16/07/2008
117. Il libro del papa su Gesù nel conflitto delle interpretazioni di Rosino Gibellini
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Scritto lungo il corso di tre anni (2003-2006), è firmato con la data del 30 settembre 2006 (festa di san Girolamo) il primo volume dell’atteso libro del papa, Gesù di Nazaret, che ricostruisce il ministero di Gesù dal battesimo nel Giordano fino alla trasfigurazione. Ed è in preparazione la seconda parte, che si presenta «più difficile dal punto di vista storico» (P. Stuhlmacher). Il libro reca una doppia firma, Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, ma impegna solo la prima, e cioè il teologo, e non la seconda, il papa: «Non ho di sicuro bisogno di dire espressamente che questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del “volto del Signore” (cfr. Sal 27,8). Perciò ognuno è libero di contraddirmi» (20). Fatto singolare e singolare ammissione. È la prima volta che un papa scrive un libro su Gesù, ponendo inoltre una chiara distinzione tra il suo scritto e il suo magistero. La singolare ammissione potrebbe avere positive conseguenze, come è stato universalmente notato e augurato, sul sempre difficile rapporto tra esercizio del magistero e ricerca teologica. Il fatto potrebbe favorire un nuovo rapporto, dialogico e costruttivo, tra queste due realtà ecclesiali al servizio della comunità e della società.

Il papa domanda solo «quell’anticipo di simpatia (Sympathie) senza il quale non c’è alcuna comprensione» (20). E, del resto, lo stesso Schleiermacher, fondatore dell’ermeneutica moderna, richiedeva, ancor più, una immedesimazione (Einfühlung) dell’interprete con il pensiero dell’autore, come condizione della comprensione. La simpatia richiesta dal papa è stata accordata abbondantemente dai biblisti e dai teologi, che hanno letto e riletto, e, solo dopo, rispettosamente scritto, esprimendo consensi, avanzando precisazioni e critiche, formulando anche dissensi.

Il Gesù di Nazaret del papa è un libro da leggere. E il consiglio lo dà il teologo evangelico Eberhard Jüngel ai suoi figliocci cristiani, ma anche ai suo inipoti «ateisticamente socializzati/e» in quella che era la Repubblica democratica tedesca; ai suoi giovani amici – cristiani, mezzocristiani, atei – ripete l’esortazione delle Confessioni di Agostino: tolle, lege, «prendi, leggi»; anzi «prendete e leggete», anche se il dotto teologo di Tubinga sa che nel libro delle Confessioni le parole citate in latino facevano riferimento alla sacra Scrittura, e non al libro di un cattolico, scritto per di più da un papa. Riconosce Jüngel che, facendo questa raccomandazione ai suoi giovani amici, «fa il complimento più grande che si possa fare a un libro teologico». È un libro che li renderà più riflessivi; e inoltre riceveranno una «impressione viva» della persona che è il punto di riferimento di tutte le comunità cristiane. Ratzinger si interroga: che cosa ha portato Gesù? E risponde (e questa è, nella lettura di Jüngel, la tesi fondamentale del libro): Gesù ha portato Dio; ma, così, citando P. Tillich, tocca l’«interesse supremo e incondizionato» che muove ogni essere umano. E non può non interessare anche giovani lettori e lettrici. Ma non è sospetto questo consiglio (insinua argutamente Jüngel) che viene da un professore dell’Università di Tubinga, e raccomanda per giunta un libro scritto da un ex-professore della stessa università che, nel celebre racconto del grande scrittore russo Vladimir Solov’ëv, ha concesso il dottorato honoris causa in teologia nientemeno che all’«Anticristo»? Per quanto sospettabile possa essere, il consiglio alla lettura viene autorevolmente dato e autorevolmente giustificato.

Che libro ha scritto il papa teologo? Come lo si potrebbe definire? Tra le definizioni date si può citare quella dell’esegeta di lungo corso, noto in campo internazionale, Franz Mussner, professore emerito di teologia ed esegesi neotestamentaria a Ratisbona: «Un libro delle relazioni» (Ein Buch der Beziehungen). E ne indica cinque: 1) la relazione fondamentale illustrata nel libro è quella del Figlio con il Padre; 2) si istituiscono inoltre relazioni del tema trattato nel libro con relazioni simili rinvenibili nei vangeli e nel Nuovo Testamento; 3) si sottolinea la stretta relazione tra Antico e Nuovo Testamento; 4) la trattazione si mantiene in relazione con i Padri della chiesa; 5) ma si mantiene in relazione anche con la situazione odierna del mondo, come risulta dalla sua spiegazione delle beatitudini, che vengono attualizzate.

Anche se Eberhard Jüngel consiglia ai suoi giovani amici di saltare, per una prima lettura, l’Introduzione (salvo riprenderla in una seconda lettura), il biblista e il teologo la leggono e la citano con grande attenzione, perché in essa viene formulato il metodo seguito in questa ri-lettura della figura di Gesù.

Una ricerca su Gesù, che attinge alla Bibbia, non può rinunciare al metodo storico: «Va detto innanzitutto che il metodo storico – proprio per l’intrinseca natura della teologia e della fede – è e rimane una dimensione irrinunciabile del lavoro esegetico. Per la fede biblica, infatti, è fondamentale il riferimento a eventi storici reali» (11). Ma vengono subito indicati i limiti del metodo storico «per chi si sente interpellato dalla Bibbia» (12): 1) esso spiega il passato e lascia la parola nel passato; 2) ha per oggetto la parola degli uomini in quanto umana, anche se forse può intuire il «valore aggiunto» racchiuso nella parola del passato; 3) non può percepire, almeno immediatamente, l’unità di tutti quei libri che sono noti come «Bibbia». Il metodo storico necessita, pertanto, di integrazioni. E precisamente, considerare la Bibbia nella sua interezza, nell’insieme di tutti i libri che la costituiscono, praticando una «esegesi canonica» (14), ma non una esegesi canonica che considera l’insieme dei libri che costituiscono la Bibbia come letteratura, ma una esegesi canonica che si fa «esegesi teologica» (15), che considera la Bibbia come sacra Scrittura e sa cogliere in Gesù Cristo la chiave del tutto: «Certo, l’ermeneutica cristologica, che in Gesù Cristo vede la chiave del tutto e, partendo da Lui, apprende a capire la Bibbia come unità, presuppone una scelta di fede e non può derivare dal puro metodo storico» (15).

Il papa, quindi, accetta il metodo storico come presupposto, ma lo integra e lo supera in una esegesi canonica, praticata come esegesi teologica, che mette in atto una ermeneutica cristologica. Si tratta di una metodo complesso, costituito, come abbiamo mostrato, da quattro concettualità, o da quattro passi da compiere, dove negli ultimi due interviene la fede.

Gli storici delle origini cristiane sanno che i due decenni compresi tra il 30 d.C., datazione probabile della crocifissione, e il 50 d.C., datazione approssimativa del concilio di Gerusalemme e della apparizione dei primi scritti che formeranno il Nuovo Testamento, sono gli anni più oscuri per lo storico delle origini. Si va formando la cristologia, che interpreta Gesù solo a partire dal mistero di Dio. Ma, secondo la teologia, si forma a partire da quanto precede. E, allora, scrive Ratzinger: «Non è più logico, anche dal punto di vista storico, che la grandezza si collochi all’inizio e che la figura di Gesù abbia fatto nella pratica saltare tutte le categorie disponibili e abbia potuto così essere compresa solo a partire dal mistero di Dio?» (18s.). Seguendo questo tracciato – storico-teologico – Ratzinger chiarisce: «Ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il “Gesù storico” in senso vero e proprio» (18).

Il libro del papa presuppone il metodo storico-critico, ma lo supera: è il libro di un «teologo sistematico che pratica esegesi biblica», il cui interesse precipuo, se non esclusivo, è andare alla ricerca della «teologia di Gesù»; e pertanto è una «dogmatica narrativa» o una «cristologia narrativa». Anche per Rudolf Pesch il punto di costruzione del libro è «senza dubbio un punto dogmatico-sistematico». Ne è un chiaro indice l’utilizzazione del Vangelo di Giovanni. Il metodo storico utilizza prevalentemente i vangeli sinottici, ricorrendo al quarto vangelo per le necessarie integrazioni. Ratzinger, invece, fa un largo impiego del Vangelo di Giovanni, che attribuisce, pur conoscendo bene la questione giovannea, ad un testimone oculare. Un punto nevralgico che non è condiviso da molti biblisti e teologi. Scrive Eberhard Jüngel: «Che il Prologo del Vangelo di Giovanni lo si debba ad una riflessione-di-fede “post-pasquale”, anche Ratzinger non potrà contestarlo. Con la sua argomentazione si corre però il pericolo di non vedere più, di fronte al folto bosco, i singoli alberi. Postulare la “interiore unità della Scrittura” non è in alcun modo illegittimo, ma dovrebbe essere molto più complesso, più ricco di tensioni e più carico di problemi, di quanto non lasci sospettare il libro di Ratzinger». Ma è sorprendente, dal punto di vista cattolico ed ecumenico, che un libro scritto da un teologo dogmatico sia tutto intessuto di Bibbia e di esegesi. A questo proposito si possono citare le parole dell’esegeta cattolico di Erfurt, Heinz Schürmann: «Alla domanda: Lei è esegeta o teologo? vorrei poter rispondere: Lei è pianista o musicista?».

Il libro che ispira il papa è Il Signore (1949) di Romano Guardini, perché sa presentare una immagine di Gesù «come Egli visse sulla terra e come, pur essendo interamente uomo, portò nello stesso tempo agli uomini Dio» (7). Ma non si tratta di nostalgia: se lo scrittore italo-tedesco non conosceva il metodo storico-critico, Ratzinger invece «lo ha rielaborato e vuole procedere oltre. Questo rende il suo libro interessante per i neotestamentaristi di oggi».

Ma si può citare anche von Balthasar: secondo il biblista cattolico di Monaco di Baviera, Knut Backhaus, il libro del papa ci dà una «estetica-del-Cristo», in quanto mette in atto la metodica di von Balthasar della «percezione della figura» (Gestalt) del Cristo. È quindi un libro diverso da una ricerca storica, anche se ha scansione storico-narrativa. Egli osserva acutamente: «La ricerca storica su Gesù con questo libro non segna il raggiungimento di alcun risultato nuovo, ma neppure essa giunge a compimento». E cioè: il libro del papa non porta alcun contributo al metodo storico-critico, ma non vieta ulteriori contributi al metodo storico-critico, provenienti da altre parti e praticando altre metodologie.

Si potrebbe dire che il Gesù di Ratzinger si contrappone al Gesù liberale di Harnack: su questo Ratzinger si era già espresso nel libro-intervista Dio e il mondo (2000), ma il dogmatico di Osnabrück, Jan-Heiner Tück, lo esprime in modo ancora più diretto e incisivo, affermando che nella ricostruzione di Ratzinger «anche il Figlio appartiene al vangelo».

Abbiamo prima indicato i quattro passi richiesti dalla metodica di Ratzinger. Il biblista evangelico di Monaco di Baviera, Jörg Frei, li riduce a tre: il papa procede «storicamente, canonicamente, ecclesialmente», e conclude l’attenta analisi: «L’istanza fondamentale cristologica, che Joseph Ratzinger persegue con questa opera – al di là di molteplici correzioni da apportare nel dettaglio – è teologicamente urgente ed esegeticamente del tutto fondata», ma si deve sapere che l’esegeta, come esegeta, procede con altro metodo, diverso dal metodo dogmatico, perché è più attento al differenziarsi dei testi, oltreché ai possibili collegamenti, ma anche a giustificate differenze teologiche.

Si deve però notare che Ratzinger si mostra severamente critico con il metodo storico-critico, e questo rimane incomprensibile per molti studiosi, cattolici ed evangelici. Scrive il biblista cattolico Rudolf Hoppe dell’Università di Bonn: «Francamente incomprensibile è il suo verdetto contro un accesso conseguentemente storico-critico, anche se poi lo ritiene “irrinunciabile” [...]. Qui il teologo J. Ratzinger non ha forse sottovalutato il grande potenziale che detengono la ricerca storica e la presentazione della tradizione su Gesù, al di là di tutti i limiti insuperabili? [...]. In ogni caso si annuncia già un nuovo “giro” (Runde) nella ricerca storica su Gesù».

Come si spiega questa diffidenza nei confronti del metodo storico? Il biblista cattolico dell’Università di Münster, Martin Ebner, parla di «paura della molteplicità di immagini di Gesù» a cui potrebbe portare il metodo storico; di «paura di entrare a contatto con il mondo sociale», e questo spiegherebbe la focalizzazione del libro sui discorsi, e non sulla storia dei miracoli e sulla comunità di mensa con pubblicani e peccatori; di «paura di confrontarsi con le proprie origini», e quindi con le linee di sviluppo che, anche in modo contraddittorio, hanno portato a quella che ora è la propria comunità-di-religione.

Il biblista di Wuppertal, membro della Commissione teologica internazionale, Thomas Söding, che ha il merito di aver chiamato a raccolta i neotestamentaristi tedeschi a discutere il libro del papa teologo, ricorda la «simpatica ingenuità» che fa dire a Ratzinger in limine libri: «Io ho fiducia nei Vangeli» (17); ma la puntualizzazione dei biblisti è: «Ricercare criticamente fino a che punto questa fiducia sia giustificata è e rimane compito dell’esegesi neotestamentaria e della sua ricerca storica su Gesù». Facendo il punto sugli interventi, Söding scrive: «Il cuore della discussione, che sempre di nuovo affiora dalle risposte, tocca il rapporto fra teologia e critica storica, fra evento e memoria, fra rivelazione e storia».

I problemi riaffiorano, come spesso ricordava Karl Rahner. Se Maurice Blondel in piena crisi modernista aveva scritto Storia e dogma (1904), il problema ora si fa ancora più complesso e si configura come «storia, rivelazione, dogma», ma la teologia cristiana ha la strumentazione per affrontarlo in modo differenziato, da parte dell’esegesi e da parte della dogmatica: di una esegesi che tiene i necessari contatti con la dogmatica, e di una dogmatica che concede alla ricerca esegetica la stessa «simpatia» che essa sollecita per la propria riflessione sistematica.




© Testo pubblicato in Concilium. Rivista internazionale di teologia 3/2008
sul tema: Gesù come il Cristo - nel crocevia della culture
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Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
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