di dogmatica come teologia della storia della salvezza», Mysterium Salutis, quale saggio introduttivo all’escatologia, che ora proponiamo in nuova edizione italiana, in quanto rappresenta ormai un piccolo classico nella storia dell’escatologia e dell’antropologia filosofica e teologica.

Il trattatello Il morire cristiano è breve, essenziale, e si articola in due soli capitoli.

Il primo con il titolo Prolixitas mortis riprende una celebre espressione di Gregorio Magno e svolge la dimensione esistenziale del morire. Della morte si fa esperienza nella vita, ancor prima della morte biologica, nell’esperienza della finitezza, nell’esperienza della malattia e della sofferenza, nell’insuccesso e nelle mille figure di morte parziale: in tutto ciò che rappresenta un «non-dover-essere».

Si potrebbe rimandare qui anche alle finissime analisi di Teilhard de Chardin in L’Ambiente divino (1956, postumo). Secondo l’analisi rahneriana si genera lungo il corso della vita una tonalità di fondo, la tonalità della finitezza; il Memento mori della saggezza cristiana si realizza, anche a-tematicamente, in questo con-vivere con la morte, nella «prolissità della morte».

Il secondo capitolo con il titolo Il morire alla luce della morte svolge in pagine dense (e impegnative) le linee di una teologia della morte (proponendo quasi una sintesi del trattato Sulla teologia della morte). Essa, pur nella fedeltà ai testi neotestamentari e agli enunciati del magistero ecclesiastico, va oltre la loro letteralità, nel tentativo di integrarli in una visione e in una comprensione unitaria di indagine filosofica-ontologica e di riflessione teologica. La teologia della morte, qui proposta da Rahner, in brevità, si articola in tre affermazioni centrali, dal facile enunciato, ma insieme dal profondo significato.



1. La prima affermazione prospetta «la morte come conclusione di una storia di libertà». La morte è fine conclusiva della vita umana, della vita storica e corporea dell’uomo. È fine subìta; in questo senso è accadimento passivo, sorte che ci tocca, passione: la morte coglie l’uomo dall’esterno, è «ladro nella notte», «taglio delle Parche».

Ma la fine è anche conclusione come compimento definitivo di una storia di libertà e, in quanto tale, è azione come «l’evento che conclude definitivamente il processo attivo della vita vissuta in libertà» (II. 2.c). Nel morire si subisce la morte, ma insieme si compie la morte, in quanto morire è l’atto della vita, che compie la vita, e così raccoglie l’intero atto della vita.

Con questa prima affermazione la morte è presentata come dialettica di passione e azione, di fine e auto-compimento personale, che evidenzia la responsabilità dell’agire umano e la serietà del morire, come raggiungimento della propria definitività, che il giudizio del Dio della grazia sancisce.



2. La seconda affermazione prospetta «la morte come manifestazione del peccato». La morte è un fenomeno naturale e universale, ma la teologia cristiana lo presenta anche, nel presente ordine, come poena/punizione del peccato (originale e personale), o (nel giustificato) come poenalitas/conseguenza del peccato, come «salario» del peccato, o «manifestazione del peccato». Non nel senso che se l’uomo non avesse peccato, non avrebbe conosciuto la morte come fine, ma nel senso che non avrebbe conosciuto questa morte «tenebrosa». C’è fine e fine: c’è una fine come «maturazione», e una fine come «rottura».

La seconda affermazione esprime la misteriosità della morte, la sua oscurità, il «non-dover-essere» che, di fatto, c’è nella morte, per cui «ogni individuo conosce una segreta protesta e un orrore invincibile di fronte a questa fine» (II. 3.e). La teologia cristiana offre così una spiegazione, ignota ed estranea alla metafisica, del¬la paura e dell’orrore della morte.



3. La terza proposizione prospetta «la morte come evento di salvezza». La morte come dialettica di fine e compimento, può essere anche non solo manifestazione del peccato, ma anche manifestazione del «con-morire con Cristo» come «evento di salvezza», «acme dell’agire salvifico della recezione della grazia» (II. 4.a).



Come si vede, l’analisi di Rahner mostra la morte e il morire come un processo molteplice, in cui si svolge una dialettica di fine e compimento della vita come storia di libertà; una dialettica di naturalità del morire e del morire come espressione del peccato; e infine una dialettica tra perdizione e evento di salvezza.

Questa varia e molteplice dialettica, che si svolge nel morire, esprime l’incomprensibilità e la misteriosità del morire, la sua indecifrabilità per il pensiero, che Rahner chiama la «velatezza» (Verhülltheit) della morte, e che le pagine rahneriane, da studiare e da meditare, sondano in profondità con il sussidio di filosofia e teologia.

Possiamo mettere in contesto le riflessioni di Rahner, facendo riferimento alle riflessioni sulla morte della teologia evangelica.

Si deve innanzitutto citare il trattato sulla Morte (1972) del teologo evangelico Eberhard Jüngel, che si potrebbe considerare quasi un pendant al trattato di Rahner, e alla sua versione sintetica, che qui viene riedita.

Per Eberhard Jüngel, la teologia «è una illuminazione della morte alla luce dell’evangelo». Ma, «la fede dà piuttosto un’importanza incomparabile alla vita, che neppure l’inesorabile rigore della morte, di cui la fede è ben dolorosamente consapevole, può eliminare. La morte, come dice Paolo, è certamente lo stipendio del peccato, però l’apostolo prosegue subito, e ciò è importante, dicendo: “Ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 6,23)».

Per questo il teologo evangelico è restio a parlare di teologia della morte: il tema della morte appartiene totalmente alla filosofia; la teologia come discorso su Dio non può non fare i conti con la realtà della morte, non può non discorrere sulla morte: «Ma il discorso su Dio è più che un discorso sulla morte». Cristo ha debilitato, in nome di Dio, la morte. Jüngel cita Lutero, che invita a capovolgere la frase corrente, e cioè, in mezzo alla vita siamo circondati dalla morte. Scrive Lutero: «In mezzo alla vita (noi siamo) nella morte. Capovolgi la frase così: in mezzo alla morte siamo nella vita, e saprai come il cristiano parla e crede».

Questo ci rimanda al discorso di Jürgen Moltmann sul nuovo stile di vita del cristiano, che è definito come stile messianico, e cioè rivolto al futuro di Dio, al futuro promesso e sperato. Scrive: «La vita cristiana […] è ars Deo vivendi, l’arte di vivere per Dio e con Dio. Noi siamo dunque “artisti della vita” ed ognuno plasma la sua vita come un’opera d’arte, esprimendo qualcosa della bellezza della grazia divina e della libertà dell’amore divino […]. La nostra vita è un frammento. Per sua natura è un frammento della morte. Anche la vita rigenerata alla speranza vivente rimane un frammento. Ma diventa ora un frammento della bellezza futura del regno di Dio. Non è più la morte che dà compimento alla vita nello Spirito, ma la gloria della nuova creazione […]. Nella comunione vivente con Gesù il Messia, la piccola e imperfetta vita umana diventa segno messianico del futuro compimento della storia». L’ars moriendi è così da coniugare con l’ars Deo vivendi.

Come attende un teologo la morte? Si potrebbe citare la testimonianza di Congar nella malattia, o quella di Hans Küng nel pieno dell’attività. Citiamo solo questa pagina dell’ultima lezione di Karl Rahner tenuta all’università di Friburgo di Brisgovia in data 12 febbraio 1984, in occasione del suo 80° compleanno. Karl Rahner decedeva poche settimane dopo, il 30 marzo 1984. Diceva Rahner di fronte ad una folla di giovani studenti universitari (esiste anche un video amatoriale di quella conferenza): «Un giorno gli angeli della morte spazzeranno via dai meandri del nostro spirito tutti quei rifiuti inutili, che diciamo la nostra storia (anche se la vera essenza della libertà messa in atto rimarrà); un giorno tutte le stelle dei nostri ideali, con cui noi stessi avevamo arrogantemente drappeggiato il cielo della nostra esistenza, cesseranno di brillare e si spegneranno; un giorno la morte introdurrà un vuoto straordinariamente silente, e noi accoglieremo tale vuoto con fede, speranza e in silenzio come la nostra vera essenza; un giorno tutta la nostra vita precedente, per quanto lunga, ci apparirà come un’unica breve esplosione della nostra libertà, che ci sembrava estesa solo perché la vedevamo come al rallentatore, una esplosione in cui la domanda si è trasformata in risposta, la possibilità in realtà, il tempo in eternità, la libertà offerta in libertà tradotta in atto; un giorno scopriremo, terribilmente spaventati e ineffabilmente giubilanti, che questo vuoto enorme e silente, che noi sentiamo come morte, è in realtà riempito da quel mistero originario che diciamo Dio, dalla sua luce pura e dal suo amore che tutto ci toglie e tutto ci dona; un giorno da questo insondabile mistero vedremo emergere il volto di Gesù, il Benedetto, vedremo che esso ci guarda e che questa concretezza è il superamento divino di tutta la nostra vera accettazione dell’incomprensibilità del Dio senza forme: ecco, ecco all’incirca come vorrei, non dico descrivere ciò che viene, ma perlomeno indicare balbettando come possiamo provvisoriamente attenderlo, nel mentre sperimentiamo il tramonto stesso della morte come l’inizio di ciò che viene». In questo testo, commosso e commovente, l’esperienza umana del tramonto del giorno della vita terrena si salda con l’esperienza di fede del tramonto della morte nell’incontro con il Signore.





Karl Rahner
Il morire cristiano
Giornale di teologia 341











© 2009. Editoriale a Karl Rahner, Il morire cristiano
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